Nonostante i problemi, le sfide e le complessità del presente, la cultura d’impresa ha trovato originali spazi di espressione – Su ilLibraio.it un estratto dal nuovo saggio di Antonio Calabrò, “L’avvenire della memoria – Raccontare l’impresa per stimolare l’innovazione”. In cui si parla della “sfida del racconto con gli strumenti creati dal nuovo umanesimo digitale”
Le sfide del climate change, la pandemia e la recessione, gli squilibri geopolitici e i venti di guerra nel cuore dell’Europa: gli eventi spingono con urgenza verso un cambio di paradigma delle relazioni politiche e dello sviluppo economico e sociale. Come spiega nel suo nuovo saggio Antonio Calabrò, servono dunque una rilettura critica del catalogo delle idee e la scrittura di nuove mappe della conoscenza, per riconsiderare anche le scelte economiche e culturali sul “progresso”.
In L’avvenire della memoria – Raccontare l’impresa per stimolare l’innovazione (Egea) l’autore sottolinea come le imprese abbiano risorse essenziali: la forza innovativa d’un dinamico capitale sociale e la profondità d’una cultura plasmata dall’umanesimo industriale che ha contraddistinto la storia economica del paese.
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Se la letteratura sembra spesso estranea o a volte ostile al mondo produttivo, la cultura d’impresa ha trovato originali spazi di espressione: dalle riviste aziendali agli archivi che custodiscono una solida cultura politecnica, dal teatro alla musica, dalla promozione della ricerca di base all’utilizzo dei nuovi strumenti digitali.
Parole, immagini e tecnologie animano un racconto consapevole, che pone una sfida al mondo della comunicazione: rilanciare una rappresentazione attendibile delle trasformazioni in corso, alla ricerca delle radici di quella cura per la bellezza, che si fa valore identitario, portatore di una positiva forza economica di sviluppo.
Calabrò, senior vice president Affari istituzionali e cultura di Pirelli e direttore della Fondazione Pirelli, è presidente di Museimpresa e della Fondazione Assolombarda, vicepresidente dell’Unione Industriali di Torino e membro dei board di numerose istituzioni e società. Giornalista e scrittore, ha lavorato a L’Ora, Il Mondo, la Repubblica ed è stato direttore editoriale del gruppo Il Sole24Ore.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto dal capitolo “Impresa e lavoro vanno in scena – La sfida del racconto con gli strumenti creati dal nuovo umanesimo digitale”
Credo che ciò che diventiamo dipende da quello che i nostri padri ci insegnano in momenti strani, quando in realtà non stanno cercando di insegnarci. Noi siamo formati da questi piccoli frammenti di saggezza. – Umberto Eco
Abbiamo vissuto, in questi anni di pandemia e quarantene, la fatica (dura, pur se necessaria) della separazione sociale e poi del distanziamento. I teatri e i musei, i cinema e i luoghi della musica e dell’arte chiusi. Il deserto doloroso del palcoscenico, solo parzialmente e meno efficacemente sostituito dalla vivacità degli schermi digitali. E adesso che finalmente, grazie anche alla diffusione dei vaccini e al miglioramento dell’assistenza sanitaria, si torna a circolare, vale la pena, proprio pensando a quelle parole di Paolo Grassi sulla cultura partecipata, da cui siamo partiti, sottolineare a noi stessi che i teatri e i musei, i luoghi della musica e dell’arte hanno una straordinaria valenza culturale, ma anche e soprattutto una fondamentale rilevanza civile. Sono infatti spazi vivi della comunità, della polis, della democrazia. In cui l’arte, la cultura creativa e quella politecnica, il senso della bellezza, il rigore della scienza e la responsabilità della parola sono indispensabili per «rifiutarsi di stare dalla parte del flagello», della malattia, delle fratture dolorose della crisi, proprio come ci ha ricordato Albert Camus ne La peste.
Vale la pena rifarsi anche alla lezione di Leonardo Sciascia, sul peso e la forza della letteratura: «Credo nel mistero delle parole e che le parole possano diventare vita, destino, così come diventano bellezza”. Cultura come civiltà raccolta, ricostruita, raccontata, rappresentata, appunto. Come memoria necessaria per il futuro.
