Non sono pochi i nemici di Ascanio Restelli, ma Viola Ornaghi, inviata a intervistarlo, non si aspettava certo di ritrovarlo morto… “L’inganno dell’ippocastano” è il primo romanzo di Mariano Sabatini, un noir ambientato in una Roma tentacolare, dove imprenditoria, malavita, informazione e politica convivono – Su ilLibraio.it un capitolo

Non sono pochi i nemici di Ascanio Restelli: imprenditore di successo a un passo dalla candidatura a sindaco di Roma. Ma Viola Ornaghi, inviata a intervistarlo, non si aspettava certo di ritrovarlo morto, con la gola tagliata e due buchi al posto degli occhi. La giornalista perde la testa, non sa a chi chiedere aiuto. L’ultimo numero che ha chiamato è quello del suo collega Leo Malinverno… senza pensare, preme il tasto per richiamarlo.

Scaltro e ironico, famoso per le sue inchieste scomode, Malinverno è forse la persona più adatta per proteggere Viola, coinvolta suo malgrado nell’effetto domino messo in moto dall’uccisione dell’imprenditore. Il giornalista affianca la polizia in un’indagine che rivela una trama criminale sempre più sfaccettata, in cui i testimoni si trasformano in protagonisti e gli innocenti, come spesso accade, pagano per i colpevoli…

 

 

Mariano Sabatini, nato a Roma nel 1971, è giornalista e scrittore. Dagli anni Novanta ha lavorato per quotidiani, periodici e web, curando rubriche e scrivendo pezzi di attualità, cultura e spettacoli. È stato autore per TMC e per la Rai (Tappeto volante, Parola mia, Uno Mattina) e poi critico televisivo. Ha ideato e condotto rubriche su radio nazionali e locali, e come commentatore è  presente sui grandi network. Ha scritto diversi libri, tra i quali Trucchi d’autore, Ci metto la firma, È la Tv, bellezza!, L’Italia s’è mesta.

L’inganno dell’ippocastano (Salani), il suo primo romanzo, è un un noir ambientato in una Roma tentacolare, dove imprenditoria, malavita, informazione e politica convivono non sempre pacificamente, e dove nessuno può mai considerarsi veramente al sicuro.

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4

Il cancello era aperto e Viola Ornaghi aveva percorso il viale alberato, fino a pochi metri dalla casa di Ascanio Restelli. Una costruzione senza fronzoli architettonici né pretenziosità classicheggianti,

tipo casale rurale.

Tutto sommato, valutò, erano accettabili soli cinque minuti di ritardo sull’orario dell’appuntamento.

Prima di avanzare verso il portone d’ingresso, si guardò attorno.

Da quello che sembrava un magazzino degli attrezzi emerse, spingendo una carriola colma di terriccio, un uomo dall’aspetto solido, del tutto calvo e con la pelle del viso segnata da rughe profonde.

« Buongiorno » disse Viola, pronta a spiegare perché fosse lì.

« Salve » la precedette quell’altro, continuando ad avanzare nella direzione prefissata, verso le aiuole e il roseto. « Lei dev’esse’ la giornalista. M’avevano avvertito. Vada pure. Giri lì, e bussi alla porta sul retro ».

« Grazie ».

« Ci dovrebbe già esse’ Elide, che la porterà dar commendatore ». E ormai di spalle: « Stia tranquilla, che i cani so’ chiusi ».

Viola registrò il dato, con un brivido retroattivo: se quel tizio si era preso la briga di rassicurarla voleva dire che i cani liberi sarebbero stati un problema.

Si concesse qualche altro istante di decompressione.

Guardò le finestre del secondo e terzo piano su cui il pallido sole di quel mattino ghiacciato, che non avrebbe dimenticato per il resto della vita, si rifletteva con scarso impegno. I rami spogli del glicine, arrampicato su gran parte della facciata e intrecciato alle grate dei balconi, sembravano sorreggere l’intero edificio.

Davanti alla porta che il tipo le aveva indicato si sfilò i guanti e usò il vetro oltre la grata come specchio per sistemarsi i capelli arruffati dal casco. Per quanto la forza utilizzata fosse contenuta, quando bussò, le nocche avvertirono la minore resistenza del battente che si aprì di due o tre centimetri.

«E` permesso? La porta e` aperta… »

Viola si sporse oltre la soglia, ma non fece neanche un passo sul breve corridoio di servizio, a giudicare da ciò che vedeva: casse di acqua minerale e vino, ceste accatastate, scatoloni di generi alimentari e detersivi, scope e spazzoloni poggiati in un angolo.

Le conveniva, forse, tornare a chiamare il tipo della carriola.

« Entri pure, signora… » la fece sobbalzare quello, passando di fretta, neanche sfiorato dall’idea di fermarsi. Talento indiscusso per le entrate in scena a effetto.

« È sicuro? Qui non c’e` nessuno ».

« Elide sarà de sopra. Vada. Vada pure ».

L’uomo si accovacciò vicino a un cassone di marmo e prese a spostare dei vasi, cercando di valutare quale coccio facesse al suo caso.

« Scusi, non potrebbe accompagnarmi lei » tentò di rilanciare Viola. « Io non conosco la casa ».

