Ormai da anni si discute, sui social e sui media, a proposito di inclusività della lingua e dell’uso dello schwa. Per entrare a fondo in questo dibattito, su ilLibraio.it proponiamo un ampio estratto dal saggio di Vera Gheno, sociolinguista, autrice e traduttrice (molto attiva nella divulgazione online in ambito linguistico) dal titolo “La lingua non deve essere un museo. La necessità di un linguaggio inclusivo”, tratto dalla raccolta “Non si può più dire niente? – 14 punti di vista su politicamente corretto e cancel culture”

La lingua non deve essere un museo
La necessità di un linguaggio inclusivo

“Inclusività” è indubbiamente una delle buzzword, o parole d’ordine, del momento; sembra quasi che debba comparire obbligatoriamente in qualsiasi documento pubblico o aziendale per far sì che quest’ultimo appaia sufficientemente aggiornato. Questo, sia chiaro, non significa che tutte le persone che la impiegano siano in cattiva fede, o la usino a vanvera ma, piuttosto, che si corre il rischio di sprecarla abusandone: le parole, si sa, tendono a “plastificarsi” velocemente, diventando quasi moleste, così come è successo negli ultimi anni a “resilienza”.

L’italiano mutua il termine dall’inglese: una lingua che ha iniziato la riflessione su questi temi ben prima di noi. Inclusivity viene creato sul modello di exclusivity negli anni venti del Novecento; e già questa genesi è degna di nota: prima si crea la parola che indica qualcosa di riservato a pochi, fortunati esseri umani; solo in un secondo tempo si avverte l’esigenza di coniare il suo opposto, cioè un sostantivo che abbracci (o che tenti di abbracciare) tutti, magari tuttə. Evidentemente, nel nostro mondo e nel tessuto della nostra società sono successe cose che hanno portato all’emersione di questo concetto, rendendo necessaria – per molti – una riflessione sull’argomento. Come mai proprio adesso?

Uno dei motivi sta nella globalizzazione che, con la sua opera di “contrazione” del mondo, ha fatto sì che entrare in contatto con le diversità divenisse più semplice e immediato, oltre, ovviamente, ad ampliare i nostri orizzonti possibili; d’altro canto, va considerato anche il ruolo di internet, che, in fondo, ha portato a conseguenze simili: quella di porci in continuo, costante, inevitabile e talvolta doloroso contatto con l’alterità. Sappiamo che il rapporto istintivo dell’essere umano con la diversità non è pacifico: lo xénos viene vissuto come potenziale pericolo e, come tale, provoca reazioni di paura. Non è strano, dunque, se la reazione di fronte alla richiesta di cambiare qualcosa dei propri comportamenti o delle proprie abitudini, magari per venire incontro alle esigenze di qualcun altro, non sia per forza né positiva né priva di resistenze: la xenofobia e il misoneismo hanno radici simili, che si celano nella scarsa voglia di cambiare rispetto all’abitudine, scoprendo magari che quello che si pensava essere il punto di vista per eccellenza non è altro che uno dei punti di vista possibili.

Nel suo saggio Lingua e essere, la studiosa e attivista tedesca Kübra Gümüşay paragona la lingua a un museo. In esso troviamo due tipologie di persone: da una parte gli innominati, che sono i visitatori del museo, e che rappresentano la normalità, lo standard, e che pertanto non hanno bisogno di alcuna particolare etichetta; dall’altra parte, nelle teche, invece, troviamo i nominati, coloro che differiscono dalla norma, gli strani, i devianti. Queste persone, che non hanno altre colpe se non quella di essere, appunto, diverse, vengono nominate dagli innominati, che sono quindi anche nominanti. In altre parole: chi è, secondo una lunga serie di parametri, normale, non solo ha modo di sfuggire alle etichette, ma ha anche il potere di decidere quali etichette debbano portare gli altri, gli anormali. Questo sistema, nel suo complesso, è stato a lungo considerato normale. Nella sua essenza, implica che una persona abbia più o meno diritto alla felicità dell’autodeterminazione in base a parametri del tutto aleatori: chi ha deciso che bianco vale più di nero, o che abile vale più di disabile? Chi ha deciso quale sia la normalità? Chi ha deciso, di conseguenza, che il diritto alla soddisfazione esistenziale vari a seconda di caratteristiche intrinseche dei singoli esseri umani? Può sembrare un salto logico, parlare di “soddisfazione esistenziale” quando la questione sembra riguardare l’uso delle parole e il modo di “cartellinare” gli esseri umani, o di “cartellinarsi”; ma in una società basata sulla capacità della parola, come ci ricorda ancora Tullio De Mauro, chi non ha le parole è come se esistesse a metà: «Senza linguaggio niente polis, niente possibilità per gli umani di essere la specie vivente “più aggregata”: perché lo sia, perché possa edificare la vita comune, alla specie umana la physis ha dato il logos, la capacità di parlare».

