Un saggio analizza il processo di “piattaformizzazione” dell’industria culturale, individuando i principali cambiamenti che investono sia i mercati e le infrastrutture tecnologiche sia la produzione di contenuti e la creatività – Su ilLibraio.it la prefazione di Valerio Bassan a “Piattaforme digitali e produzione culturale”: “Se il web e il suo innato potere democratizzante si piega ai bisogni di chi apre il portafoglio, e la piattaformizzazione della cultura veicola gran parte dei profitti nelle mani di pochi, dobbiamo chiederci quali strumenti abbiamo per ridare dignità alla forza creativa che sostiene la filiera culturale…”

La diffusione globale delle pittaforme digitali – da YouTube a Instagram, fino a Twitch e TikTok – sta modificando profondamente le forme e i modelli della produzione culturale, con risultati complessi e imprevedibili: le vecchie industrie dei media attraversano enormi sconvolgimenti e riconfigurazioni, mentre le nuove factory digitali – legate allo streaming, agli influencer e al podcasting – crescono a una velocità vertiginosa e inattesa.

Piattaforme digitali e produzione culturale

Il saggio Piattaforme digitali e produzione culturale (minimum fax, prefazione di Valerio Bassan, traduzione di Rocco Fischetti) sviluppa le sue analisi a partire da ricerche aggiornate e resoconti provenienti da Nordamerica, Europa, Sudest asiatico e Cina, riuscendo in questo modo a mettere in evidenza sia le differenze che i sorprendenti parallelismi di questa radicale trasformazione della cultura secondo le nuove logiche delle piattaforme digitali.

Gli autori, Thomas Poell (professore di Dati, culture e istituzioni all’Università di Amsterdam), David B. Nieborg (assistant professor di Media Studies all’Università di Toronto) e Brooke Erin Duffy (professoressa nel Dipartimento di Comunicazione della Cornell University) prendono in esame tre settori specifici – il giornalismo, i videogiochi e i social media –, ma traggono spunti anche dalla musica e dalla pubblicità per esplorare il processo di “piattaformizzazione” dell’industria culturale, individuando i principali cambiamenti che investono sia i mercati e le infrastrutture tecnologiche che la produzione di contenuti e la creatività, e indagandone le ricadute sul nostro modo di vivere la democrazia.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo la prefazione di Valerio Bassan:

RIDEFINIRE CREATIVITÀ E CULTURA DI FRONTE ALLE PIATTAFORME

di Valerio Bassan

Vi dice ancora qualcosa la parola demotivational? Forse no, non più. Eppure, verso la fine degli anni Novanta, queste divertenti composizioni di immagini e testo cominciarono a circolare online sui forum di discussione, sulle chat e sui proto-social network di allora («diventarono virali», avremmo detto qualche anno più tardi).

Quei proto-meme, grazie a una struttura grafica immediatamente riconoscibile – una foto su sfondo nero, una grande parola in maiuscolo e due righe di sottotitolo – erano dei manifesti-critica alla cultura aziendale imperante dell’epoca, basata sulla positività, sul lavoro di gruppo e sulla crescita a tutti i costi. Uno dei più famosi ospitava la foto di alcuni impiegati d’azienda che si danno il cinque, accompagnata dalla scritta Teams – Because together we can do the work of one («Team: insieme possiamo fare il lavoro di una sola persona»).

Un altro recava l’immagine di una goccia d’acqua, seguita dal testo Irresponsibility – No single raindrop believes it is to blame for the flood («Irresponsabilità: nessuna goccia d’acqua crede di essere responsabile dell’inondazione»).

I demotivational, ideati e lanciati dall’azienda texana Despair, Inc. – ovvero Disperazione Spa, nome forse profetico dell’internet che sarebbe arrivato in futuro – erano una risposta ironica e cinica ai Successories, quei poster motivazionali che a partire dalla fine degli anni Ottanta tempestavano i muri delle aziende sottolineando l’importanza dell’amare il proprio lavoro, del non mollare mai, e della garage culture tipica delle startup della Silicon Valley. I demotivational meme furono uno dei primi contenuti digitali a diffondersi su larga scala, e diventarono un fenomeno culturale di massa, travalicando i confini del digitale. E, nonostante la loro origine commerciale, divennero presto patrimonio di tutti: nel giro di pochi mesi migliaia di utenti si cimentarono nella produzione della loro versione dei «poster demotivazionali», finendo per diffondere un linguaggio visivo che sarebbe poi stato alla base della maggior parte dei meme degli anni successivi.

