L’immortale personaggio di Cervantes era poi veramente pazzo? O la sua era, piuttosto, un’abile messinscena per sottrarsi alla vita noiosa e ripetitiva di un piccolo paesino di provincia nella Spagna più profonda? Su ilLibraio.it un estratto dal libro “Processo a don Chisciotte”, in cui accusa e difesa incrociano le spade per venire a capo di questa affascinante querelle letteraria

“Sono don Chisciotte, e la mia professione è quella di cavaliere. Le mie leggi sono sciogliere i torti, elargire il bene ed evitare il male. Fuggo dal dono della vita, dall’ambizione e dall’ipocrisia, e cerco per la mia gloria il sentiero più angusto e difficile. È forse da sciocchi?“.

Così faceva dire al protagonista della sua opera più celebre il romanziere, poeta e drammaturgo spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra (Alcalá de Henares, 29 settembre 1547 – Madrid, 23 aprile 1616). L’immortale personaggio di Cervantes era poi veramente pazzo? O la sua era, piuttosto, un’abile messinscena per sottrarsi alla vita noiosa e ripetitiva di un piccolo paesino di provincia nella Spagna più profonda?

A queste domande, ancora insolute e tutt’altro che semplici, prova a rispondere la casa editrice Le Lucerne, che già da mesi punta a diffondere la cultura della storia e del diritto e a promuovere della figura del giurista come intellettuale a tutto tondo.

Sbarcata in libreria con la sua prima collana di libri, “Processi Immaginari”, nata in collaborazione con il Festival Nazionale di Diritto e Letteratura “Città di Palmi”, ora la casa editrice pubblica infatti Processo immaginario a Don Chisciotte di Gennaro Carillo, Franco Carinci e Antonio Salvati, volume che si propone di fare luce su una delle più grandi querelle della letteratura.

Accusa e difesa incrociano le spade, anzi le parole, per dimostrare tesi opposte: entrambe, però, con ampi e completi richiami a un capolavoro che ancora oggi non finisce mai di stupire, di commuovere e di far ridere. L’originale sentenza finale farà giustizia, ma il caso resta aperto, perché Don Chisciotte, si sa, è inafferrabile.

Processo a don Chisciotte

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro:

Ma andiamo oltre, esaminando con la dovuta accortezza la persona del Cervantes: chi è costui?

Egli altri non è che il padre di Don Chisciotte, un padre che ama così teneramente e spudorata­mente il proprio figlio da dire il falso, fin dall’ini­zio. Dal Prologo dell’opera, addirittura.

È proprio nel Prologo, infatti, che Cervantes inventa di aver tradotto la storia di Don Chisciotte da un manoscritto di uno storico arabo di nome Cide Hamete Benengeli, e questo solo per garantirgli quei quarti di nobiltà lette­raria che l’ispirarsi ai veri romanzi di cavalleria gli avrebbe garantito.

Cervantes, quindi, per amore della propria creatura è disposto a mentire. Ed è così pronto e abile nella menzogna che sempre nel Prologo in­venta – davvero ingenioso, quasi napoletano (del resto Cervantes ebbe a dire, senza peraltro sba­gliarsi, che Napoli gli era parsa la più bella città del mondo) – la storia dell’amico faceto e assai còlto che gli spiega come prendere in giro i letto­ri, quindi noi e voi tutti, con un mare di citazioni false, sonetti inventati, altri e simili latinucci, allo scopo di mostrare un’erudizione e una profondi­tà di pensiero che egli stesso riconosce come al di fuori della sua portata.

Un mentitore, quindi. Un astuto mentitore. Del tutto inattendibile, pertanto, come testimone quanto alla pazzia di Don Chisciotte, e basta tale circostanza di fatto a dimostrarlo pur non abbi­sognando come noto la valutazione di inatten­dibilità di riscontri oggettivi esterni (Cass. pen. 27185/2014).

Mi avvio alla conclusione, signor Presidente, e nel farlo a questo punto mi rendo conto che potrebbe anche non bastare la piena ed evidente logicità delle mie argomentazioni, la concatena­zione dei fatti e i riscontri oggettivi che ho evi­denziato.

Ci vogliono delle prove dirette. E questo Ufficio della Pubblica Accusa delle prove dirette le ha.