In una azienda che ho avuto modo di visitare recentemente per parlare di diversità e inclusione, ho sentito citare una frase di Vernā Myers: «Diversity is being invited to the party; Inclusion is being asked to dance», ossia «Diversità significa essere invitati alla festa; inclusione significa essere invitati a ballare»; a mio avviso, questa citazione, fortemente suggestiva, nasconde un problema: non supera l’idea che ci sia qualcuno titolato a decidere chi può stare in pista. E chi altri, se non gli innominati di cui parla Gümüşay? Sono loro che, ancora una volta, sembrano poter scegliere chi invitare sulla pista e chi, invece, lasciare a sedere. Per quanto possano essere generosi, dunque, non fanno altro che spostare i confini del gruppo di chi rimane escluso dalle danze. Così come, dunque, non basta aprire le teche per risolvere le disparità di trattamento all’interno della nostra società, non è sufficiente nemmeno invitare a ballare la diversità: bisogna distruggere l’idea delle teche assieme a quella che ci siano persone titolate a scegliere chi far ballare accanto a sé. In una discussione su Linkedin, sul profilo di Daniel Juday, scaturita dalla medesima citazione, un commento notava che forse essa potrebbe venire riscritta in questo modo: «Diversity is going to a party; Inclusion is being a member of the party-planning committee», cioè «Diversità significa andare a una festa; inclusione significa essere membro del comitato organizzativo».

Lo studioso di diversità e inclusione Fabrizio Acanfora argomenta: «Esiste […] uno squilibrio di potere tra chi include, che anche senza porre condizioni all’ingresso nel gruppo di maggioranza può decidere se e quando permetterlo, e chi viene incluso, che riceve il permesso di far parte del gruppo in cui è accolto». Dunque, interrogandosi sulla questione, Acanfora propone in alternativa a “inclusività” l’espressione “convivenza delle differenze”: l’idea che le varie differenze convivano tramite uno sforzo reciproco (dal che “delle”, non “con le”), un avvicinamento voluto da ogni parte. Scrive ancora Acanfora: «Convivenza non dice nulla su chi decide cosa, ma ispira un’idea di mutuo rispetto, parità e neutralità. Per quanto mi riguarda, […] preferisco fare un passo avanti e cominciare a parlare di convivenza delle differenze, che vuol dire responsabilità collettiva di ogni singolo elemento della società, dalla maggioranza alle minoranze alle singole persone che le compongono, nella creazione di una cultura profondamente solidale e rispettosa della diversità e dell’unicità di ciascunə». Questo significa superare l’idea che la società debba essere normocentrica, anche perché di fatto, a forza di definirla, questa normalità non esiste; eppure, sembra dare diritto a dei privilegi incontrovertibili.