L’Italia è creatività, spirito d’intraprendenza, senso di comunità aperta e inclusiva. Partecipazione. E ha rivelato, in queste stagioni di crisi così come in altri passaggi drammatici della nostra storia, un capitale sociale di straordinario valore, in cui le radici nella tradizione, il genius loci della bellezza e l’attitudine costante a «fare, fare bene e fare del bene» s’incrociano con un forte spirito d’innovazione. Una sfida generale di cultura, che riguarda le imprese culturali e la cultura d’impresa, nella costruzione di una sintesi in cui la nostra identità nazionale, mobile e molteplice, orgogliosa e dialettica, si conferma come cardine essenziale dei progetti di un migliore destino, per noi e per tutto il resto d’Europa.
La sfida investe in pieno anche la formazione della classe dirigente, non solo quella politica, per cercare di emergere dalla mediocrità generale che ci avvolge e, sinceramente, ci sgomenta. Mettersi di fronte a Re Lear, a Riccardo III o al Mercante di Venezia seguendo attentamente i dialoghi portati in scena da Shakespeare per ragionare sul potere, la legge e la responsabilità, ripercorrere l’Italia degli scrittori e degli artisti in cerca di quel che ci distingue e ci unisce, rileggere Kant e la lezione poetica e morale delle opere di Leopardi, riflettere sull’economia civile e più equilibrata indicata da Antonio Genovesi e poi da John Maynard Keynes e da Federico Caffè (ne abbiamo parlato nel primo capitolo), ascoltare la simmetria creativa delle Variazioni Goldberg di Bach e delle improvvisazioni jazz di Charlie Parker, emozionarsi con Verdi e divertirsi con Rossini, guardare dentro i tagli e gli incastri delle opere di Fontana e di Burri e commuoversi davanti ai Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer, leggere le considerazioni tecniche ed etiche di Primo Levi chimico e le indicazioni sulla scuola di Piero Calamandrei, don Lorenzo Milani e Tullio De Mauro e così via, continuando all’infinito, significa recuperare e ricostruire una coscienza civile e un senso profondo della storia e del futuro senza i quali non usciremo dal nostro tempo accidentato e tagliente di smarrimento e di crisi. Senza produrre e vivere cultura, non c’è comunità che tenga né avvenire dignitoso per i nostri figli e nipoti.
Suggerimenti interessanti vengono, per esempio, anche dalle pagine accurate e ben documentate che Maurizio Luvizone dedica alla cultura italiana, alle sue caratteristiche e ai suoi strumenti, insistendo sulla necessità di un «marketing gentile» per le attività culturali e indicando come il profondo rinnovamento dei loro processi e delle loro forme espressive sia una delle questioni fondamentali con cui fare i conti, nel cambio di paradigma dopo le numerose crisi che hanno travagliato e ancora squassano il mondo (sicurezza, ambiente, finanza, lavoro, equilibri sociali) e stravolgono le istituzioni politiche e i mercati. Luvizone è uomo di solida cultura e contemporaneamente uomo d’impresa. Conosce esigenze, logiche e criteri di gestione delle imprese culturali. Ne studia, con severità, fenomeni e assetti. Lavora su dati e fatti, per rafforzare le analisi e dare senso alla praticabilità delle proposte di nuovi e ambiziosi obiettivi e di riforma della governance delle loro strutture, nel segno di una migliore collaborazione tra pubblico e privato, tra istituzioni e mercati. E individua con precisione il nodo dell’attuale crisi: di risorse ma anche di linguaggi, manifestazioni, relazioni con il pubblico.
C’è un punto fondamentale su cui riflettere: è indispensabile investire non solo sugli eventi, ma soprattutto sulle strutture che innervano i processi culturali nel lungo periodo. Sui conservatori e non soltanto sui festival e le stagioni musicali. Sulle scuole d’arte e non solo sulle grandi mostre. Sulle biblioteche pubbliche e private e non solo sulle rassegne e gli incontri con gli autori famosi. La nostra cultura è stata ed è sempre più segnata, purtroppo, da un’effimera tendenza all’«eventologia». Bisogna insistere invece sulle radici della formazione, della sperimentazione, della ricerca: pensare al tempo disteso dei processi culturali, alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio culturale, al sostegno alle istituzioni in cui si pongono le basi della cultura di domani. E ai raccordi tra cultura, scuola, impresa.