Già nel 1976, tredici anni prima che Tim Berners-Lee ideasse il world wide web, il biologo inglese Richard Dawkins aveva coniato il termine meme per indicare quelle «unità di informazione culturale» che si diffondono per «imitazione» e la cui riproduzione non può essere controllata alla fonte.

Con l’avvento del web commerciale, quando milioni di persone furono online per la prima volta, internet permise a tutti noi di produrre oggetti culturali sul web usando pezzi di elementi già circolanti nell’ecosistema di internet, creando e diffondendo lavori derivativi creativi su larga scala.

Nel 2000, lo statunitense Lawrence Lessig diede a questa attività il nome di remix culture, il concetto, quasi sacrale, alla base dei Creative Commons, di cui fu ideatore e promotore dal 2000: l’idea utopica che la produzione culturale derivativa online potesse essere libera di diffondersi, trasformarsi e generare nuove idee.

Dominio commerciale

È stato con l’avvento e la diffusione delle piattaforme, però, che questa spinta dal basso si è trasformata radicalmente, assumendo sembianze sempre più commerciali. Dall’inizio del millennio a oggi, con l’avvento di Facebook e YouTube, il web si è largamente «piattaformizzato»: che si pensi oggi a Twitch o a TikTok, a Instagram o all’app store, gran parte del nostro tempo quotidiano online è speso proprio sui server di poche grandi corporation digitali. Queste entità, che fungono da base allo sviluppo di applicazioni, processi e connessioni tra persone, aziende, istituzioni sono diventate le fondamenta su cui negli ultimi vent’anni abbiamo assistito alla nascita della cosiddetta cultura partecipativa teorizzata da Henry Jenkins, secondo cui gli individui non si limitano a comportarsi come semplici consumatori, ma assumono il ruolo attivo di produttori. Le barriere di accesso alla produzione e alla diffusione di cultura nell’accezione più larga sono crollate – generando il proliferare online di quello che oggi chiamiamo, con l’applicazione di un termine ombrello comodo ma insidioso, content.

Dalla nascita del web piattaformizzato a oggi, nessuno può considerarsi più un utente passivo della filiera culturale: la nostra «attività online» produce continuamente content – da un like a un video, da una story a un commento – che fungono insieme da alimento per altri utenti e materia prima per gli ingranaggi dativori delle big tech.

Se da un lato le piattaforme ci hanno dato illimitate libertà creative, allargando la platea di produzione a livello globale e offrendoci nuove possibilità di arrivare al pubblico, dunque, dall’altro non possiamo ignorare come la codificazione di linguaggi e formati – siano essi foto, post testuali, reel, quello che preferite – abbia portato a una standardizzazione della produzione culturale che agisce come propulsore per modelli di business controllati da infrastrutture grandi quanto il mondo intero, e su cui anche le giurisdizioni nazionali hanno pochissimo controllo. In questo grande Turco Meccanico il vero fattore dirimente – spesso invisibile agli occhi dei produttori culturali stessi – è quello economico: i modelli di business sono profondamente sbilanciati verso i detentori dell’infrastruttura. Nell’ecosistema di oggi, più una piattaforma diventa dominante, più accumula su di sé una concentrazione di potere economico, infrastrutturale e socioculturale senza precedenti. Nonostante le piattaforme si definiscano come potenti forze democratizzanti e i loro uffici marketing le posizionino più come gate-opener che come gate-keeper, il loro ruolo di filtro esiste eccome, e influenza direttamente tutta la produzione culturale, anche quella che non vive su internet.

Per esempio, oggi, non c’è distinzione tra produzione e diffusione dell’oggetto culturale: una cosa non può più esistere senza l’altra. Nei media digitali nessuna esperienza esiste e prospera in un vuoto e ciò fa sì, sempre più spesso, che il formato sia il messaggio. In più, i produttori culturali creano consapevolmente per gli algoritmi, o per una promessa di guadagno che comunque è controllata dal filtro dell’algoritmo, trasformandosi in humans as a service di una economia atomizzata che li mette in competizione gli uni contro gli altri. Allo stesso tempo, il modo in cui consumiamo la cultura è cambiato: come sottolineava già il filosofo tedesco Theodor W. Adorno, a livello sociale i desideri e i bisogni dei consumatori sono sempre più influenzati dai media e dalla pubblicità. Adorno identificava una spinta verso l’appiattimento dell’industria culturale e del suo impatto sull’individuo, privato della libertà espressiva in favore della necessità di essere «conformi» a un trend dettato da forze incontrollabili.