All’apice di questa ipotetica piramide del privilegio, quello di non avere un cartellino, di non stare dentro a una teca in quanto “normale”, sta il maschile rispetto al femminile e agli altri generi, l’eterosessualità, l’essere cisgender, bianchi, di mezza età, probabilmente cristiani (o comunque, di una religione che non richiede segnali evidenti dell’appartenenza a essa quali veli o turbanti), senza disabilità, senza neurodiversità, l’essere benestanti, con un corpo e un carattere conforme alle attese sociali. Ogni deviazione da questo modello ristrettissimo di normalità porta, o può portare, a delle complicazioni: se non discriminazioni vere e proprie, difficoltà piccole o grandi che possono portare a una minore felicità. Le complicazioni, poi, si assommano: una donna bianca soffre di un fattore di discriminazione – o complicazione –, una donna nera di due. Un uomo transgender con disabilità di due, se è anche bipoc[1] di tre, e così via, in maniera intersezionale. Chiaramente, questo non esclude che anche un maschio bianco cisgender eterosessuale (o cishet) possa venire discriminato, in determinate circostanze; semplicemente, è più rara la possibilità che tale discriminazione sia sistemica, strutturale.

Certo, a ben riflettere, se si tenta di rimanere dentro ai parametri elencati nella lista accennata sopra, l’essere umano ideale della nostra società ricorre in una percentuale risibile: quanti sono i maschi bianchi eterosessuali cisgender cristiani di mezza età senza disabilità e senza neurodiversità, con corpo e carattere conforme, benestanti? Ma soprattutto, quante sono le persone con queste caratteristiche che non hanno consapevolezza non di avere una colpa, e forse nemmeno di detenere esplicitamente un privilegio, quanto piuttosto di avere avuto meno problemi a fare cose nella vita, ma anche a fare cose con le parole, per dirla alla John Austin?

Già, perché in questo andare avanti e indietro tra vita e parole, forse conviene esplicitare che le caratteristiche precedentemente elencate hanno una conseguenza non solo sull’esistenza o meno di etichette con cui definirsi o venire definiti, ma anche sulla “felicità” dei nostri atti linguistici, ossia sulla possibilità di ottenere, con le nostre parole, i risultati sperati. Spesso, chi non è “conforme” non ha modo di farsi ascoltare o, ancora prima, di farsi sentire: i suoi spazi di parola sono ristretti, risicati; raramente, chi è abituato ad avere il microfono si metterà a passarlo. E anche se, in alcuni casi, le fattispecie marginalizzate riuscissero ad avere una voce pubblica, non è detto che le loro parole sarebbero considerate rilevanti come quelle degli altri. E così, la persona marginalizzata dalla società tenderà a venire marginalizzata anche dalla comunicazione di massa: meno sentita, meno ascoltata, meno creduta. Questa è l’“ingiustizia discorsiva”: come la spiega Claudia Bianchi, «l’appartenenza a un gruppo sociale discriminato […] sembra distorcere e a volte annullare la possibilità di agire efficacemente con le proprie parole».

Quando si tenta di fare un riepilogo degli “-ismi” e delle “-fobie” che percorrono la nostra società, si ottiene un elenco lunghissimo, impressionante, per forza di cosa parziale, che difficilmente vediamo nella sua interezza. Quasi sempre, in questi casi di discriminazione, l’ingiustizia discorsiva ha un ruolo per nulla secondario, proprio per il ruolo “agente” e “nominante” delle parole. Ne è un esempio chiaro la discriminazione che oggi è spesso al centro del dibattito sul linguaggio inclusivo, pur essendone solo una delle componenti: il sessismo. È un termine relativamente recente, risalente in italiano al 1974, che lo mutua dal francese sexisme; di nuovo, la datazione della parola racconta di un mondo in cui una certa relazione tra i sessi era data per scontata, non certo messa in discussione. Per esempio, perché le donne sono “l’altra metà del cielo”? “Altra” rispetto a cosa? Dizionario alla mano, il significato di “sessismo” è «tendenza per cui, nella vita sociale, la valutazione delle capacità intrinseche delle persone viene fatta in base al sesso, discriminando specialmente quello femminile rispetto a quello maschile». Forse, nelle prossime edizioni, la chiosa potrebbe venire completata parlando di “(manifestazione dell’)identità di genere” e non solo del sesso come fattore discriminatorio, ma già il fatto che essa includa l’avverbio “specialmente” indica che esistono altri tipi di sessismi, oltre a quello più massiccio, se non altro per questioni quantitative (le donne sono globalmente la maggioranza della popolazione).