Un raccordo fondamentale. Per formare, più e meglio di quanto già non si faccia in alcune università italiane, figure professionali multidisciplinari tra cultura umanistica e conoscenze scientifiche e tecniche, amministratori della cosa pubblica sensibili all’armonia e manager appassionati di linguistica e statistica (tornando così all’importanza delle parole e al loro potere di dire e trasformare la realtà), medici dediti alla ricerca e consapevoli della complessità d’una persona e delle sue fragilità, fisiche e psicologiche. Per formare, insomma, cittadini di un nuovo umanesimo proprio in tempi di trasformazioni sociali radicali, di inedite sfide tecnologiche digitali. Un umanesimo digitale che ci consenta di abitare consapevolmente e di trasformare l’infosfera di cui abbiamo parlato nei capitoli precedenti. Cultura sofisticata, insomma, per costruire, guidare, interpretare e – perché no? – sottoporre a critica consapevole gli algoritmi che determinano la comunicazione e gran parte dei processi di vita e lavoro collegati, nella stagione confusa del predominio dei social media. Una cultura della responsabilità.
La grande crisi finanziaria del 2008, con i suoi drammatici impatti sugli squilibri sociali, e oggi la devastante relazione tra pandemia e recessione e, con forza dirompente, la guerra nel cuore dell’Europa si rivelano come straordinari acceleratori d’una indispensabile metamorfosi di forme, contenuti, linguaggi e, dunque, di valori fondanti dei processi culturali.
Torniamo, anche da questo punto di vista, ai nodi della cultura come fondamento della civitas e della democrazia. Una cultura – vale la pena insistere – come ricerca e racconto, analisi e rappresentazione.
Il discorso pubblico, dunque, può andare oltre la schematica coppia dialettica apertura/chiusura per teatri e musei che ha caratterizzato le discussioni tra 2020 e 2021. E lasciare invece spazio a una più fertile analisi su come difendere la forza e la bellezza della cultura dal vivo, rafforzandola e rilanciandola con le esperienze e le prospettive della cultura digitale, che abbiamo vissuto con accelerata intensità. Nel tempo sospeso e fragile della pandemia, di paure e di chiusure forzate in casa, siamo stati tutti coinvolti dalla passione per lo streaming, per le manifestazioni e gli spettacoli sugli schermi di computer, smartphone e tv, dove, probabilmente, le attività culturali in buona parte resteranno, anche dopo la riapertura di cinema e teatri, musei e gallerie. E faremo dunque i conti con un’originale convivenza: la dimensione digitale e l’esperienza dal vivo d’un concerto, d’una mostra d’arte, d’una lezione di storia, d’un dibattito letterario.
Di sicuro la rappresentazione digitale è entrata nelle nostre vite, con una radicale modifica dei modi che prima della pandemia non immaginavamo affatto. La rapida diffusione del 5G (al centro degli investimenti del Recovery Plan dell’Europa) amplierà ulteriormente il processo. E consentirà di raggiungere un altro risultato fondamentale: far vivere i processi culturali e le rappresentazioni anche nell’Italia delle piccole città e dei borghi, dare una più dinamica dimensione di partecipazione a luoghi rimasti sinora tagliati fuori dai flussi principali della cultura.
La sfida che abbiamo di fronte, come donne e uomini di cultura e d’impresa, ma anche come cittadini/spettatori/amanti dell’arte non è solo di imparare a convivere con l’innovazione, ma soprattutto di essere parte attiva nella costruzione di nuovi meccanismi di partecipazione e fruizione delle attività culturali, di stare dentro, con spirito sia critico che costruttivo, all’individuazione di originali forme di cultura popolare: nuovi linguaggi, nuove modalità di costruzione dei processi culturali, nuovi rapporti tra memoria e tecnologie d’avanguardia.
(continua in libreria…)