Il desiderio di essere inclusivi nella lingua fa spesso discutere: perché quando parliamo a una pluralità usiamo il maschile universale e non il femminile? Perché non ricorriamo più spesso a nuove formule come tutt*? Magari per alcuni potrebbe sembrare una formalità, ma invece è una questione che ha un valore decisamente più urgente. Per riflettere sul legame tra linguaggio e identità di genere, ilLibraio.it ha parlato con la sociolinguista Vera Gheno e con il collettivo uonnabi

Sembra che non ci sia niente che faccia infervorare di più che il desiderio di essere inclusivi nella lingua. C’è chi sbuffa, chi ridicolizza, chi rimpiange il fiorentino aureo e chi diventa paladino della grammatica: “ma che sono questi asterischi, ma che vogliono dire, ma smettiamola”.

Appena la discussione tocca questo argomento, sono in tanti ad alzare gli occhi al cielo, esasperati, come se non ci fosse sacrilegio più grande che quello di infrangere la tradizione della lingua italiana (salvo poi constatare che il linguaggio, da sempre, è in continuo e costante mutamento). Viene allora da chiedersi: come mai tutto questo attaccamento? E, soprattutto, che cosa nasconde?

Una risposta ce la dà Vera Gheno, sociolinguista, scrittrice e autrice, tra gli altri, di Femminili singolari (effequ) e Parole contro la paura (Longanesi): “Quando si parla specificamente del cambiamento nella direzione di una lingua inclusiva, molti invocano il ‘politicamente corretto‘ (come se fosse prima di tutto un concetto per forza negativo, ma anche come se fosse una forma di gentilezza chiamare sindaca una donna che ricopre il ruolo di sindaco); io, più che politicamente corretto, lo considero una forma di necessaria evoluzione linguistica, che tiene conto di tutto ciò che una volta era considerato anomalo, un’eccezione alla norma”.

Qualche esempio? “Non troppi anni fa, un omosessuale maschio poteva venire definito ‘invertito’ (rispetto alla ‘normalità’ dell’eterosessualità); a me sembra un grande passo in avanti che una parola come ‘invertito’ oggi sia praticamente caduta in disuso. Penso che la nostra società sia sufficientemente ampia e variegata da accogliere al suo interno tutte le sfumature di noi esseri umani, da ogni punto di vista: etnia, genere, identità sessuale. E penso che la lingua possa e debba ‘seguire’ anch’essa questa strada”.

E a proposito di sfumature: “L’italiano standard non sempre esprime tutto quello che vorremmo comunicare, si pensi a quanti termini dialettali veicolano concetti che non potrebbero avere una traduzione precisa. Ma quelle sfumature non possono essere represse soltanto perché non sono presenti sullo Zanichelli. La lingua è una questione politica e sociale: è una questione di potere. Ed è per questo che deve rispecchiare tutta la società”.

A parlare sono Flora Ciccarelli e Giovanni Mauriello di uonnabi, collettivo artistico di Torino che, in occasione del mese del Pride, ha lanciato su Instagram diverse iniziative, tra cui Chiamami col mio pronome, un progetto di inclusività linguistica realizzato insieme a Claudia Ska, Kris, La_gacta, Drama MilanoZucchero Sintattico, e finalizzato a porre l’accento proprio sull’importanza dei pronomi che utilizziamo: “Siamo abituati a vivere in una società binaria, ma non è scontato rivolgersi a un uomo con il pronome maschile e a una donna con quello femminile”. Certamente è giusto chiedersi come comportarsi, anche perché, come spiega Giovanni, “il linguaggio è spesso istintivo, quindi è normale non sapersi orientare, ma è anche necessario porsi delle domande”.

Il fatto che molte persone, seguendo il progetto sui social, abbiano colto l’occasione per parlare di misgendering, anche soltanto riprendendo l’hashtag (ma “in certi casi un hashtag può fare la differenza” ci dicono Flora e Giovanni), significa che è un argomento molto sentito, e che chiede di avere più spazio.

Ma facciamo un passo indietro e partiamo da una delle prime lezioni della linguistica italiana: l’utilizzo della lingua non è mai innocente. Per questo quando scegliamo di esprimerci attraverso determinate espressioni stiamo in realtà edificando una struttura concettuale che va ben oltre la comprensione immediata. Si tratta di una scelta – come tutte le scelte, del resto – reversibile, che cambia nel tempo e a seconda del contesto: pensiamo, solo per fare un esempio, a come è connotata la comunicazione – o meglio, il gergo – dei ragazzi, che ricorrono inconsciamente a formule e modi di dire (il cosiddetto “giovanilese“) per esprimere il loro senso di appartenenza a un gruppo.