Il sessismo linguistico non è altro che la manifestazione, a livello linguistico, di tale mentalità. Una domanda che viene spesso posta a me, come pure ad altre persone che si occupano di lingua, è se l’italiano sia o meno una lingua sessista. Direi che non lo è da un punto di vista strutturale: al suo interno contiene, infatti, tutte le soluzioni per venire usato in maniera non sessista, almeno finché si rimane nell’alveo del binarismo di genere (maschile e femminile). Ciò che spesso risulta sessista è il modo in cui la lingua viene usata, ma non è una questione di sistema linguistico, quanto piuttosto di scelte compiute in maniera più o meno consapevole dai parlanti. L’androcentrismo socioculturale non può che produrre una lingua androcentrica: per esempio, non c’è un motivo specificamente linguistico per cui la base delle parole debba essere per forza il maschile, o perché il femminile venga estratto dal maschile tramite suffissazione; le motivazioni sono in quella plurimillenaria centralità maschile della società alla quale ho già accennato. Magari, un ordinamento matriarcale avrebbe partorito una lingua ginocentrica. E forse, anche un’urbanistica, una medicina, un sistema di trasporti pubblici a misura di donna. Di fatto, chi non è di genere maschile vive nella nostra società quasi come se fosse suo ospite.

In ogni caso, al di là di comportamenti linguistici specificamente sessisti, specchio della struttura e della mentalità sociale retrostanti, a mio avviso sessista è anche la scelta, secondo molti studiosi (spesso di sesso maschile; questo va rilevato) logica e priva di stigmatizzazioni di genere, del maschile sovraesteso o della prevalenza maschile nei nomi di mestieri. In realtà, come una crescente mole di studi mostra, l’uso del maschile viene decodificato dal cervello umano come maschile, non come neutro. Il maschile sovraesteso facente le veci di neutro vizia gli algoritmi e contribuisce a rinforzarne i bias, che poi si rilevano nelle traduzioni automatiche o nei correttori ortografici, per citare solo alcuni esempi. Certamente, quella del maschile è un’abitudine difficilissima da eradicare, alla quale molte persone, di qualsiasi genere, aderiscono spesso per inerzia. Il “si è sempre fatto così”, in ambito linguistico, ha un peso rilevantissimo, perché, per l’appunto, la spinta misoneista a resistere al cambiamento e a viverlo, conseguentemente, come minaccia, è molto forte.

Fino a qui, ci siamo mantenuti nel perimetro della norma italiana: finché si rimane sul binarismo di genere, dunque, non occorre creare nulla di nuovo, dato che la lingua è perfettamente in grado di risolvere ogni forma di squilibrio nell’uso. Provare per credere: per fare un esempio, i femminili professionali sono normalmente registrati nei dizionari più aggiornati, a ulteriore dimostrazione, anche per i più normativi, che non si sta inventando nulla. Tuttavia, nell’ultimo decennio, ma con maggiore vigore negli ultimi anni, è sorta una questione che non ha precedenti nella storia degli esseri umani: tra le diversità che stanno via via emergendo, una delle più “inedite” è forse proprio quella legata al superamento del binarismo di genere. In altre parole, aumenta il numero di persone che si dichiara come non appartenente né al genere maschile né a quello femminile, e che si identifica in altri modi: non-binary, appunto, ma anche genderfluid, genderqueer, agender, intersex eccetera. L’aspetto comune è quello di non sentirsi né maschio né femmina, ma “altro”. Considerati i disagi sociali a cui si ritrova esposta oggi una persona che fa coming out su questo tema, occorre superare la narrazione distorta e normocentrica della “moda”: si tratta di una questione identitaria seria, e di un disagio reale; disagio dato non dalla condizione non binaria, spesso descritta come una malattia, una disforia di genere (che è semplicemente una condizione umana tra le tante), ma dall’essere impossibilitate a viverla pienamente.