L’accusa chiama dunque a testimoniare Fran­cesco Guccini: scrittore, poeta, romanziere, ge­nio. Guccini è colui che più di tutti, ad avviso di questo rappresentante dell’Accusa, ha colto la reale essenza e il disegno criminoso dell’imputa­to: lo ha fatto in quel capolavoro che è la canzo­ne chiamata, appunto, Don Chisciotte.

Ascoltiamo le dichiarazioni del teste, ancor più nei passaggi in risposta a Sancio Panza, il suo saggio e scalcinato scudiero.

[Don Chisciotte]

Salta in piedi, Sancio, è tardi, non vorrai dormire ancora,
solo i cinici e i codardi non si svegliano all’aurora:
per i primi è indifferenza e disprezzo dei valori
e per gli altri è riluttanza nei confronti dei doveri!
L’ingiustizia non è il solo male che divora il mondo,
anche l’anima dell’uomo ha toccato spesso il fondo,
ma dobbiamo fare presto perché più che il tempo passa
il nemico si fa d’ombra e s’ingarbuglia la matassa…

[Sancio Panza]

A proposito di questo farsi d’ombra delle cose,
l’altro giorno quando ha visto quelle pecore indifese
le ha attaccate come fossero un esercito di Mori,
ma che alla fine ci mordessero oltre i cani anche i pastori
era chiaro come il giorno, non è vero, mio Signore?
Io sarò un codardo e dormo, ma non sono un traditore,
credo solo in quel che vedo e la realtà per me rimane
il solo metro che possiedo, com’è vero… che ora ho fame!

[Don Chisciotte]

Sancio ascoltami, ti prego, sono stato anch’io un realista,
ma ormai oggi me ne frego e, anche se ho una buona vista,
l’apparenza delle cose come vedi non m’inganna,
preferisco le sorprese di quest’anima tiranna
che trasforma coi suoi trucchi la realtà che hai lì davanti,
ma ti apre nuovi occhi e ti accende i sentimenti.
Prima d’oggi mi annoiavo e volevo anche morire,
ma ora sono un uomo nuovo che non teme di soffrire…

Signor Presidente, credo che questo passaggio non meriti davvero ulteriori commenti. È chiara, evidente, solare l’ammissione di Don Chisciotte di aver voluto imbracciare elmo, scudo e lancia per sfuggire a una realtà che non gli piaceva, che non gli andava a genio.

Sono stato anche io realista, ammette l’im­putato, ma poi ha scelto di vivere un’altra e più soddisfacente vita decidendo quindi di fingersi pazzo, visto che una persona non può certo con­vincersi di essere pazzo quando già lo è.

E, mi perdoni l’azzardo logico: se Don Chi­sciotte avesse avuto la forza morale di autocon­vincersi di essere pazzo senza esserlo, be’, que­sta sarebbe la prova più evidente dell’assoluta assenza di stati di disagio mentale. Ci troverem­mo di fronte a una volontà di ferro, alfieriana mi verrebbe da dire (volli, sempre volli, fortissima­mente volli), non certo a una volontà malata.

C’è un altro testimone, signor Presidente, che vorrei molto brevemente escutere.

Si tratta di Vladimir Nabokov, il famoso scrit­tore russo autore di capolavori come Lolita. Eb­bene, nelle sue Lezioni su Don Chisciotte, il te­ste Nabokov effettua alcune considerazioni che sono preziosi riscontri per le tesi dell’Accusa.

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In particolare, individua il personaggio che realmente aveva ispirato Cervantes nel tratteg­giare la figura del Quixote. Si tratta di Bartolo, un contadino goffo e sfortunato protagonista dell’Interludio delle Ballate (Entremés de los ro­mances, 1592: quindi cinque anni prima rispetto al Don Chisciotte), che si trova coinvolto in una serie di buffe avventure dal tono chiaramente parodistico rispetto ai romanzi di cavalleria del ciclo carolingio, già ripresi con raffinato umo­rismo dai poeti del rinascimento italiano (basti pensare all’Orlando Innamorato del Boiardo e all’Orlando Furioso dell’Ariosto).

