Chi guadagna davvero dal sessismo perverso della Rete? La risposta nel pamphlet “La Rete non ci salverà – Perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere)” di Lilia Giugni. Su ilLibraio.it un estratto dal capitolo conclusivo, “In difesa dell’utopia”

L’abbraccio stritolante di patriarcato e capitalismo digitale, in un pamphlet attualissimo. Parliamo di La Rete non ci salverà – Perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere), firmato da Lilia Giugni, in libreria per Longanesi.

L’autrice è nata a Napoli e vive a Londra. Ha conseguito un PhD in Politics presso l’Università di Cambridge, dove lavora come ricercatrice e docente per il Cambridge Centre for Social Innovation.

È un’attivista femminista Intersezionale ed è fellow della Royal Society of Arts. Ha co-fondato il think tank femminista GenPol – Gender & Policy Insights, che svolge lavoro di ricerca e advocacy su questioni di genere e giustizia sociale.

E veniamo al suo libro: secondo stime recenti, più di un terzo delle donne del pianeta ha subito violenze digitali almeno una volta nella vita: molestie, minacce, condivisione di contenuti privati senza consenso. E le cose non vanno meglio dall’altra parte dello schermo.

Moderatrici social, influencer, ingegnere informatiche, lavoratrici dell’”economia di piattaforma” sfruttate e bistrattate sul lavoro. Stupri di guerra usati per accaparrarsi minerali che finiscono dritti dritti nei nostri smartphone. La rivoluzione digitale sarà anche l’evento più significativo degli ultimi trent’anni, ma le donne di tutto il mondo ne stanno pagando caro il prezzo.

Per oltre cinque anni Giugni ha messo insieme i pezzi di questo puzzle inquietante e ha mappato un fenomeno che ci riguarda moltissime persone. I risultati delle sue ricerche, e del suo impegno di attivista, sono raccolti in questo testo, pensato per rispondere a una domanda scottante: chi guadagna davvero dal sessismo perverso della Rete?

Giugni, però, non si limita a scendere negli abissi più oscuri della galassia tecnologica. Ne riemerge per offrire un manifesto per una “rivoluzione digitale femminista”: perché, per rimettere la tecnologia al servizio delle persone, là dove dovrebbe essere, non si può che ripartire dalle donne, dalle loro voci e dai loro bisogni.

la rete non ci salverà lilia giugni

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto dal capitolo conclusivo

In difesa dell’utopia

Qualche tempo fa una delle studentesse del Master in cui insegno a Cambridge (brava, in gamba, appassionata) mi ha chiesto se ritenessi possibili le trasformazioni sistemiche. Parlavamo, manco a dirlo, delle relazioni tra patriarcato, capitalismo e tecnologia. E lei mi diceva di come a volte si senta disperatamente arrabbiata, e avverta il bisogno di dirigere tutta l’energia che quella rabbia le mette addosso verso la costruzione di un futuro diverso, per le donne e per tutti. Solo che poi i cambiamenti necessari le paiono così radicali e così mastodontici che fatica a immaginarsi una via concreta per costruirli. Confesso che non mi è stato difficile riconoscermi nelle sue parole. La mia studentessa è poco più giovane di me, e tutt’e due siamo andate a scuola in occidente negli anni ’90 e 2000. E questo significa che a entrambe sono stati inculcati sin dall’infanzia, più o meno in quest’ordine, tre messaggi dalle ramificazioni pesantissime. Per prima cosa ci è stato raccontato che eravamo nate nel migliore dei mondi possibili. Di conseguenza, se pure qualcosa non filava liscia, dovevamo tenerci il sistema così com’era, pena il disastro e l’involuzione della specie. Dopo tutto, era caduto il muro di Berlino, e si erano arenate varie sperimentazioni politiche ed economiche iniziate prima che noi nascessimo. E quindi era tutto un discettare di ‘‘fine della storia’’, e dell’inesistenza o addirittura dell’indesiderabilità di ogni ipotetica alternativa.