In parte, la visione di Adorno si è incarnata con l’affermarsi del web 2.0 – quello appunto delle grandi piattaforme e delle cosiddette big tech – che ha generato una profondissima trasformazione del modo in cui la cultura è prodotta e diffusa e in cui regna un’interdipendenza economica tra contenitori e contenuti raramente vissuta in precedenza. In questa fase, il mercato dell’attenzione che ha dominato gli ultimi due decenni ha portato a un netto disallineamento degli incentivi: le piattaforme cercano continuamente di stimolarci a produrre (contenuti, cultura, soprattutto dati) per sfruttare i nostri dati e le nostre azioni per monetizzare, generando trilioni di profitti. Il «nostro bene» non è quello degli inserzionisti, verso cui la bilancia inevitabilmente pende.

Valutazione d’impatto

Il libro che avete tra le mani racconta, passo dopo passo, l’impatto straordinario che le piattaforme stanno avendo sulla produzione culturale e sulla creatività, il lavoro e la democrazia. Nelle pagine che seguono Poell, Nieborg, e Duffy ricostruiscono nei dettagli una storia che ci riguarda tutti, cercando risposta ad alcune domande fondamentali della nostra epoca, tra cui queste: nell’era delle piattaforme, quali contenuti e servizi possono essere prodotti, distribuiti e monetizzati? Quali contenuti culturali ottengono più o meno successo e visibilità? Come possiamo garantire la sostenibilità della produzione culturale? Come possiamo controllare le forze che governano questi giganti? Che impatti hanno le piattaforme sugli orizzonti dell’espressione? E quali sono le conseguenze sulla democrazia e sulla distribuzione del potere? Sono tutte questioni profonde e centrali, e per cui non esistono risposte semplici. Se il web e il suo innato potere democratizzante si piega ai bisogni di chi apre il portafoglio, e la piattaformizzazione della cultura veicola gran parte dei profitti nelle mani di pochi, dobbiamo chiederci quali strumenti abbiamo per ridare dignità alla forza creativa che sostiene la filiera culturale.

Negli ultimi anni, per fortuna, stiamo osservando la nascita di diverse spinte verso il ritorno a un internet più giusto, fondato su strumenti collaborativi e partecipativi orizzontali, in cui le persone possano diventare «azioniste» nella creazione e nella distribuzione del contenuto online, in cui i nostri bisogni si allineano progressivamente a quelli delle piattaforme, dando vita a una filiera più equa per utenti, produttori culturali e creator. Si tratta ancora di uno slancio utopico, ma è innegabile che una nuova consapevolezza sia necessaria per mitigare i disallineamenti degli ultimi decenni e rendere il giusto riconoscimento alla produzione culturale come spina dorsale di internet.

Questo passaggio, penso, può però compiersi soltanto partendo da una ridefinizione della parola «cultura». Ormai diversi anni fa, nel 2014, il dizionario americano Merriam-Webster’s scelse proprio culture come parola dell’anno, dopo avere notato un picco di interesse nelle ricerche dei suoi utenti. Una scel ta particolare: di solito, infatti, le «parole dell’anno» dei dizionari sono il riflesso del discorso dominante. L’anno precedente, per fare un esempio, gli Oxford Dictionaries avevano scelto il termine «selfie». Ma cosa ci dice la scelta della parola cultura come termine esemplificativo dello Zeitgeist? Per quel che vale, ci dà l’idea di come il dibattito attorno a cosa sia o non sia «cultura» stia cambiando nel tempo, anche grazie a internet. Oggi quando usiamo il termine cultura non ci riferiamo solo al patrimonio delle conoscenze che formano l’individuo sul piano intellettuale e morale, ma anche a quei set di comportamenti e codici condivisi che utilizziamo per rapportarci alla realtà.

Quando parliamo di corporate culture, di online culture, di cancel culture, identifichiamo delle tendenze che raggruppano le persone attorno a specifiche ideologie e visioni del mondo. Ecco, forse la nostra sfida non sta tanto nel cercare uno scontro diretto con le piattaforme che detengono il potere, quanto piuttosto quello di aprire nuovi spazi creativi con regole meno idealistiche e verticistiche, consapevoli che la cultura è un patrimonio di tutti, e che, come tale, andrebbe rispettata e ricompensata. Anche e soprattutto dalle piattaforme che utilizziamo tutti i giorni – passate, presenti e future.

(continua in libreria)

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