Arriva in Italia “Il mio anno di riposo e oblio” di Ottessa Moshfegh, uno dei romanzi più acclamati dalla critica estera, in cui la giovane protagonista decide di rigenerarsi da una vita di disagi “ibernandosi” in un anno di sonno perpetuo – L’approfondimento

Il mio anno di riposo e oblio (Feltrinelli, traduzione di Gioia Guerzoni), secondo romanzo dell’autrice americana Ottessa Moshfegh (foto di Kristal Griffiths, ndr), arriva nelle librerie italiane sulla scia del successo di critica e pubblico all’estero. “Miglior libro dell’anno” per Entertainment Weekly, il titolo accattivante e ben studiato apre uno scenario di aspettative mantenute dalle pagine successive: l’intero romanzo si struttura infatti come cronaca in prima persona dei lunghi mesi che la protagonista – giovane, bella e ricca ex gallerista dell’Upper East Side di Manhattan – decide di trascorrere seguendo un programma ben dettagliato di sonno perenne, complici dosi da cavallo di ansiolitici, tranquillanti e narcotici di vario genere.

Ottessa Moshfegh

L’obiettivo? Portare a termine un vero e proprio percorso di rigenerazione interiore e biologica, facendo tabula rasa di un passato tragico e aprendosi al futuro:

Finalmente stavo facendo qualcosa che aveva davvero senso. Dormire mi sembrava produttivo, come se qualcosa venisse risolto. Sapevo in fondo al cuore – e questa era forse l’unica cosa che sapevo in quel periodo – che se fossi riuscita a dormire abbastanza sarei stata bene. Mi sarei sentita rinata, nuova. Avrei potuto diventare un’altra persona, ogni cellula rigenerata tante volte così che quelle vecchie sarebbero state solo memorie sfocate, distanti. La mia vita passata sarebbe stata solo un sogno, e avrei potuto ricominciare senza rimpianti, rafforzata dalla beatitudine e dalla serenità accumulata nel mio anno di riposo e oblio.

In questa narrazione fluida e scorrevole, scandita da ingestioni di Ambien, Nembutal, Ativan e Xanax, si inseriscono altri personaggi indesiderati e ai limiti del grottesco, che in qualche modo interferiscono con la routine sonnambulica della protagonista: la dottoressa Tuttle, psichiatra sconsiderata con ambizioni da sciamana, la cui incompetenza giustifica la facilità nel procurarsi quantità industriali di farmaci dai noti effetti collaterali (che tuttavia, nonostante il prolungato abuso, sembrano non affliggere in nessuna forma la giovane donna); Trevor, un ex fidanzato con la maturità sessuale di un pre-adolescente, attratto da relazioni fallimentari con donne più grandi; e soprattutto Reva, “migliore amica” logorroica e ossessiva e particolarmente mal tollerata. Quella con la ex compagna di scuola sembra configurarsi come l’unica relazione umana definibile come tale rimasta alla protagonista, che si sente in connessione con il mondo solo attraverso la spazzatura (“I miei rifiuti mescolati ai rifiuti degli altri. Le cose che avevo toccato toccavano cose che altra gente aveva toccato. Contribuivo. Ero connessa”).

Non è un caso che, malgrado il categorico rifiuto iniziale, in uno dei suoi blackout da Infermiterol si ritrovi su un treno diretto verso il funerale della madre di Reva. Un’occasione che inevitabilmente risveglia i fantasmi del passato: capiamo che alla base del desiderio di oblio c’è il trauma profondo di un’infanzia segnata dal matrimonio fallimentare dei genitori, dalla morte del padre devastato dal cancro, e dalla tragedia etilica di una madre anaffettiva scomparsa poche settimane dopo. Ma soprattutto, al di là dell’oggettività dei fatti, il più grande di tutti i lutti: l’assenza del lutto.

Volevo conservare la casa come una lettera d’amore. Era la prova che non ero sempre stata sola al mondo. Ma mi stavo anche aggrappando alla perdita, al vuoto della casa, come per confermare a me stessa che era meglio essere soli che intrappolati con persone che avrebbero dovuto amarti ma non potevano farlo.

Il rapporto disfunzionale con il mondo, con il sesso, con le relazioni umane e con i farmaci scaturisce proprio dall’essere cresciuta in un contesto privo di amore, in cui il desiderio di provare sentimenti non può che condurre all’implosione.

Le oltre duecento pagine di diario egoriferito di una narcolettica volontaria scorrono rapide grazie alla capacità di Mensfegh di intervallare alla monotonia farmacologica i toni dolenti della complessa elaborazione del dolore e della costruzione di una personalità, le scene spezzettate, ma note al pubblico, di grandi classici del cinema anni ’80 su cui troneggia la figura di Whoopi Goldberg, e non per ultimi gli accenti satirici e parodistici che caratterizzano il ritratto dell’alta società newyorkese degli anni 2000, fatta di apparenze e velleità artistiche prive di qualsiasi sostanza. Una società alla quale la “privilegiata” protagonista appartiene consapevolmente, tanto da mercificare in qualche modo – un po’ per utilitarismo e un po’ per semplice bisogno di attenzioni – il suo esperimento di rigenerazione.

L’anno soporifero giunge infine al compimento. L’epifania arriva in un pomeriggio al Met, si traduce nella vendita della casa dei genitori e sembra lasciare la sensazione sperata di calma e morbidezza. Con questi elementi in mano, Ottessa Moshfegh cede a noi lettori l’interpretazione di un epilogo inatteso, che si apre alla tragedia dell’11 settembre incrociando un’ultima volta sfera sociale e privata.

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