Il tipo scosse la testa. « C’ho da fare, non vede? Entri e dia una voce, so che il commendatore l’aspetta ».

Comunicazione chiusa, nessuna possibilità di replica.

« È permesso, sono Viola Ornaghi, ho appuntamento con il dottor Restelli… » ci riprovò, alzando il tono della voce.

Nessuna risposta. Avanzò fino alla prima porta aperta, nell’andito buio.

Era una cucina molto attrezzata, ogni cosa al suo posto, con un grande tavolo al centro su cui era sistemato un vaso ricolmo di fresie viola e gialle. Gli scuri socchiusi tenevano l’ambiente in penombra. Proseguì fino all’altra porta, evitando la piccola che intuitivamente doveva condurre a un bagno o a un ripostiglio.

Bussò invano, allora si risolse ad abbassare la maniglia. Sebbene l’atrio che introduceva alle stanze padronali prendesse luce dalle due alte vetrate a contrasto, le lampade erano tutte accese. Da qualche parte proveniva la musica dell’ouverture del Guglielmo Tell.

Di nuovo pronunciò il suo nome e chiese il permesso di andare oltre. Si chiese se fosse il volume piuttosto alto a impedire a Restelli di sentire i richiami… e chissà dov’era la governante, accidenti a lei.

Legno alle pareti, tappeti persiani, mobili francesi.

Due le ipotesi: Restelli era un esteta o lo era la sua arredatrice. Oppure, perché no, aveva una fidanzata che leggeva le riviste giuste. Doveva chiederglielo nell’intervista. Anche i quadri, di assoluto pregio, le sembravano scelti, appesi e illuminati con cura: ognuno nel posto che meritava e che occupava con il massimo risalto. Tanto che non lo avresti immaginato altrove.

Niente di quell’ambiente soddisfaceva del tutto il suo gusto, ma non avrebbe potuto dire o scrivere nell’articolo che fosse esagerato o, peggio, pacchiano.

I virtuosismi di Rossini la spinsero a ignorare la scala di travertino che portava di sopra e ad avanzare nel corridoio alla sua sinistra. Dopo non molti passi incontrò un gigantesco salotto a cui si accedeva passando da un arco. Divani, poltrone, tavolini e piante che raggiungevano il soffitto suggerivano l’immagine di un’imponente convivialità, di cui però non v’era traccia. Non un giornale, un gioco da tavolo, un bicchiere o un capo d’abbigliamento che testimoniassero transiti umani.

Il tavolo da venti posti, circondato da sedie habillées, occupava quasi tutta la sala da pranzo, che si poteva isolare con pannelli scorrevoli.

Le porte sulla destra del corridoio erano tutte serrate. Viola distolse lo sguardo irritata: non poteva certo ispezionare l’intera abitazione.

Un attimo prima che varcasse la soglia della stanza da cui la musica si generava, il Guglielmo Tell arrivò a uno dei suoi passaggi più intensi.

Le si parò innanzi uno studio con librerie che sembravano finte tanto erano ordinate, la scrivania larga e lunga come un bigliardo era del tutto sgombra se si escludevano i due apparecchi telefonici, i portapenne e qualche cornice in argento.

La poltrona girevole, da cui spuntavano i gomiti di chi vi era seduto, era orientata verso la finestra. Dalle scarpe e dai pantaloni scuri con risvolto, Viola capıì che si trattava di un uomo. Restelli, finalmente.

A quel punto pensò che fosse una buona idea tornare ad annunciarsi.

« Buongiorno, commendatore. Sono qui per l’intervista, ho bussato… »

Quello non si mosse, Viola provò a battere le nocche sul vetro colorato della porta. Niente. Che dormisse? A ottant’anni o giù di lì una botta di sonno, magari dopo una nottata insonne, si poteva mettere in preventivo.

Giusto ‘colore’ per il pezzo, se lo annotò mentalmente. Si volse verso il corridoio vuoto da cui era venuta, non arrivava nessuno.

Decise di fare l’ultimo tentativo. Una piccola scossa o, se fosse servito, uno scrollone al vecchio. Sarebbe ricorsa a tutto pur di portare a casa il pezzo, come si dice tra giornalisti quando l’impresa appare complicata. Mosse verso la scrivania su cui arrivava la luce screziata dalle foglie dell’enorme ficus benjamina, passò sul lato lungo e non si rese conto di ciò che l’attendeva finché non ebbe davanti a sé il vecchio.

Non chiese aiuto, non svenne. E neppure ebbe modo di stupirsene in quel frangente, perché la assalì fino a sopraffarla un tumulto di emozioni, pensieri fugaci, timori, fitte dolorose. Per definirli nel loro insieme, la parola terrore vi si avvicinava soltanto per approssimazione. Rimase con la mano sulle labbra aperte, a guardare lo scempio che qualcuno aveva compiuto su quel corpo.

Abbassando lo sguardo, all’improvviso sfinita, si rese conto che il rosso che infiammava il tappeto dello studio non era pigmento vegetale steso da artigiani. Gran parte o tutto il sangue delle vene dell’uomo che per tanto tempo aveva tenuto nella sua morsa Roma, e non solo Roma, intrideva il Tabriz, chiaro in origine, a disegni floreali. Come pure la sua camicia bianca.

(continua in libreria…)

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