“I vestiti che ami vivono a lungo”, scritto da Osola de Castro, designer di moda sostenibile (tra le fondatrici del movimento “Fashion Revolution”), racconta i problemi etici e ambientali dell’industria della moda, e propone soluzioni (sia a livello industriale sia culturale) per poterli risolvere. Perché l’attenzione all’ambiente passa anche dagli abiti che si scelgono – L’approfondimento, in cui si parla anche del sistema di sfruttamento dei lavoratori

Chi si tiene informato sull’emergenza climatica lo sa: quasi tutti i settori economici sono ormai dominati da un intreccio controverso di rischi per la natura e di pratiche non etiche. Anche la moda non è da meno: lo descrive in modo articolato e approfondito Orsola de Castro, designer di moda sostenibile e tra le fondatrici del movimento Fashion Revolution, nel saggio-manuale I vestiti che ami vivono a lungo (Corbaccio, traduzione di Olivia Crosio).

Quasi ogni nuovo capo di vestiario che acquistiamo, sia economico sia di lusso, è il prodotto di sistemi che inquinano terreni, acqua e atmosfera (“si stima che il 20% della contaminazione delle acque di tutto il mondo sia il risultato diretto della tintura e dei trattamenti dell’industria tessile”), oltre che, spesso, di un sistema di sfruttamento dei lavoratori che inizia con la coltivazione, raccolta o produzione dei materiali grezzi e prosegue in tutti i passaggi della creazione di un indumento.

Il crollo del Rana Plaza è stato uno degli esempi più tragici delle condizioni in cui sono costretti a lavorare gli operai tessili (in gran parte giovani donne e a volte anche minori). Il Rana Plaza era un edificio di otto piani a Dacca, in Bangladesh, che ospitava diverse fabbriche di produzione tessile. Nel 2013 è crollato, causando la morte di 1129 persone e più di 3000 feriti: il giorno prima era stato evacuato per evidenti pericoli strutturali, ma i lavoratori erano stati costretti a tornare per non interrompere la produzione.

Quello del Rana Plaza si va ad aggiungere a una lista di incidenti che sono stati fatali a moltissimi lavoratori, che si sarebbero potuti evitare con condizioni di lavoro più etiche. Proprio per questa ragione è nato il movimento Fashion Revolution, che sostiene il bisogno di cambiare il mondo della moda per migliorare le condizioni dei lavoratori, diminuire il suo impatto ambientale e rendere più trasparenti e tracciabili tutte le fasi della produzione del vestiario. Tra il 19 e il 24 aprile (anniversario del crollo del Rana Plaza) si terranno in tutto il mondo diverse iniziative di sensibilizzazione cn il nome di Fashion Revolution Week.

Orsola de Castro - foto di Tamzin Haughton

Orsola de Castro – foto di Tamzin Haughton

Si parla di rivoluzione perché acquistare capi in parte riciclati, intessuti con fibre biologiche e in apparenza “green” non basta: l’intero sistema va ripensato affinché diventi veramente sostenibile. Il settore dell’abbigliamento è infatti votato allo spreco: “ogni anno viene buttato via più del 75% dei 53 milioni di tonnellate di capi di prodotti nel mondo”. I ritmi e i quantitativi di produzione e il bisogno indotto di indossare capi sempre alla moda portano i consumatori a disfarsi della gran parte dei vestiti che acquistano, e i marchi a incenerire stagionalmente l’invenduto per far spazio all’arrivo di nuovi prodotti.

Anche se non siamo noi in quanto consumatori a poter imporre sulle aziende tessili gli enormi e costosi cambiamenti che sarebbero necessari, possiamo comunque spingere al rinnovamento attraverso i modi in cui decidiamo di acquistare (o di non farlo).

Come spiega nel suo libro De Castro, anche grazie a una panoramica dei costi ambientali e etici dei materiali utilizzati dall’industria tessile, la vera sostenibilità passa dal comprare sempre meno e soprattutto di seconda mano. Se proprio non si vuole rinunciare all’acquisto di capi nuovi, l’opzione più sostenibile, per l’autrice, è quella di scegliere prodotti di fattura artigianale, riciclabili al 100%, creati per essere destinati a durare con fibre ecologiche; in altre parole, sostenere con il proprio portafogli solo marchi e artigiani che rispettano sia i lavoratori che l’ambiente. Oppure ancora, soprattutto per le cerimonie, per le feste annuali che si celebrano tramite travestimenti o per le occasioni rare, scegliere il noleggio.

Il cambiamento necessario è ancora una volta culturale: bisogna dimenticare lo sfruttamento per tornare a una “cultura dell’apprezzamento”. Ci sono molti modi (e infiniti tutorial e esempi sul web, upcycle è la parola chiave) per riparare o destinare a una nuova funzione i vestiti danneggiati o che non possono essere rimessi sul mercato.

A volte purtroppo, illustra de Castro, anche chi sceglie di non gettare gli abiti che non desidera più e di darli in beneficenza crea inconsapevolmente dei danni: si ritiene infatti che il 70% delle donazioni finisca direttamente alle ditte di smistamento e riciclo del tessile che, importandoli in paesi meno ricchi, creano perdite nelle economie locali.

Oxfam, si legge sempre in I vestiti che ami vivono a lungo, stima per esempio che questo sistema in Africa causi una perdita di circa 42,5 milioni di dollari l’anno, senza considerare la perdita delle tradizioni e delle eredità artigianali che smettono di essere trasmesse e condivise perché il mercato locale viene dominato dai vestiti di importazione a bassissimo costo.

Come anticipa già il titolo, l’opzione veramente etica e sostenibile è quindi quella di amare i propri vestiti, facendoli durare il più a lungo possibile tramite la giusta manutenzione (de Castro illustra quali sono le giuste abitudini di lavaggio, asciugatura e di eventuale stiratura), riparandoli nel caso in cui si logorano.

Quando non si desiderano più si possono rimettere sul mercato, organizzare swap party (in cui tutti portano vestiti da scambiare, e riportano a casa quelli che non sono stati scelti), oppure trasformare in un altro capo di vestiario o in un tessile per la casa. “Riparare – scrive de Castro – non significa che non possiamo permetterci di comprare qualcosa di nuovo, ma che non possiamo permetterci di buttare via quello che consideriamo vecchio”.

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