Nel saggio “Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole”, la sociolinguista Vera Gheno indaga i meccanismi della lingua italiana, distillando un “metodo” per ricordarci la responsabilità che ognuno di noi ha in quanto parlante – Su ilLibraio.it, un estratto dedicato al modo in cui eventi epocali (come la pandemia, ma non solo) cambiano il nostro modo di parlare del mondo

Quante sono le persone che intervengono nelle discussioni senza alcuna competenza specifica pensando di averla? Quanti criticano gli esperti con un “io non credo che sia così”, dall’alto di incrollabili certezze? Ci siamo abituati un po’ troppo a parlare e a scrivere senza fermarci prima un attimo a pensare, e rischiamo così di far sempre più danni.

Perché le parole non sono mai solo parole, si portano dietro visioni differenti della realtà, tutte le nostre aspirazioni e le nostre certezze: ovvio che possano generare conflitti e fare male. Ma possono anche generare empatia e fare del bene, se impariamo a usarle meglio

Nel saggio Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole (Einaudi), la sociolinguista e traduttrice Vera Gheno indaga i meccanismi della lingua italiana, e lo fa con la leggerezza calviniana di chi ammira il linguaggio senza peso perché conosce il peso del linguaggio. E in queste pagine distilla un “metodo” per ricordarci la responsabilità che ognuno di noi ha in quanto parlante.

Un metodo che si fonda innanzitutto sui dubbi, che ci devono sempre venire prima di esprimerci: potremmo, nella fretta, non aver compreso di cosa si sta davvero parlando, capita a tutti, anche ai più “intelligenti”. Poi sulla riflessione, che deve accompagnarci ogni volta che formuliamo un concetto. E infine sul silenzio, perché talvolta può anche succedere, dopo aver dubitato e meditato, che si decida saggiamente di non avere nulla da dire.

Copertina del libro Le ragioni del dubbio di Vera Gheno

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

Niente sarà più come prima. La pandemia ha cambiato per sempre la nostra lingua. Un’affermazione che sento fare molto spesso, ultimamente. E contiene del vero, senza dubbio; ma il punto è un altro: la lingua cambia continuamente. Per l’esattezza, ogni lingua sana cambia al mutare della realtà che deve rispecchiare. Dunque, è naturale che la lingua di oggi, il giorno in cui qualcuno legge queste righe, sia diversa dalla lingua del giorno in cui queste righe le ho scritte, ma magari anche da quella di una settimana fa; solo che, mentre forse riusciamo a cogliere bene le differenze tra come si parlava cinquant’anni fa e come si parla oggi, rendersi conto delle microvariazioni da una settimana all’altra è praticamente impossibile. La variazione diacronica, cioè nel tempo, è continua, anche se non costante (può subire accelerazioni e frenate): ci potranno essere dei punti in cui si addensano più cambiamenti tutti assieme, ma raramente ce ne renderemo conto standoci dentro, e solo più tardi, mettendo le cose in prospettiva, diventeranno più evidenti.

Quindi: la pandemia cambierà per sempre la lingua? Sì, la cambierà, come l’ha cambiata qualsiasi altro evento che ha avuto bisogno di aggiustamenti linguistici per essere raccontato. Ma non sarà un evento cataclismatico, né senza precedenti: la lingua registra e annota, sempre e da sempre. Mi vengono in mente due eventi mondiali ai quali ho assistito nel corso della vita. Il primo è l’incidente alla centrale nucleare di Černobyl’. Avevo undici anni, la mia famiglia e io vivevamo, all’epoca, in Finlandia, a Turku. Eravamo, quindi, relativamente vicini al luogo del disastro. Mi ricordo la paura di non sapere cosa stesse succedendo (inizialmente arrivavano pochissime informazioni), la scomparsa del latte e dell’insalata da tavola, il tentativo costante di capire quali sarebbero state le conseguenze di quel disastro. E mi ricordo anche che improvvisamente erano entrate nel nostro vocabolario parole come isotopo, decadimento radioattivo, reattore, barre di controllo, grafite, contaminazione*; scoprimmo anche le varie unità di misura legate in qualche modo alla radioattività**.

Il secondo evento catastrofico di cui serbo memoria è l’attentato terroristico alle Torri Gemelle di New York. Ricordo ancora che quell’11 settembre 2001 stavo camminando per le vie di Firenze quando vidi un gruppo di persone sconvolte davanti al maxischermo televisivo, esposto nella vetrina di una banca, che trasmetteva le immagini della Cnn: una piccola folla, soprattutto di americani, sempre presenti in gran numero a Firenze, guardava incredula la trasmissione in diretta. Fu così che mi trovai ad assistere all’impatto del secondo aereo e alla lenta, ma inevitabile, presa di coscienza che non si trattava di un incidente, ma di un atto volontario. Nelle settimane successive entrarono nel nostro lessico termini prima poco conosciuti come talebano, antrace, Al Qaeda, e il nome di Osama Bin Laden divenne di dominio comune; le conseguenze sulla nostra libertà di viaggiare furono enormi e sono tuttora in essere, dato che molte delle misure di sicurezza che seguiamo oggi in aeroporto – per esempio, il divieto di portare liquidi nel bagaglio a mano – derivano in buona sostanza da quegli avvenimenti. Secondariamente, imparammo molte cose sulla statica dei grattacieli, sul punto di fusione dei metalli, sulle esplosioni controllate e così via. Nel nostro immaginario collettivo, e linguistico, si depositarono molte informazioni alle quali, forse, senza quegli eventi non avremmo mai prestato troppa attenzione.

