Vent’anni dopo “Il dio del fiume”, il romanzo che lo ha consacrato, Wilbur Smith torna all’antico Egitto con “Il dio del deserto”

Vi proponiamo 6 brevi estratti dal nuovo romanzo: per entrare nelle atmosfere de “Il dio del deserto” (Longanesi) e per scoprire il lato “tenero” di Wilbur Smith

 

  1. Sin dalla più tenera età so di essere un beniamino degli dei, in particolare del grande dio Horus al quale rivolgo le mie preghiere. In caso contrario, come avrei potuto essere dotato sin dalla nascita di un così gran numero di talenti e virtù? Come sarei riuscito a sopravvivere a così tanti pericoli terribili e rischi mortali che avrebbero sicuramente annientato qualsiasi creatura inferiore a me? Come avrei potuto rimanere così giovane e bello e conservare una mente così acuta quando tutti intorno a me avvizziscono, ingrigiscono e sbiadiscono con l’età? In me c’è qualcosa che mi ha permesso di distinguermi dalla maggior parte degli uomini mortali.
  2. Mi fecero tenerezza. Il loro amore che sbocciava era un magnifico spettacolo. Sapevo meglio di chiunque altro che presto sarebbe stato annientato dall’inesorabile dovere.
  3. Davanti a noi svettava un’alta parete di roccia striata. Gli strati orizzontali sfoggiavano colori contrastanti ma vividi, che andavano dal miele e dal bianco gesso a varie sfumature di rosso, azzurro e nero. Alcuni dei più morbidi erano stati erosi dal vento molto più a fondo di quelli soprastanti e sottostanti così da formare gallerie aggettanti e profonde caverne allungate, dando quasi l’impressione di essere state progettate da un architetto impazzito.
  4. Apri i miei occhi, o Horus. Concedimi di vedere. Mio dolce dio, concedimi di vedere! Serrai gli occhi con forza per dieci battiti del mio cuore, e quando li riaprii la mia visione aveva assunto una particolare lucentezza. Il grande dio Horus mi aveva sentito. Stavo vedendo la realtà con il mio occhio interiore. Intorno a me i colori erano più vividi, le forme più distinte e dai contorni più netti
  5. Rimasi senza parole per lo stupore. Mi resi subito conto che le descrizioni di Babilonia da me liquidate come sfrenatamente esagerate denotavano invece una moderazione incline a minimizzare. La mia amata Tebe, l’incantevole metropoli dalle cento porte, era un umile villaggio in confronto alla città scintillante che si estendeva su entrambe le rive del fiume. Riconobbi molti dei monumenti grazie ai disegni e agli schizzi da me visti in precedenza, ma le raffigurazioni di quelle stupende opere su un rotolo di papiro erano inefficaci quanto il tentativo di descrivere il grande Mediterraneo esibendo un secchio di acqua salata.
  6. Mentre i vogatori ci portavano accanto all’approdo approfittai dell’occasione per studiare i nobili babilonesi in attesa di darci il benvenuto. Vidi subito che le donne, persino quelle anziane, erano più belle e avvenenti degli uomini, come succede in ogni nazione a me nota. La loro pelle fulva aveva una lucentezza perfetta. Avevano tutte capelli neri come la mezzanotte e occhi a mandorla magistralmente pittati. Tutte, persino le più giovani, sfoggiavano una dignità innata. Gli uomini erano quasi tutti alti, con lineamenti fieri e severi. Avevano un naso prominente e aquilino, e zigomi alti. I capelli, scuri e lunghi fino alle spalle, erano arricciati in stretti boccoli. La barba dalle onde scolpite arrivava alla cintola. Sia gli uomini sia le donne portavano una tunica di lana lunga fino alle caviglie dal disegno elaborato. Era impossibile non accorgersi che si trattava di un popolo nobile, fiero e straordinario

 

(continua in libreria…)

Fotografia header: Wilbur Smith

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