Dichiararsi persona non binaria pone anche ulteriori sfide: come può chi non si riconosce nei due generi canonici abitare comodamente una lingua – per parafrasare Cioran – come l’italiano, che per definizione ha solo il genere maschile e femminile? Qualche soluzione è possibile: per esempio, si può ricorrere a circonlocuzioni, come provo a fare io stessa quando scrivo, parlando di “persona”, “essere umano”, “individuo”, “soggettività” e così via, cioè adottando formulazioni semanticamente neutre. Una persona non binaria può scegliere di usare per sé soprattutto aggettivi epiceni, cioè già ambigeneri (e che quindi possono essere anche multigeneri): “piacente, attraente” invece di “bello/bella”, “furente” invece di “arrabbiato/arrabbiata” e così via; ma è sempre possibile trovare una soluzione di questo tipo? Chiaramente no, e non sarebbe nemmeno giusto pretendere che la risposta al problema sia questa, perché vorrebbe dire costringere una parte delle persone (una parte minoritaria, certo, ma questo non cambia che possa avere delle esigenze specifiche) a limitare il proprio impiego della lingua a un sottoinsieme circoscritto di espressioni. Però qui le soluzioni offerte dalla norma si fermano: non abbiamo modo “ufficiale” di non esprimere il genere, o forse, di esprimere il non-genere.

Proprio per questi motivi, nel corso del tempo, nei contesti dove la presenza di persone non binarie è più frequente (consessi lgbtqia+[2] o collettivi transfemministi), sono state create delle soluzioni “fatte in casa” per ovviare alla struttura di genere dell’italiano, sentita come una limitazione. Lontano dal mainstream, hanno quindi iniziato a circolare soluzioni come l’asterisco in fondo alla parola, la u (“ciao a tuttu”), la chiocciola, l’apostrofo, la barra, la x (“lxi è bellx”), la doppia terminazione (“sei belloa”), il punto, la lineetta, la lineetta bassa, la z, lo schwa (“ləi è bellə”). In questi usi, che non hanno mai ambìto a nessun riconoscimento “ufficiale” e non hanno nemmeno mai tentato di uscire dai contesti nei quali venivano creati, e che in qualche caso proliferavano, c’è poca sistematicità – e sarebbe strano il contrario, dato che si tratta di esperimenti.

In tempi recenti, quello che ha maggiormente catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica è stato proprio lo schwa, forse anche quello più regolarizzato del gruppo, dato che dal 2015 Luca Boschetto, tramite il sito Italiano Inclusivo, ha diffuso una vera e propria proposta d’uso per l’impiego dello schwa per il singolare (“unə bellə bambinə”) e l’uso dello “schwa lungo” per il plurale (“tantɜ bellɜ bambinɜ”).

