Nel suo primo libro Valentina Petri, ideatrice della pagina Facebook “Portami il diario”, racconta la scuola dal punto di vista (autoironico) di una prof di lettere in un istituto professionale. Su ilLibraio.it parla degli insegnanti alle prese con la didattica a distanza e le tante sigle del gergo scolastico: “La DAD non ha inizio e non ha fine. Ci ha sprofondati nel girone dantesco dei whatsappanti, in cui riceviamo compiti a ogni ora, fino alle tre di notte, rispondiamo a domande mentre cuciniamo, inviamo vocali spiegando il feudalesimo mentre passiamo lo straccio al pavimento…”

Nonostante l’emergenza, nonostante la pandemia, nonostante il fatto che il mondo ci sia cambiato da sotto la cattedra, c’è una cosa che a scuola siamo comunque bravissimi a fare. No, non è l’analisi logica. Sì, oddio, anche con quella ce la caviamo, ma più ancora, più della grammatica e delle equazioni, più dei nomi dei fiumi e delle date delle battaglie, noi siamo bravissimi a inventare le sigle.

Non so negli altri mestieri come sia, ma a scuola una cosa, per esistere, deve avere una sigla. Ci troviamo a settembre a scrivere il POF, che è diventato PTOF, per non parlare del PON. Vi giuro. Gli altri fanno le riunioni, se fanno i fighi fanno le conference call; noi facciamo i CdC, consigli di classe. Compiliamo i PEI, i piani educativi individualizzati, oppure i PFI che francamente non mi ricordo neanche più cosa vuol dire, so che all’epoca avevo suggerito “pallosissimi faldoni inutili” ma probabilmente stava per qualcosa d’altro.

Anche ai bisogni e ai disturbi dei ragazzi abbiamo dato una sigla, che finisce pericolosamente per indentificare non le loro necessità, ma loro stessi. “Ho due BES (bisogni educativi speciali), tu quanti ne hai?” Una volta un’alunna mi ha detto: “Guardi, prof, che io sono DSA“. “No, tesoro, tu HAI un DSA (un disturbo specifco dell’apprendimento), ma non lo sei, non ti identifica mica.”

Le sigle sono brutte. Siamo riusciti a dare una sigla persino al preside, che adesso è il Dirigente Scolastico, anzi il DS. Finisce che lo chiamiamo Diesse, strascicando le s manco dicessimo “il mio tesssoro”.

E quindi, in piena pandemia globale totale, cosa abbiamo fatto noi a scuola? Abbiamo fatto partire la DAD. Che quando l’ho visto scritto sulla prima circolare, quella pionieristica in cui il preside, pardòn, il DS, ci esortava a utilizzare qualunque mezzo pur di portare avanti la pugna, io mi sono chiesta, mentre giravo un ridicolo video di storia su YouTube: “Cos’è che dovrei fare?”. La DAD. Didattica a distanza. Un nome dadaista per una cosa che in realtà è un ossimoro, perché la didattica, a scuola, si fa in presenza. A distanza si trasmettono nozioni, si comunicano contenuti, si parla davanti a quadratini muti, ma la didattica vera è in presenza, nelle aule, negli intervalli anche, nelle uscite, ma con i ragazzi davanti alla faccia e non dietro a uno schermo. La DAD è un incrocio tra una delle sette piaghe bibliche (io, da vercellese, avrei avuto meno problemi con la pioggia di rane) e una tortura medievale, anzi, alla fine di una giornata senza orario davanti al computer mi sento tonica come se avessi trascorso il tempo sotto il sole immobilizzata sulla gogna. La DAD non ha inizio e non ha fine. Ci ha sprofondati nel girone dantesco dei whatsappanti, in cui riceviamo compiti a ogni ora, fino alle tre di notte, rispondiamo a domande mentre cuciniamo, inviamo vocali spiegando il feudalesimo mentre passiamo lo straccio al pavimento.

Rispondiamo a sera tarda. Facciamo lezione su Zoom con i figli in braccio e salutiamo mamme fratellini cani e gatti, che saltano sulla tastiera, e intanto smessaggiamo con quelli di un’altra classe che mandano le relazioni via mail e poi ci inviano un vocale per sapere se è arrivato l’allegato. Io non so se la scuola che verrà prevederà misurazioni di temperatura all’ingresso, mascherine, distanziamento, pulizia e disinfezione, se ci sarà chiesto di irrorarci di amuchina, di urlare al megafono in aule grandi come palestre dove tra la cattedra e l’ultima fila c’è la stessa distanza che intercorre fra due porte di calcio avversarie.

Magari è la volta che a furia di passare tra i banchi dimagrisco. So solo che qualunque cosa, qualunque, sarà meglio di questo stillicidio costante che ha tolto al mio lavoro tutto ciò che è bello (la discussione, il confronto, i ragazzi, le loro espressioni, le loro voci, la loro presenza) e mi ha lasciato tutto ciò che prima stava intorno: i compiti, le correzioni, le valutazioni, il passaggio di informazioni fine a stesso. E mi ha lasciato anche infinite preoccupazioni e una infinita stanchezza, fisica e mentale. Ecco, forse l’ho capito solo adesso per che cosa sta la sigla DAD. Devo Assolutamente Dormire.

Valentina Petri "Portami il diario" - Rizzoli

L’AUTRICE E IL SUO PRIMO ROMANZO – Valentina Petri vive a Vercelli, dove insegna lettere all’istituto professionale Francis Lombardi. Dal 2017 condivide le sue storie di scuola sulla pagina Facebook Portami il diario. Che dà anche il nome al suo primo romanzo, in libreria per Rizzoli. Un libro in cui racconta la scuola dal punto di vista (autoironico) di una prof di lettere in un istituto professionale.

Quando entra in aula per la prima volta, Valentina è “Quella Nuova” e ha davanti ventotto futuri meccanici: c’è uno che si rifiuta di togliere gli auricolari e un altro che messaggia con la tipa; c’è Amebo che fissa il vuoto con aria indifferente; Piallato steso sul banco per nascondersi; il Trucido che ingurgita un panino al tonno. Siamo a settembre, ma l’anno scolastico sembra già lunghissimo. Eppure i giorni passano: passano sempre. E, tra petardi esplosi in cortile e turbolente gite all’Expo, capitano momenti di inaspettata meraviglia, in cui gli studenti abbassano la guardia e scelgono di fidarsi. Sono i momenti raccontati in questo libro, che ci riporta tra i banchi con lo sguardo amorevole e ironico di una prof. E ci ricorda che i ragazzi, se tendi loro la mano, sanno stupirti come nessun altro.

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