Su ilLibraio.it un capitolo da “Nove vite e dieci blues”, autobiografia di Mauro Pagani, in cui il polistrumentista, compositore, produttore e co-fondatore della PFM parla, tra le altre cose, del sodalizio artistico con Fabrizio De André

Nove vite e dieci blues (Bompiani) è il titolo dell’autobiografia di Mauro Pagani, polistrumentista, compositore e produttore, che nel 1970 ha fondato insieme a quattro amici la Premiata Forneria Marconi (PFM), con cui ha lavorato fino al 1977.

Pagani è molto noto anche per la carriera solista e per le collaborazioni in veste di autore, con artisti del calibro di Roberto Vecchioni, Francesco Guccini, Vasco, Luciano Ligabue e molti altri.

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Il suo più grande sodalizio artistico è però stato quello con Fabrizio De André, che nella sua autobiografia inevitabilmente trova un posto speciale. Con l’artista genovese Pagani ha infatti stretto un’amicizia profonda e una collaborazione artistica durata ben quattordici anni.

Alla loro unione dobbiamo Creuza de mä, album di culto interamente cantato in dialetto genovese, e Le nuvoleil cui titolo rimanda all’omonima commedia di Aristofane, di cui riprende il tema centrale dei “cattivi consiglieri”.

Nel volume di Pagani si ritrovano allora tutte queste esperienze, che lo hanno fatto maturare artisticamente, dall’infanzia e l’adolescenza a Chiari, la folgorazione per il rock e il blues, gli artisti con cui ha collaborato e nel 1998 la fondazione delle Officine Meccaniche, studio di registrazione, etichetta discografica e laboratorio di ricerca tecnica e artistica.

Su ilLibriao.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto, dedicato proprio alla collaborazione con De André:

(…) In quei giorni avevo cominciato a frequentare con una certa assiduità Fabrizio De André, che stava registrando nello studio di fronte al nostro l’album che tutti poi avrebbero chiamato L’indiano, e che come noi dormiva in una delle stanze che lo studio metteva a disposizione degli artisti. A una cert’ora del pomeriggio, per lui prima mattina, brontolando e sciabattando compariva davanti a un vassoio della colazione e a un pacco di quotidiani che cominciava a sfogliare distrattamente. Con l’intenzione di rileggerli per bene, articolo per articolo, più tardi, a letto, a notte fonda. Probabilmente anche per lui quelli erano giorni scomodi. Non amava gli studi di registrazione, si sentiva osservato troppo da vicino, ascoltato, giudicato. Lui che portava ancora addosso i segni del rapimento che da fine agosto a poco prima di Natale del 1979 l’aveva costretto incatenato a un albero, insieme alla compagna Dori Ghezzi, vedendo solo gente incappucciata che una volta al giorno gli portava cibo, acqua e una bottiglia di Brandy SIS Cavallino Rosso come palliativo. Fabrizio descriveva i suoi rapitori come gente comune, ruvida e di poche parole, persino rispettosa, che mai si permise il minimo sgarbo nei confronti suoi o di Dori. Pastori figli di pastori, abituati sin dall’infanzia a obbedire alle regole ferree di un’organizzazione feudale vecchia di secoli, sfruttati per quattro lire da mandanti senza scrupoli. Ligi e obbedienti, erano esecutori materiali, compagni di sventura con i quali Fabrizio era riuscito a stabilire un rapporto quasi di complicità, come se tutti, sotto quella quercia, fossero vittime di uno stesso, ingiusto sistema. Con loro parlava un po’ di tutto, di dubbi esistenziali, del Partito sardo d’azione, di Gigi Riva “Rombo di tuono”. Persino di musica. “Fabrizio, non si offenda, sappiamo che lei è un bravo poeta e la rispettiamo, ma noi preferiamo Guccini!” Insomma, quella era gente franca e a suo modo onesta, contro la quale, a differenza che con i mandanti, Fabrizio e Dori una volta liberati avevano deciso di non costituirsi parte civile.

Il tempo a Carimate passava lieve, tra cappuccini (la seconda bevanda preferita di Fabrizio), cicchetti e chiacchiere: migliaia di parole, su qualsiasi argomento. Si trattasse di storia, di letteratura o di un articolo di fondo. Diventammo amici così, leggendo e guardando insieme telegiornali, film e documentari. Parlare con un amico colto e intelligente rende la vita più bella, più interessante: si capisce meglio cosa ci sta intorno e si intuisce cosa arriverà. Faber aveva da poco vissuto una fase intensa e importante del suo cammino di cantautore, che era coincisa con la feconda collaborazione con i miei ex compagni di viaggio della PFM. Una parte del suo repertorio era stata completamente trasformata, i brani apparivano più diretti, comunicativi, emanavano un’energia elettrizzante. Negli arrangiamenti erano comparse chitarre, mandole e mandolini, flauti, armoniche e molto altro. Fabrizio mi chiese se avessi voglia di andare in tour con lui. Ho sempre pensato che avesse deciso di assumermi perché da solo suonavo parecchi di quegli strumenti e da bravo genovese voleva risparmiare. Ritrovarmi di nuovo immerso nel mondo della pfm fu, devo ammettere, abbastanza straniante. Cominciarono così un sodalizio artistico che sarebbe durato quattordici anni e un’amicizia profonda che non è mai finita. La collaborazione con Faber mi consentì di realizzare lavori che nessun altro artista italiano in quegli anni avrebbe avuto il coraggio di realizzare e soprattutto di difendere, come fece lui.

(continua in libreria…)

© 2022 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani

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