L’e-taliano “è un arricchimento linguistico e culturale, ma non può essere l’unico tipo di italiano conosciuto dalle persone”. Vera Gheno, autrice del saggio “Social-linguistica”, affronta con ilLibraio.it numerose questioni aperte, e sottolinea: “Il mito della brevità richiesta dai social è in realtà, almeno in parte, falso”

L’italiano dei social network, nel corso del tempo, è andato via via specializzandosi e assumendo regole proprie, spesso per risultare più immediatamente comunicativo ed efficace. Tra refusi, errori e giochi di parole, neologismi ed emoticons, prestiti linguistici e imprevedibili ripescaggi del dialetto, l’italiano digitale è al centro di Social-linguistica (Franco Cesati editore), il volume scritto da Vera Gheno, sociolinguista e insegnante presso il Middlebury College.
Per parlare di questa varietà di italiano affascinante ma anche molto mutevole, ilLibraio.it ha intervistato l’autrice del saggio.

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Se un tempo internet era ritenuto un bar dove ci si incontrava, negli ultimi anni è stato definito “una globalità di villaggi”: vuole spiegarci che cosa ha contribuito al cambiamento?
“Il maggior cambiamento è stato provocato dallo sbarco in massa delle persone sulla rete. Era più facile considerare internet un baretto quando era frequentato esclusivamente da una élite ristretta. In qualche modo, all’inizio tutti i frequentatori della rete si conoscevano. Successivamente, visti i numeri raggiunti, abbiamo di fatto ricreato online le dinamiche umane tipiche della nostra società ‘reale’: le persone non stanno tutte insieme, ma tendono a raccogliersi in gruppetti, quasi direi tribù, che possibilmente condividono affetti, interessi, punti di vista, orientamenti politici o interessi culturali. Insomma, il villaggio globale si è diviso in tanti villaggetti, che spesso tra di loro non si parlano, o perlomeno non volentieri”.

In questo suo ultimo studio, si è occupata del cosiddetto “italiano digitato” o “e-italiano”, per riprendere una definizione di Giuseppe Antonelli. È un italiano da stigmatizzare o semplicemente da studiare come una delle possibili evoluzioni dell’italiano scritto?
“Sicuramente è un’evoluzione dell’italiano: in particolare, rappresenta l’adattamento della lingua a uno specifico mezzo. Ma rimane un singolo ambito della comunicazione. In altre parole, non penso che vada stigmatizzato, ma che debba essere uno dei tanti registri a disposizione delle persone, non l’unico. Insomma, se mi esprimo sempre, in ogni occasione, come se fossi su un social, sto sbagliando. Esattamente come sbaglierei ad andare in ciabatte alla prima della Scala o in tacchi a spillo in spiaggia, devo essere in grado di trovare il modo di comunicare nella maniera migliore a seconda della situazione in cui mi trovo. L’e-taliano ha un senso e un’utilità quando viene usato nel giusto contesto”.

A suo parere potrebbe avere una funzione portare questo italiano digitato anche nella scuola, con progetti come è stato fatto in particolare su Twitter?
“Penso che l’italiano digitato sia una competenza utile anche ai discenti. Soprattutto, e lo ribadisco, occorre insegnare ai ragazzi a passare da un registro all’altro in maniera veloce ma ponderata. L’italiano digitato è un arricchimento linguistico e culturale, ma non può essere l’unico tipo di italiano conosciuto dalle persone. In più, visto che la brevità, in comunicazione, è un punto di arrivo, si possono usare i social, soprattutto quelli più costrittivi in termini di caratteri, per fare esercizio di sintesi”.