Personalmente, mi sono avvicinata alla questione per conoscenza diretta, perché non mi ero, ahimè, mai resa conto dell’esistenza di un “problema linguistico” di questo tipo: qualche anno fa, a margine di una conferenza in cui parlavo della necessità di declinare la lingua al femminile (quando pertinente), una persona autodefinitasi non binaria mi chiese se avessi qualche soluzione per l’oralità, dal momento che nello scritto usava per sé l’asterisco, che però, si sa, non ha un suono. Senza pensarci troppo avevo proposto di usare lo schwa, dato che è un simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale, quindi ha un suo suono, che è, peraltro, un suono medio (lo schwa si posiziona al centro del quadrilatero delle vocali, e si pronuncia con la bocca “a riposo”), adatto quindi anche semanticamente a rappresentare un genere indistinto, laddove la u, altrettanto popolare nei contesti lgbtqia+, al mio orecchio suona come un super-maschile, essendone marca in molte lingue areali presenti sul territorio italiano. A posteriori ho scoperto dell’esistenza della proposta di Boschetto, anche se quella che ho adottato personalmente, e che la casa editrice effequ ha scelto prima per la traduzione di Feminismo em comum: Para todas, todes e todos di Márcia Tiburi, 2018 (traduzione di Eloisa Del Giudice, Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune, 2020) e poi come norma redazionale della collana Saggi Pop, prevede l’uso di un solo simbolo, quello dello schwa, sia per il singolare sia per il plurale, avendo verificato che bastano gli accordi tra gli elementi della frase per disambiguare (del resto, in italiano, abbiamo già abbondanza di forme ambigue): “lə bambinə si lava le mani”, “ə bambinə si lavano le mani”. Avendolo assunto come norma al posto del maschile sovraesteso, seppure limitandone l’uso allo stretto indispensabile, effequ ha creato una sorta di vademecum a uso interno per standardizzarne l’impiego, scegliendo, per esempio, lə come unico articolo singolare e ə come unico articolo plurale; decidendo di lasciare invariati i sostantivi o gli aggettivi epiceni (“lə presidente”, “ə presidenti”) e di connettere lo schwa alla radice della parola: “lettor-ə”, “attor-ə”, “professor-ə” eccetera. Le forme in schwa vengono usate in tre casi: quando ci si riferisce a una moltitudine indistinta per genere (“Buonasera a tuttə”); quando ci si riferisce a una persona dal genere indistinto (“Ciascunə dev’essere liberə di definirsi come lo desidera”); quando si parla o si scrive di una persona o di un personaggio non binario (“Demi Lovato si è dichiaratə non binariə”), come fanno Loredana Lipperini e Giovanni Arduino nel libro Danza Macabra, quando si riferiscono a “unə vampirə” di genere esplicitamente non binario.

Stanti così le cose, è difficile – se non intellettualmente disonesto – affermare che lo schwa (o l’asterisco, o le altre soluzioni, sebbene in misura minore) siano innovazioni linguistiche «imposte dall’alto» o «a tavolino»…

(continua in libreria…)

 

[1] Acronimo in uso nell’area anglofona con il significato di black, indigenous, people of color.

[2] L’acronimo, che per alcune persone appare «impossibile da pronunciare», indica lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersex, agender.

[3] L’atto più o meno volontario di impiegare il nome di una persona transgender che le apparteneva prima del cambio di identità sessuale.

Non si può più dire niente

IL LIBRO – Nel libro Non si può più dire niente? – 14 punti di vista su politicamente corretto e cancel culture (racconta di saggi in uscita per Utet) si incontrano idealmente persone che non sono affatto d’accordo tra loro, ma sono disposte a sedersi a un tavolo di confronto.Ecco tutti i contributi raccolti (e qui l’introduzione in cui si spiega l’idea di fondo del volume):

Matteo BordoneUna cosa di due, tre giorni al massimo ovvero Anatomia di un merdoneElisa CuterQualcosa di sinistra. Una critica marxista alla wokenessFederica D’AlessioNo debate. Sesso, genere e una discussione che non s’ha da fare; Giulio D’Antona: Louis, Dave e gli altri. La comicità e il suo pubblico; Federico FaloppaBreve storia di una strumentalizzazione. Alle origini dell’espressione “politically correct”Liv FerracchiatiEventi bizzarri in attesa di una Filosofia del futuro. Quel che so sul politicamente correttoVera Gheno: La lingua non deve essere un museo. La necessità di un linguaggio inclusivoJennifer GuerraInquadrare l’elefante. Il politicamente corretto come frame di destraChristian RaimoUn caso esemplare di discriminazione. Ripartire dall’educazione linguistica democraticaDaniele RielliIl re woke. Il politically correct come tribalismo moraleCinzia Sciuto: Il vicolo cieco dell’identità. Identity politics e cancel cultureNeelam SrivastavaCancellazione o palinsesto? L’eredità coloniale e gli spazi pubblici in ItaliaLaura Tonini: Ci scusiamo con tutti i nostri telespettatori. Tv, cancel culture e politicamente correttoRaffaele Alberto VenturaDieci tesi sul politicamente corretto. Nuovi codici e nuovi conflitti.

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