“L’insostenibile bisogno di ammirazione” è il nuovo saggio dello psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet, che riflette sul narcisismo moderno in una feroce analisi della società contemporanea, dove all’etica si è sostituita l’estetica… – Su ilLibraio.it un capitolo

Psicoterapeuta di formazione psicoanalitica e specializzato in psichiatria, Gustavo Pietropolli Charmet è l’autore de L’insostenibile bisogno di ammirazione (Laterza), saggio che approfondisce l’individualismo e la perpetua ricerca di gratificazione che ha invaso lo spazio pubblico e privato dei rapporti umani.

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Autore di Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi (Laterza) e Cosa farò da grande? Il futuro come lo vedono i nostri figli (Laterza), Pietropolli Charmet parte dal presupposto, condiviso da diversi pensatori europei, che la scomparsa del Patriarcato e del Padre come figura di riferimento e portatore di determinati valori, abbia portato a una sempre più forte percezione del Sé e, di conseguenza, all’individualismo e al narcisismo.

Il libro evidenzia come, rispetto alle società del passato, le regole della comunità contano sempre di meno nella scala di valori dell’individuo, a favore di un insaziabile bisogno di ammirazione la cui manifestazione più evidente è l’ossessione per il numero di like che si ottengono sui social network; quando i like non si ottengono, invece, subentra la vergogna, i disturbi alimentari e diversi stati di sofferenza mentale.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto del saggio:

I selfie e il bisogno di espressione

Che dire allora dell’incessante ricerca di ottenere una foto che ci ritragga in vicinanza al personaggio noto? Un selfie è ancora vissuto come un autoscatto? Penso di no. Credo invece che sia vissuto dall’autore e dai destinatari come un tentativo di cogliere la realtà nella sua velocissima trasformazione e come un documento legittimo, quasi dovuto, concernente la vita di relazione e le occasioni di incontro del protagonista. Mi sembra di aver capito che un selfie non abbia un unico destinatario ma una platea in attesa di avere notizie aggiornate e immagini interessanti; questo mi sembra il suo significato; siamo nel cuore dei social network mentre si dipana il reportage del protagonista (Di Gregorio 2017).

Apparentemente nulla di nuovo e sorprendente, il solito tentativo di socializzare il privato trascinandolo a viva forza sulla scena sociale, invitando tutti al banchetto dell’ultima gag che avrebbe l’ambizione di essere cautamente divertente. Ritegno, prudenza, cautela, riservatezza svaniscono lontani mentre si srotola l’ennesima sequenza del docufilm del nostro protagonista che racconta l’ultima puntata di una storia ben nota e proprio per questo gradita e fruibile senza suscitare aspri commenti o critiche sullo scarso interesse delle immagini registrate.

La prima volta che mi è successo di assistere alla produzione internazionale di selfie da parte di centinaia di persone è stato qualche anno fa in piazza San Marco a Venezia; rimasi fra lo sbigottito, il divertito e lo spaventato per la prepotenza della moda vedendo che tutti erano girati dalla parte opposta. La chiesa di San Marco era dietro di loro, non davanti all’obiettivo della macchina; loro, in piccoli gruppi familiari o amicali, stavano guardando nell’obiettivo, facendo smorfie, boccacce, mostrando le lingue e facendo le corna o il segno di vittoria e uno di loro impugnava un’asta che allargava il campo. Sulle prime non riuscii a capire l’aspetto radicalmente insolito del posizionamento della macchina, poi mi arresi all’evidenza: la foto aveva come obiettivo il soggetto, non l’oggetto; al massimo potevo ipotizzare che avere come scenario la chiesa di San Marco potesse essere un incentivo a scattare un selfie, ma rimaneva chiaro che l’oggetto di culto è il fotografo, i suoi complici, e non una delle chiese più fotografate al mondo. Mi sembrava sfacciato il voltafaccia, per di più compiuto all’unisono e in grandissimo numero; poi mi sono abituato all’idea che il selfie non è la fotografia convenzionale del turista, ma fa parte della narrazione in corso, gli amici sanno che il protagonista è in viaggio in Italia e aspettano di assistere alle smorfie che produrrà per sottolineare il giubilo e il piccolo trionfo personale nel trovarsi proprio lì e poter scattare dal selciato della piazza un selfie destinato al suo pubblico, che gradirà perché un selfie prodotto in quelle condizioni vale di più in quanto prende in giro e azzera l’importanza storica ed estetica del monumento, valorizzando l’offerta del piccolo gruppo di esportatori del privato nel pubblico con un fondale divertente, finalmente portato così in basso da essere veramente di largo consumo, privato del suo valore simbolico. È la smorfia compiaciuta e di intesa del fotografo che conta, non i quattro cavalli d’oro che, se fossero vivi, forse si adombrerebbero per l’essere destituiti dalla loro posizione dominante ed essere presi in giro dai selfie delle orde di turisti decisi a far trionfare il Sé sull’oggetto, a sminuire l’importanza dell’istituzione a vantaggio del divertimento privato, fracassone e insolente.

Devo ammettere che una confessione pubblica così sfrontata dell’azzeramento dell’importanza del nome del Padre e della Cultura, della Storia e del Bello e della conquista da parte dei bambini chiassosi dell’inquadratura cruciale, mi ha sconcertato; vederli tutti girati dalla parte del Sé e non dell’oggetto – e che oggetto – mi ha fatto impressione perché mi illudevo che il processo fosse sotterraneo, che non si potesse mettere in scena in piazza San Marco una colossale dimostrazione dal vivo di chi comanda al giorno d’oggi e di chi deve abbassare lo sguardo o cercare di non passare di lì per non vedere cosa è veramente successo. D’altra parte ho visto dei selfie scattati dai fan di Obama e persino dei superselfie scattati dalle fedelissime di papa Francesco, che si è prestato anche a questo; ma le fedeli non hanno rinunciato alle boccacce – che evidentemente sono obbligatorie – neppure col papa, vittima di sequestro da parte di una moda apparentemente innocente, in realtà protesa ad azzerare il valore delle istituzioni simboliche per celebrare l’orrenda dittatura della moda, travestita da falsa e bugiarda democrazia.

È fin troppo ovvio che la diffusione della moda del selfie rappresenta una protesi della fragilità dell’autostima e racconta della paura di non essere visto e quindi di essere dimenticato; il lenimento degli amici che guardano è veramente un balsamo e celebra, se ce ne fosse bisogno, l’importanza dello sguardo dell’altro, nella speranza che distillandolo si possa estrarne qualche stilla di ammirazione.

(Continua in libreria…)

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