Negli ultimi anni spicca la tendenza alla brevità e alla paratassi, a cui ci hanno portato i social-network. Anche la narrativa deve misurarsi con questa “moda”, a suo parere, o deve restare impermeabile all’italiano digitato?
“Mah, di sintassi franta si parlava ben prima dell’avvento dei social, più o meno dalla generazione degli scrittori cannibali in poi. E ancora oggi abbiamo scrittori ‘sintetici’ e altri, come l’ottimo Giordano Meacci, che invece si divertono a giocare con la lingua in maniera molto complessa e articolata. Io rifuggo le generalizzazioni, e ritengo che la narrativa debba continuare a scegliere liberamente lo stile che preferisce. Il mito della brevità richiesta dai social è in realtà almeno in parte falso. Mentre, come accennavo sopra, sicuramente abbiamo contesti in cui la brevità  è d’obbligo, niente ci vieta di scrivere papiri infiniti di testo su Facebook o su Instagram. Il punto è un altro, come scrive Luisa Carrada: se il testo è ben scritto e interessante, il lettore rimarrà incollato fino alla fine. Altrimenti scapperà, ma non perché il testo è lungo, quanto piuttosto perché non è abbastanza avvincente”.

Nel suo libro è molto curioso il passo in cui rileva che i dialetti – contrariamente alle aspettative di molti – hanno fatto una loro comparsa molto peculiare nell’italiano digitato. Ce ne può parlare?
“In realtà è un fenomeno che era già stato osservato da Edgar Radtke, studioso tedesco di linguaggi giovanili italiani, negli anni Ottanta: in quel contesto, già all’epoca si impiegavano termini dialettali per potenziare l’espressività, più che come vero inserto dialettale. Siccome ci sono delle correlazioni evidenti tra linguaggi giovanili e linguaggi della rete (se non altro, perché gli utenti più entusiasti della rete sono spesso proprio i giovani), oggi in rete ritroviamo diversi termini derivati dai dialetti più disparati, ma usati ben al di là della loro regione di appartenenza, a volte in tutta Italia. Si pensi al daje del romanesco, ma anche alla popolarità che hanno avuto i ‘romanismi’ di tutti i personaggi di Corrado Guzzanti, da Rokko Smitherson a Vulvia. E poi, abbiamo ocio, o balengo, o guaglio’, tutti portati in auge da qualche influencer, fosse un attore o una star della televisione o un cantante. Un secondo filone da tenere in considerazione è quello dell’orgoglio localista: quasi ogni cittadina ha un gruppo Facebook che rivendica l’appartenenza territoriale degli abitanti, che spesso si scambiano messaggi, se non in dialetto, perlomeno in italiano regionale”.

Tante parole come “menzionare”, “amico”, “aggiungere”, sono approdate sui social network in una nuova accezione. A suo parere questa risemantizzazione funzionale è uno dei tanti modi per tenere vivo il lessico? I dizionari dovranno riaggiornarsi includendo questi usi specifici?
“Succede già così. È normale che, di edizione in edizione, i dizionari includano non solo i veri e propri neologismi, ma anche le nuove accezioni di parole già esistenti. Questo processo avviene in maniera più o meno veloce a seconda di quanto le opere lessicografiche sono ricettive nei confronti dei cambiamenti linguistici – o di quanto spesso vengono stampate le nuove edizioni – ma è un processo naturale. Per esempio, controllando lo Zingarelli 2017, vedo che bacheca è già presente anche con la nuova accezione targata ‘Internet’, ossia ‘sistema che consente agli utenti collegati in rete di scambiarsi informazioni o scrivere commenti su uno spazio appositamente dedicato; lo spazio stesso’; altre nuove accezioni verranno sicuramente aggiunte nelle prossime annate”.