Però attenzione, il teste Nabokov ci riporta un dato importantissimo: la differenza essenziale tra Bartolo e Don Chisciotte. Una e una sola, ma fondamentale per questa Accusa: Bartolo perde in tutte le sue uscite, le sue zingarate; Don Chi­sciotte no. Non passa tutti e due i volumi delle sue avventure prendendo bastonate. Al contra­rio, il teste Nabokov ci conferma che il bilan­cio complessivo degli scontri e delle avventure dell’imputato è esattamente in pareggio: venti vittorie e venti sconfitte.

Altro che povero matto sconfitto dalla sorte. Questa Accusa, arrivati a questo punto, ritiene di aver provato la colpevolezza di Don Chisciotte oltre ogni ragionevole dubbio ex art. 533 c.p.p.

Non dovesse bastare, sia consentito riportare qui per esteso una dichiarazione chiaramente confessoria dell’imputato, quando pronuncia – interrogato sulla reale esistenza di Dulcinea del Toboso – queste esatte parole: «Iddio sa se c’è al mondo Dulcinea, o non c’è; se è immaginaria o non è immaginaria; e non son queste cose la cui prova debba essere spinta fino in fondo».

Cos’è questa, se non una vera e propria con­fessione quanto al mistero della reale natura della donna amata? E questo voler lasciare in so­speso la questione non è forse prova della ferrea volontà di sfuggire la domanda?

Concludendo: questa Pubblica Accusa è, oltre la propria funzione, un essere umano.

In quanto tale, teme la noia almeno quanto la malattia: anzi, ritiene che non vi sia differenza so­stanziale tra le due, essendo la prima un morbo dell’animo. Non mi è difficile riconoscere che, di fronte alla noia, alle brutture, agli inciampi e alle difficoltà della vita quotidiana, la tentazione di fin­gersi pazzo, di chiudere gli occhi per rinchiudersi in un proprio mondo immaginario è forte.

Mi viene in mente un altro famoso caso giu­diziario: quello di Luca Cupiello, il personaggio di Natale in casa Cupiello di Eduardo De Filippo, che proprio per non vedere le meschinità che lo circondano (un figlio imbelle e ladruncolo; una figlia condannata a un matrimonio infelice al quale l’aveva spinta la sua stessa famiglia; un fratello petulante e parassita; una moglie inaridita dalla vita e sopraffatta dalla responsabilità di co­noscere bene tutte queste verità) si concentra nel presepe, in questo suo mondo immaginario.

Ecco, signor Presidente, tutti noi viviamo co­stantemente nella tentazione di costruirci un no­stro presepe, per rifugiarci al suo interno.

L’imputato ha fatto lo stesso, scegliendo come proprio presepe i suoi romanzi, il suo elmo, la sua lancia sbilenca, il suo scudo malmesso.

Ma qual è la conclusione cui si arriverebbe se ognuno di noi decidesse per la fuga, per il na­scondersi in un proprio mondo immaginario in cui l’unico imperativo vigente è fare ciò che ci pare, per stare bene, per sentirsi bene?

Il caos.

Miliardi di mondi paralleli privati, incomuni­cabili e in conflitto tra loro. Senza regole, senza principi, senza criteri. Senza leggi.

E allora, signor Presidente, questa è la vera colpa dell’imputato a giudizio dell’Accusa: l’aver finto per vigliaccheria, per rinuncia alla vera sfi­da, alla vera missione dell’uomo: che non è quel­la di costruire mondi fantastici con un unico abi­tante, colui che sogna, ma sforzarsi, sporcarsi le mani, impegnarsi fino allo spasimo per trovare il modo di convivere con i propri simili, rispettan­doli e venendo rispettati.

Questa è la vera impresa epica: non fuggire dalla realtà per combattere i mulini a vento.

Tutti sono capaci di lottare contro i mulini a vento, e forse è proprio quello che tutti noi fac­ciamo giorno per giorno: molto più difficile, mol­to più eroico, molto più umano nel pieno senso del termine è imparare a smontare i mulini a vento, per provare a farli funzionare bene.

Questo Tribunale ha una lunga tradizione di pene alternative, signor Presidente, applicate fin dalla prima edizione dei Processi Immaginari.

Chiedo quindi che l’imputato venga condan­nato a scontare un anno di reclusione domici­liare nella sua abitazione, nella quale venga cu­stodito, in luogo della fantastica biblioteca già in possesso dell’imputato, un solo libro: Le città in­visibili, di Italo Calvino, sottolineato nella pagina in cui afferma:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’infer­no che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Uno è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

(continua in libreria…)

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