Quando si smette di essere figli? Se lo chiede Irene Salvatori, traduttrice di opere letterarie dal polacco e dal tedesco, nel suo libro d’esordio “Non è vero che non siamo stati felici”: una lettera alla madre, scritta da una donna che diventa mamma a propria volta e vorrebbe capire come si fa… – Su ilLibraio.it un estratto

Quando si smette di essere figli? Si potrebbe pensare nel momento in cui si diventa genitori, eppure mai come in quel periodo si ha bisogno della mamma: per sapere come si fa a diventarlo a propria volta, o forse più semplicemente per non sentirsi troppo soli. A volte però, la figura di una madre viene a mancare prima che possa accompagnare i figli nel loro compito da genitore.

Irene Salvatori, traduttrice dal polacco e dal tedesco, è in libreria per Bollati Boringhieri con il suo libro d’esordio, Non è vero che non siamo stati felici: una lettera alla madre, scritta da una donna che diventa mamma a propria volta e vorrebbe capire come si fa.

Non è vero che non siamo stati felici

 

Versilia, Cracovia, Berlino. Tre luoghi in cui, tra gli anni ’80 e i ’90, viene ambientato Non è vero che non siamo stati felici: il racconto di un piccolo circo che si sposta per l’Europa, messo in piedi dalla protagonista. Parte integrante dello spettacolo sono due animali, dei bracchi ungheresi, e tre bambini chiamati Caravaggio, Gauguin e Scoiattola, che ogni sera improvvisano un nuovo show. Alla protagonista tocca invece scegliere il luogo, montare il tendone e, soprattutto, fare il numero di magia più spericolato: convincere i bimbi che il mondo sia un bel posto, a dispetto della nostalgia che le tormenta il cuore.

Ma solo Heimat, come dicono i tedeschi, è il posto da cui si proviene e a cui si apparterrà per sempre: non importa essere in un altro stato o parlare un’altra lingua, la piccola comunità di questo romanzo lo ha messo come nord della bussola. Non è un Paese, non è una cittadina, Heimat è la mamma: non c’è altra provenienza originaria, e dunque non c’è altra possibile destinazione.

Il romanzo di Salvatori è una lunga lettera – scritta dalla protagonista – a una madre mai morta. Perché, si potrebbe dire, una mamma non muore mai.

 Irene Salvatori credit Filip Warwic

Irene Salvatori nella foto di Filip Warwic

Nata a Forte dei Marmi (LU) nel 1978, l’autrice è anch’essa madre di tre figli – e di due cani ungheresi – con i quali si è trasferita in un paesino della Loira per poter far apprendere a tutti la lingua francese. Salvatori parla di luoghi – Versilia, Cracovia e Berlino – che ben conosce e dove ha vissuto e studiato, dopo essersi laureata a Pisa in Storia Contemporanea.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

ci sono un paio di cose nuove che devi sapere di me. Una è che quando sono sola siamo in tre. Giuro. Perché ci sono io, ma poi dentro la testa ho due voci gemelle che non si chetano mai. Le chiamo Mimì e Midori, come quel cartone sulla pallavolo che mi piaceva tanto da bimba. Mimì è la parte razionale, equilibrata, quella noiosa che segue le ricette, mette a posto, mangia sano e cerca di andare avanti senza inciampare. Midori invece è la parte emotiva. Salta, grida, ogni tanto alza il volume dello stereo e quando non si capisce più nulla fa i trabocchetti alla gemella, che finisce a gambe all’aria e io con lei. Anche se sono sola spesso sento il loro casino, di solito litigano. Sono rimaste con me quando per dovere d’ordine mi sono aperta come un armadio, ho spalancato le ante, ho aperto i cassetti e con Nemo abbiamo controllato i calzini, la biancheria, il cambio stagioni. Abbiamo anche parlato di come si carica una lavatrice, di come si stende, che lui certe cose non le sapeva, io le ho imparate da te e te le avevi imparate dalle donne di servizio della pensione della nonna, quando dopo sposata andasti a chiedere Come le infilo le lenzuola dentro la lavatrice? E gli asciugamani? Come li piego? Chissà come si guardavano davanti alle tue domande. Il tuo femminismo, eri laureata, avevi sposato il nipote della signora Bianca, la proprietaria della pensione, eri incinta e sembravi una principessa svedese con gli zoccoli, che non è proprio il quadro di una che si lava e si stira le lenzuola, infatti nemmeno sapevi come si facesse, ma la tua teoria era che il femminismo coincidesse con l’autonomia e quindi si cominciava coi lavori di casa. Per questo mi hai poi educato a lavare e a stendere che ancora oggi quando piego una maglietta sembra nuova e quando lo facevamo insieme sembravamo una cellula del pulito proletario, ci mancava di cantare l’Internazionale. Dopo aver richiuso quell’armadio Mimì e Midori erano rimaste fuori e ormai avevano preso voce. Chissà, forse un giorno spariranno e mi lasceranno in silenzio, per adesso per lo più litigano. Si battibeccano, qua e là si prendono per i capelli e allora devo fermarmi e aspettare che si calmino. Stai tranquilla, mi dico. La seconda cosa è che ho tre figlioli. Tre mamma, sì. Ma i bimbi te li racconto piano piano, perché il passaggio in cui sei sparita e io mi sono sostituita al tuo ruolo di mamma mi ha sparato dentro un grande castello sospeso per aria, nel vuoto, una specie di incubo in caduta libera e sono riuscita ad abitarlo solo poco fa, quando ho capito come sbozzare, ancorare e trasformarlo in una casa, in una normale casetta col giardino, il frigorifero e il contatore della luce in cantina. Che a volte mi tuffo nell’enorme, ma per funzionare devo ridurre le proporzioni. Ci sono stati piani interi che per anni hanno fischiato della parola Mamma, sentirla mi mandava in apnea e se ci penso sento ancora il vuoto che bussa minaccioso ai vetri, non perdo il fiato, ma il silenzio di quella sospensione mi ricorda la paura. È proprio la parola, sai. Quando ho smesso di pronunciarla ho cominciato a sentirla dire. Sarebbe bastato non dirla per non invocare quel male, l’avrei forse incontrata per la strada, camminando avrei potuto sentire qualcuno che chiamava Mamma! ma sarebbe bastato correre via. Invece ho cominciato a sentirmela dire, non ero più io che chiamavo te, ma qualcuno con una voce nuova la usava per me. Chiamava me e io dovevo rispondere. Non scappare, non correre via. La prima festa della mamma nel momento in cui mi hanno dato un regalo chiamandomi Mamma mi sono smontata e sono venuta giù come una torre dei lego. Era la parola che mi si bloccava in gola, come quando ti fai male e dici Mamma-mamma-mamma. Ma il mio era un campanello spento, mi sgolavo eppure suonava muto. Io suonavo, suonavo, ma a chi lo dicevo che non c’eri più. Come andare a fare la spesa di notte, ma neanche, perché di notte puoi sempre sederti e aspettare che venga giorno, nel caso mio quel giorno era il giorno che non arrivava mai. Però ho trovato queste tue agende e averle in mano è un po’ come toccarti.

(continua in libreria…)

Prima edizione settembre 2019 © 2019 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol

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