Lo stesso vale per i dialetti, o per i linguaggi tecnici e professionali: a seconda delle parole che utilizziamo lasciamo trapelare tante informazioni su di noi, da dove proveniamo o quale ambiente culturale frequentiamo: in pratica, attraverso le parole, definiamo chi siamo. Il discorso, come è ovvio, è molto stratificato, e diventa ancora più complesso se trasferito a quello di identità di genere: “Non è indifferente chiamare o no determinate cose o determinati fenomeni con il loro nome, anzi, nominarli, perché nominandoli diamo a loro più visibilità, contribuiamo a renderli normali, naturali”, fa notare Gheno, “In particolare, nel caso della questione di genere, penso che evidenziare l’esistenza di persone che fino a oggi non ricadevano nelle definizioni consuete dando loro un nome sia un passo importante nella direzione di una società massimamente inclusiva“.

Quante volte, mentre scriviamo o parliamo, per indicare una pluralità di persone ricorriamo al plurale maschile al posto del plurale femminile? Certo, lo facciamo per convenzione, perché ci è stato insegnato a scuola, ma da dove viene questa regola grammaticale? E poi “chi l’ha detto che la grammatica deve essere un monolite inscalfibile?”, dice Flora “non è detto che la grammatica, la cultura, l’arte o la storia non debbano mai essere messe in discussione”.

Per alcuni potrebbe sembrare una pura formalità, ma invece è una questione che ha un valore decisamente più significativo e urgente: “A volte capita anche di essere bullizzati quando si provano a utilizzare espressioni alternative come ‘ciao a tutt*’, viene proprio fatto notare quanto la cosa sia frivola e non importante, ma se per le persone fosse davvero così poco importante non sarebbero lì a puntualizzare”.

L’approccio alla lingua che propongono Flora e Giovanni, contrariamente a quello che ci viene impartito, è più riflessivo, critico e personale, la stessa Gheno parla della necessità di fare “una minima attenzione prima di tutto all’uso corretto di maschili e femminili, ma anche non rigettando come inutili stranezze i ‘neologismi’ che riguardano per esempio le nuove identità di genere”. E aggiunge: “Secondo me è fondamentale ricordarsi che certi limiti della nostra lingua vengono sentiti soprattutto da chi si ritrova nella situazione di non essere riconosciuto o di essere discriminato per quello che è, e che è molto difficile ricordarsi che ognuno di noi ha una sensibilità sua, personale. Insomma, prima di derubricare come quisquilie le rivendicazioni linguistiche che non ci riguardano direttamente, teniamo, per l’appunto, a mente che non ci riguardano direttamente, e che questo potrebbe contribuire a renderci un po’ ottusi nei confronti di una specifica istanza“.

Di formule per esprimersi in modo più inclusivo ne esistono moltissime, ma come sottolineano Ciccarelli e Mauriello, sarebbe assurdo indicarne una giusta: “L’importante è sforzarsi sempre, fare un tentativo. Per esempio, quando parliamo di noi, a volte usiamo il femminile universale, altre quello maschile, altre ancora l’asterisco… insomma, ci piace essere un po’ creativi. E anche questa può essere una possibile soluzione: non rendere così scontato che il plurale debba essere per forza maschile”.

E quale luogo migliore di internet, e dei social in particolare, per le sperimentazioni linguistiche? “Il digitale ha avuto e ha il grande pregio di dare voce, anche in campo linguistico, a chi prima non ce l’aveva, ossia la ‘gente comune’ (mi si passi l’espressione, che non mi piace, ma rende l’idea). E in questo suo dare visibilità agli usi più ‘bassi’ della lingua, sicuramente svolge un ruolo importante perché permette alle persone, ai parlanti, di confrontarsi su usi e costumi linguistici non tradizionali”, nota Gheno, stilando una serie di formule raccolte proprio attraverso i suoi contatti Facebook (che ringrazia), a cui ricorrere in caso si volesse iniziare a provare a cambiare un po’ le solite abitudini:
– Il maschile sovraesteso: Cari tutti, siamo qui riuniti…
– La doppia forma: Care tutte e cari tutti, siamo qui riunite e riuniti…
– La circonlocuzione: Care persone qui riunite…
– Il femminile sovraesteso: Care tutte, siamo qui riunite…
– La u: Caru tuttu, siamo qui riunitu…
– L’omissione dell’ultima lettera: Car tutt, siamo qui riunit…
– Il trattino basso: Car_ tutt_, siamo qui riunit_…
– L’asterisco: car* tutt*, siamo qui riunit*…
– L’@: car@ tutt@, siamo qui riunit@…
– Lo schwa: Carə tuttə, siamo qui riunitə…
– La x: Carx tuttx, siamo qui riunitx…
– La y: Cary tutty, siamo qui riunity…
– Il mix: Carei tuttei, siamo qui riunitei…
– Il mix puntato: Care.i tutte.i, siamo qui riunite.i…
– La barra: Care/i tutte/i, siamo qui riunite/i…
– L’apostrofo: Car’ tutt’, siamo qui riunit’…
Certo, non si può ancora sapere quale sarà la forma che prevarrà, ma intanto tutt* noi potremmo partire da qui.

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