Mentre i discepoli sono scappati tutti per paura o viltà, sul Calvario, negli ultimi istanti di vita di Gesù, restano solo loro con un coraggio che talvolta manca agli uomini – La riflessione, che parte dal Vangelo e ci porta al presente

Giovanni lo annota con piglio quasi da cronista: “Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala” (Gv 19:25-42). La scena si svolge poco fuori le mura di Gerusalemme su uno sperone roccioso chiamato “Golgota”, in aramaico “Cranio”, ribattezzato “Calvario” dai Romani. Due sbrigative sessioni processuali, durate poche ore e celebrate davanti alla massima autorità giudaica, il Sinedrio, e a quella imperiale del procuratore romano Ponzio Pilato, hanno condannato alla pena capitale il predicatore ambulante di Galilea di nome Gesù. Adesso siamo quasi all’epilogo. Ad assistere all’esecuzione ci sono alcuni soldati romani che dovranno constatare l’avvenuto decesso del condannato. Incombe Shabbat peraltro, e bisognerà fare in fretta. I discepoli di quel predicatore si sono dileguati tutti. Anche quelli che solo qualche giorno prima l’avevano accolto trionfalmente a Gerusalemme con rami e fronde d’ulivo se la sono data a gambe levate. Qualcuno ha pure giurato e spergiurato di non conoscerlo e di non averlo mai frequentato quel crocifisso che con le sue parole ha gettato scompiglio nella paludata società dell’epoca. I curiosi osservano lo spettacolo da lontano più per morbosità che per compassione.

Morire dopo essere stati condannati al supplizio infamante degli schiavi è già una pena terribile. Morire da soli è una pena nella pena. Muoiono soli – lontani dagli affetti dei propri familiari e nelle mani di aguzzini senza scrupoli – i  migranti nel Mediterraneo durante le traversate a bordo di navi negriere. Muoiono sole, dopo essere state stuprate e torturate, le donne costrette a prostituirsi che si ribellano ai loro magnaccia. Muoiono soli, negli inferi delle nostre città, i disperati e gli invisibili d’ogni tipo e disavventura: senzatetto, tossicodipendenti, alcolizzati, poveri, gente che s’è arresa definitivamente alla strada e alle sue leggi. Muoiono soli i bambini malnutriti, malati e agonizzanti nei lebbrosari africani e indiani. Muoiono soli coloro che decidono di farla finita perché la vita è diventata un fardello insopportabile. Muoiono soli gli anziani abbandonati negli ospedali e negli ospizi.

Questa mappa dell’orrore e dell’infelicità di tanti dannati della terra sarebbe ancor più tetra e oscura senza le innumerevoli e spesso anonime testimonianze d’amore nei loro confronti da parte di donne. Missionarie, laiche, religiose, volontarie. Come sul Calvario, impavide e ardimentose, quasi eroine salgariane, vanno in posti da dove tutti scappano. Raccolgono gli scarti delle nostre città e li curano, li strappano alla violenza e al dolore, spezzano la spirale del male, talvolta accompagnano questi disperati alla morte con uno sguardo, una carezza, un gesto che restituisce loro un brandello di dignità prima della fine. Sono quasi sempre donne, proprio come quelle che fino all’ultimo seguono Gesù e ne accompagnano l’agonia e la morte sul Calvario quando non era certo politicamente corretto mostrarsi compassionevoli, fino a quel punto poi, nei confronti del condannato. Superano pregiudizi e incomprensioni, sono capaci di farsi beffe dei risolini di scherno di chi suggerisce che è meglio lasciar perdere e non avere nulla a che fare con certi reietti.

“Stavano”, dice lapidario il Vangelo. Lo stare delle donne sul Calvario e sui calvari della storia non è una mera presenza di routine, un dovere d’ufficio, l’occupare uno spazio, l’assolvimento di un obbligo in nome della retorica stucchevole della solidarietà. Lo stare di queste donne è compassione, pietà, lotta per la giustizia, coraggio, anticonformismo. Queste donne, che “stanno” e non scappano, conoscono e vivono a fondo la vita a dispetto di un pregiudizio patetico e duro a morire di chi talvolta le considera dimesse e fuori dal mondo. A differenza degli uomini, spesso codardi e pavidi come quei discepoli che scapparono e si chiusero in casa per paura e viltà, queste donne “stanno” con un coraggio che meriterebbe espressioni di ammirazione quasi militaresca. La loro è una risolutezza gentile, tipicamente femminile, che le spinge a difendere, aiutare, comprendere senza voler insegnare, ordinare e neppure convertire. Il loro stare è una battaglia permanente. È la dimostrazione, concreta, quasi carnale, che l’amore è spesso arduo, insidiato, magari oltraggiato ma possibile e necessario. Il loro stare è il segno più potente dell’amore che non giudica e che il principe di questo mondo, il male, è già stato giudicato, come dice la Scrittura. Lo stare di queste donne è il coraggio della santità, religiosa o laica che sia. È il coraggio di Etty Hillesum, la ragazza morta ad Auschwitz che “non sapeva inginocchiarsi”, come ha confidato lei stessa, ma di fronte alla possibilità di salvarsi scelse di restare nel campo della morte per aiutare gli altri condannati . È il coraggio di suor Rita Giaretta, scappata letteralmente di casa, ribelle alla madre che voleva trattenerla in una vita per lei falsa e posticcia, per ridare dignità alle donne vittime della tratta.

È il coraggio delle tanti madri anonime che non si vergognano di andare in carcere per trovare i figli detenuti. È il coraggio delle madri di Plaza de Mayo e della loro lotta non violenta contro il regime argentino. È il coraggio di suor Eugenia Bonetti, anche lei infaticabile guerriera contro la tratta delle schiave per il commercio sessuale, che una volta mise in imbarazzo George Bush. Lui aveva voluto conoscerla e le aveva chiesto: “Sister, secondo Lei, noi governanti, facciamo abbastanza contro il traffico umano?”. “No, signor Presidente, non fate abbastanza”, gli rispose impavida. È il coraggio di Silvia Romano, la giovane cooperante rapita in Kenya, schernita e accusata di ingenuità e leggerezza per aver scelto di andare in Africa. È il coraggio di Cristina Cattaneo, che nel suo laboratorio di Milano cerca di dare un nome, e quindi la dignità, ai resti dei migranti morti nel Mediterraneo.

Queste donne non hanno nulla del santino politicamente corretto, non possono essere arruolate come testimonial di una filantropia tutta glamour e discorsi edificanti. Ogni giorno scelgono di non scappare e “restare”. Da storie di odio riescono a tirar fuori e insegnare l’amore.

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