Uno dei flagelli degli ultimi anni è rappresentato dalle “fake news”, notizie false che vengono spacciate per vere, rischiando di diventare virali prima che si riveli la loro infondatezza. Come tutelarsi? Un’analisi linguistica potrebbe aiutarci a scartare a priori alcune notizie?
“Credo molto di più nella maturazione individuale degli utenti che non nella regolamentazione dall’alto. L’analisi linguistica è senz’altro utile. Per esempio, molte bufale sono maldestramente tradotte da altre lingue e contengono errori, sia banalmente ortografici che magari di senso. Oppure, mancano i riferimenti spaziotemporali precisi. Ad esempio, se io leggo una notizia che inizia con ‘La scorsa settimana, il Parlamento ha votato all’unanimità per l’aumento degli stipendi di tutti i parlamentari’, mi faccio alcune domande: se è un atto che ha valore legale, sarà registrato in Gazzetta Ufficiale, quindi avrà un numero di protocollo, una data precisa, no? E poi, la cosa più banale: controllare la fonte! Se una notizia viene da lercio.it, forse, se non conosci il sito di satira giornalistica, è meglio che controlli su Google. E invece, vedo ricondivise con indignazione notizie platealmente false, tratte da siti notoriamente satirici, senza alcun dubbio, senza alcuna verifica”.

I cosiddetti “errori” generano sempre dibattito nei linguisti. A suo parere gli errori in rete, e in particolare quelli in chat, vanno giudicati con la stessa severità di errori in un testo scritto o in un tema scolastico?
“Ovviamente no, anche se va fatto un distinguo tra typo, ovvero errori di digitazione belli e buoni (doppie saltate o tre lettere in luogo di due, inversioni di sillabe, insomma, tutti quei casi in cui è evidente che c’è stata una distrazione dello scrivente,  o gli si sono intrecciate le dita) ed errori che invece sono legati a incompetenza dell’utente: se scrivi o qual’è  o perchè o, ancora meglio, é voce del verbo essere, non è colpa della chat o della velocità, ma del fatto che probabilmente non conosci bene l’ortografia. In quel caso, devo dire la verità, io spesso intervengo, soprattutto quando magari quegli stessi utenti si lamentano dell’analfabetismo imperante o del lassismo dell’Accademia della Crusca”.

Di recente ha collaborato a Parole O_Stili, a partire dal febbraio 2017, formulando un decalogo di princìpi utili per aiutare a riflettere gli utenti della rete meno consci di cosa stanno davvero mettendo in atto. Vuole parlarci del Manifesto che avete prodotto?
“Poiché il blastare, seppure molto soddisfacente sul breve periodo, non mi sembra che possa davvero cambiare le cose, è da molto tempo che mi chiedo come si possa andare incontro a un futuro migliore, nel campo dell’ostilità in rete. Per questo, ho accolto con entusiasmo l’invito dell’inventrice dell’iniziativa, Rosy Russo, a far parte del grande ‘trust di cervelli’ che hanno partecipato alla stesura del manifesto. Il bello del manifesto è che nasce come documento collettivo che funge da testimonianza delle questioni sentite come importanti da chi realmente frequenta la rete. Si tratta di consigli, da applicare prima di tutto alla propria comunicazione, non di un decalogo di leggi da imporre agli altri. L’idea è rispondere alla semplice domanda, che arriva da più parti, ‘che cosa posso fare io per rendere più vivibile la vita online?’. Ho trovato sconcertanti le critiche arrivate all’indirizzo del manifesto. Molti lo hanno definito ‘banale’. Ma banale rispetto a chi? Rispetto a un professionista della comunicazione, certamente. Ma rispetto a una moltitudine di persone ritrovatesi online quasi per caso, senza avere piena consapevolezza di quello che in rete possono e non possono fare… ecco, molto meno”.

Nel suo libro ci sono anche utili consigli per chi lavora ogni giorno con l’italiano digitale. Vuole salutare i nostri lettori con tre indicazioni utili per scrivere in modo efficace online?
“Questa domanda andrebbe rivolta ai veri professionisti della comunicazione. Per quanto mi riguarda, direi, molto semplicemente:
-rifletti sulle parole che scegli, perché non tutte le parole sono uguali;
-non usare più parole del necessario, perché la sintesi è una bella cosa;
-ricordati che si parla veramente bene delle cose in cui si crede veramente. In altre parole, seguendo una delle massime di Grice: sii sincero. Nella scrittura, si percepirà la sincerità”;

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