Queste tragedie hanno lasciato delle tracce in noi e nelle lingue che usiamo. E sono solo due esempi; pensiamo a come hanno influito su noi e sul nostro lessico gli tsunami (quello nel sud-est asiatico prima, quello in Giappone poi, con il relativo disastro di Fukushima), i terremoti, le eruzioni particolarmente potenti.

Facciamo finta che la lingua sia un albero. Se osserviamo la sezione trasversale di un tronco tagliato, vediamo che il legno non è omogeneo, ma che presenta differenze di colore o di spessore da un anno all’altro: sono gli anelli di accrescimento della pianta. Proprio dal colore, dalla consistenza e dallo spessore di tali anelli un esperto può ricavare informazioni sulla quantità di pioggia caduta in quel tale anno o su altri eventi che possono avere influito sulla crescita dell’albero. Per esempio, tornando proprio a Černobyl’, alcuni studiosi hanno verificato che il tronco degli alberi sopravvissuti alla catastrofe indica con chiarezza il momento dell’incidente tramite un vero e proprio cambio di colore del legno***.

La storia della nostra lingua – come di qualsiasi lingua parlata dagli esseri umani – è un po’ come la lettura degli anelli di accrescimento di un albero. A posteriori, guardando la sezione del tronco, si potranno notare dei fenomeni peculiari (per esempio, l’improvviso ingresso nel linguaggio comune di termini normalmente usati solo nell’ambito specialistico della medicina, della virologia, dell’epidemiologia, che potranno essere facilmente messi in connessione con quanto avvenuto nella realtà). Alcune caratteristiche magari rimarranno per sempre, altre invece avranno un momento di gloria, per poi scomparire senza lasciare tracce nell’uso vivo. Non è facile prevederlo: come sempre, usiamo le parole che ci servono in un dato momento, per cui non è detto che tra dieci anni avremo sempre la mascherina o l’amuchina in mente.

Una cosa è certa. L’anello di accrescimento linguistico del 2020 e del 2021 avrà delle caratteristiche che renderanno riconoscibile il biennio in questione anche a distanza di decenni. Quando guarderemo a questo periodo da lontano, potremo avvalerci dell’addensamento dei suddetti tipi di parole per ricostruirne la storia. Del resto, le nostre lingue documentano sempre le nostre storie. E si ricorderanno della pandemia come di tutti gli altri eventi che hanno caratterizzato e caratterizzano le vite dei loro parlanti.

Non posso che ringraziare Francesca Sanna, scrisegnatrice ricca di talento che riesce sempre a disegnare con dovizia di particolari le idee che mi vengono.

* Ricordo poi quando si iniziò a parlare del corium, termine dal suono decisamente sinistro. Chiamato in inglese anche Fcm (Fuel Containing Material «materiale contenente combustibile») e Lfcm (Lava-like Fuel Containing Material «materiale contenente combustibile simile alla lava), il corium (dall’inglese core «nucleo») è una sorta di lava creata come conseguenza della fusione del nucleo di un reattore nucleare: contiene, quindi, combustibile nucleare misto al materiale fuso delle barre di moderazione e altri materiali della struttura del reattore, compreso il calcestruzzo che normalmente si trova nel basamento della sala del reattore. Sotto al reattore numero 4 di Černobyl’ venne scoperta, nel dicembre del 1986, una massa di corium a cui, per via della forma, venne dato il nome di «Piede d’elefante». È un materiale densissimo, altamente radioattivo, che contiene diossido di silicio, uranio, cesio e plutonio. Pericolosissimo per la salute umana (all’epoca bastavano cinque minuti di esposizione al «Piede» per ricevere una dose letale di radiazioni), dopo dieci anni emetteva il 10% delle radiazioni iniziali, tanto che, proprio nel 1996, ne vennero scattate alcune foto, che sono granulose, con strani effetti di sovraesposizione, a causa delle radiazioni che interferivano ancora con la pellicola fotografica impiegata dall’operatore.

** Il curie dalla chimica e fisica polacca naturalizzata francese Marie Curie (1867-1934), il becquerel dal fisico francese A. H. Becquerel (1852-1908), il röntgen dal fisico tedesco W. C. Röntgen (1845-1923), il gray dal fisico inglese L. H. Gray (1905-1965), il sievert dal radiologo svedese R. M. Sievert (1896-1966).

*** Cfr. Mark Kinver, Chernobyl’s legacy recorded in trees, in «Bbc News»: www.bbc.com/news/science-environment-23619870.

(continua in libreria…)

Abbiamo parlato di...