Chi non era d’accordo veniva considerato un pazzo che faceva della poesia e non della politica. Una sognatrice. Un(’)utopista. Al tempo stesso, a noi ragazzine millennial (o perlomeno a noi ragazzine millennial occidentali) veniva spiegato che avevamo poco di che lamentarci anche in relazione al nostro genere. Non godevamo, ormai, di pieni diritti e di una totale e perfetta uguaglianza sul piano giuridico e materiale? Certo, ogni tanto qualche stupro o qualche femminicidio sul giornale ci finivano. Ma venivamo rassicurate che la colpa era di poche mele marce – mostri isolati in un mondo solidamente post-patriarcale, o, chissà, depositari di ‘‘culture arretrate’’ e ‘‘meno progredite della nostra’’. Del resto, non erano soltanto le violenze di genere a essere interpretate in chiave prettamente individuale: il mantra di quel periodo prendeva l’individuo come misura di ogni cosa. Concetti che cercassero di inquadrare il funzionamento strutturale della società (capitalismo? patriarcato?) erano ritenuti fuori moda, inadatti a spiegare le evoluzioni contemporanee.

Infine, posto che proprio durante la nostra infanzia spuntavano come funghi gadget elettronici di ogni varietà alla nostra generazione è stato anche assicurato che la tecnologia avrebbe reso ancor più fulgido questo già roseo presente. I tassi di disoccupazione giovanile restavano allarmanti? La rivoluzione digitale avrebbe creato nuovi posti di lavoro. Scienziate e scienziati parlavano – allora tragicamente inascoltati – di cambiamento climatico e surriscaldamento globale? Tecnologie ‘‘pulite’’ avrebbero invertito quelle tendenze. E anche della progressiva atomizzazione della società eravamo avvertite di non preoccuparci: Internet avrebbe unito e avvicinato l’umanità, trasformando il pianeta in un idilliaco ‘‘villaggio globale’’. Che tempi meravigliosi per crescere e per stare al mondo.

Peccato che, anno dopo anno, quest’orgia di arroganza si sia gradualmente dissipata, lasciando milioni di ex bambini (e soprattutto di ex bambine) a ripassarsi in bocca il sapore amaro delle aspettative tradite. E anche per generazioni diverse dalla mia (quelle dei nostri genitori, dei nostri nonni, delle nostre sorelline più giovani), in altre parti del mondo, tante promesse hanno lasciato il tempo che trovavano. Prima è arrivato il tracollo finanziario del 2007-2008. Poi la grande recessione del 2008-2009, e dopo, ancora, altri shock economici globali, a breve distanza l’uno dall’altro. Sono aumentate vertiginosamente le disuguaglianze economiche e sociali. Il capitalismo digitale ha progressivamente mostrato il suo vero volto, e i suoi tratti sessisti (quelli che abbiamo discusso fino a qui) hanno preso a manifestarsi con una tale prepotenza che anche il mito del post-patriarcato ha alla fine perso di fascino.

E ci sorprendiamo che la mia studentessa si senta, alle volte, messa con le spalle al muro? Che pur non credendo più nelle favole assorbite da adolescente, stenti a concepire come tirarsene fuori? Alzi la mano chi non avverte una vicinanza istintiva ai suoi dubbi e alle sue domande. Per anni abbiamo subito, tutte e tutti, un indottrinamento potente. E così, adesso ci ritroviamo atrofizzata la capacità di credere nelle trasformazioni radicali, figurandoci un domani diverso dall’oggi. Ci è rimasto bloccato quel muscolo mentale, quella flessuosità del cuore e del pensiero che serve a immaginare un salto di paradigma. Per cui, magari, le suggestioni di ‘‘tecnologie femministe’’ e le proposte di riforma dei capitoli precedenti ci intrigano e ci incuriosiscono. Proprio non riusciamo, tuttavia, a inquadrare uno scenario più ampio dove quelle suggestioni possano collocarsi, o verso il quale quelle riforme dovrebbero tendere. E qui, di nuovo, uso la prima persona plurale con cognizione di causa, poiché quel muscolo il più delle volte me lo sento paralizzato anch’io. Resto della convinzione, però, che allenarlo sia forse la cosa più utile e più importante che si possa fare in questo momento storico. Anche più di tutti gli interventi che abbiamo ipotizzato, di tutte le pratiche che abbiamo considerato per rimediare alle grandi ingiustizie sociali e di genere innescate dalla rivoluzione digitale.

E dunque vorrei farvi compagnia ancora per qualche minuto, tentando di rispondere più nel dettaglio al quesito postomi (e postoci) dalla mia studentessa. Nonché di persuadervi che sì, è vero, il nostro organo dell’immaginazione politica fatica a muoversi data la lunghissima inerzia.

Ma ce lo abbiamo ancora, e vale davvero la pena di usarlo…

(continua in libreria…)

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