Tea Ranno torna in libreria con Sentimi, dedicato al tema della violenza sulle donne. Su ilLibraio.it il racconto “Femmina”

Tea Ranno, siracusana trapiantata a Roma, torna in libreria con un libro molto particolare, dal tema forte e tristemente attuale: la violenza sulle donne. Sentimi. Cento voci e una storia (Frassinelli) è un testo in cui le donne si raccontano e raccontano la violenza subita dagli uomini, perché la memoria è l’unica forma di riscatto.

Una scrittrice, tornata al suo paese d’origine, torna nella piazza dove passeggiava da bambina e ascolta decine di voci, venute da chissà dove. Sono voci di donne morte, che hanno un bisogno viscerale di raccontare cosa sia loro successo, pretendono di uscire dall’oblio al quale sono destinate: sono state violentate, picchiate, uccise, umiliate, annichilite dagli uomini.

Storie dolorose, tragiche, caratterizzate da protagoniste umanissime, complesse, stanche di essere additate nella dicotomia maschilista del “santa o puttana”, ma, soprattutto, desiderose di far sapere al mondo un’altra storia, che tutte le coinvolge: la storia di Adele.

Adele, figlia di Rosa, ma non del suo legittimo marito, Rosario. Adele si porta dietro una prova evidente del tradimento della madre, i suoi capelli rossi. Per questo Rosario passerà la sua vita a cercare di uccidere la bambina. E le donne del paese, le stesse donne che si raccontano, faranno tutto ciò che possono per salvarla, per evitare che un’innocente – almeno lei – sfugga dalle grinfie di maschi malati, brutali, animaleschi e schifosi. Magari, in un certo senso, verranno salvate anche loro.

Ranno ha pubblicato per e/o i romanzi Cenere e In una lingua che non so più dire. Per Mondadori sono usciti La sposa vermiglia e Viola Fòscari.

RANNO Sentimi

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un racconto legato al romanzo:

“Femmina”

“Sèntimi, signora che scrivi la vita e la morte di quelli che ti vengono a parlare, Ottavia sono. Ebbi sette fratelli prima di me, e dopo di me nessuno più. Mia madre, infatti, si dovette piegare al capriccio di mio padre che voleva a tutti i costi una figlia femmina, lo dovette accontentare anche se a ogni parto si spaccava, si rompeva, e gridando e smaniando pregava: “Basta, per carità, basta”. Lui rideva a ogni grido, come se ognuno di essi gli ricordasse il piacere che aveva provato nel ficcarle dentro quel figlio, e sempre s’aspettava la voce della levatrice che gli diceva: “Femmina è”. Invece, puntuale per sette volte: “Un altro gran masculazzu vi fece vostra moglie, don Attilio”. Lui stringeva i denti, stringeva i pugni e si preparava al nuovo assalto che avrebbe dovuto dargli la femmina. Per quanto, infatti, lei si negasse, per quanto supplicasse una tregua, niente: se la pigliava ancora col sangue in mezzo alle cosce e il petto pieno di latte, se la pigliava con furia e con furia la possedeva. Continuò a possederla con l’implacabilità di un boia fino a quando, finalmente, lei mi partorì e, partorendomi, s’inghiottì il respiro e se ne volò in quell’altro mondo che non aveva mariti a tormento.

Mi crebbero mio padre e sette fratelli. Fui la principessa della casa. Un carcere di otto uomini sbarrava continuamente ogni mio passo verso quel qualcosa che si chiama libertà. E ogni volta che domandavo di lei, ogni volta che ne volevo sapere il viso, le mani, l’odore della pelle, la lunghezza dei capelli, subito mi zittivano: “Morì, la mamma. E basta”.

Io calavo la testa, mi sentivo bruciare di colpa perché una serpe – che di nome faceva Angelina Sbergio – mi aveva detto: “L’ammazzasti tu a tua madre, nascendo”. Perciò crebbi con questa colpa grande d’essere stata l’assassina di mia madre, e quando ne chiesi conto a mio padre: “Quella pazza è, non ci credere” ringhiò. “Tua mamma ti volle fino all’ultimo respiro suo”, mi disse un giorno che davanti allo specchio mi pettinavo e piangevo. “Che hai?” domandò.

“Erano così i capelli della mamma mia?”

“Ma quando mai!” rise. “Tu hai gli stessi capelli miei, gli stessi occhi miei, la mia stessa corporatura, il mio stesso vizio di parlare poco, la stessa camminata. Tu cosa mia sei”.

Allora cominciai a correggermi: non volevo avere il suo vizio delle poche parole, lo sdegno che lo faceva camminare con la stessa supponenza di un capo mafia. Femmina come mia madre volevo essere, femmina di pelle e di capelli, di voce, d’occhi, di vesti e di desideri, gli stessi che avevo trovato scritti in un foglio di carta ripiegato e infilato dentro una fessura del muro, di cui mai sarei venuta in possesso se non fosse stato per una formica entrata lì. “Questa rifà il formicaio” mi dissi ripensando alla volta in cui trovammo formiche nel pane, nello zucchero, nella boccia del miele, tra i biscotti e persino nel letto, e dovemmo spargere veleno dappertutto per liberarci di quel castigo di Dio. Per farla uscire infilai nella fessura uno stuzzicadenti, ma quello trovò un intoppo, una cosa non troppo dura che cominciai a tirare fino a che non ne comparve un lembo e poi l’intero foglio ripiegato in otto che conteneva le parole di mia madre per un altro che non era mio padre. Matteo, si chiamava. Mia madre diceva di lui come di una spuma di vento che ti respira sulla bocca e sul collo, sulla nuca, sugli ossi della schiena e, soffiando e respirando, t’inturgida le roselline del petto, ti bagna in mezzo alle cosce facendoti tremare di un piacere che ti pare il paradiso. Invece l’altro, quell’altro lì, ti scassa, ti perfora a sangue, ti prende da padrone e se potessi lo ammazzeresti: lui e il nerbo che t’infila dentro, lui e la forza che ci mette nel ribadire che gli appartieni e non gliene importa se hai il mese, se sei stanca, se hai sonno, se non hai voglia, se non vuoi mani addosso a te, né raggia sopra di te: si passa il piacere e ti lascia mezza morta, e però ti devi alzare, preparargli due uova sbattute con zucchero e Marsala, la tazzina di caffè pure che è notte fonda, pure che fuori dalle coperte si ghiaccia, perché il signore deve ricostituirsi, riprendere vigoria e ricominciare daccapo. Certe volte ho pensato di metterci il veleno in quella tazzina, certe volte ho pensato di ficcargli la forbice nella schiena quando mi sbatteva spaccandomi a sangue. Nei sogni più belli mi vedevo vedova, nera di vestito e rossa di contentezza mentre lacrime false mi colavano dagli occhi perché nessuno capisse che la morte di lui mi rifaceva padrona di me. E nella mente cercavo modi sempre nuovi per ammazzarlo, certe volte mi accanivo sopra di lui con la forza di cento buttane, certe altre gli carezzavo la fronte con la pazienza di una monaca e lo stesso però pensavo: “Muori, ma quand’è che muori? Signore Santo, fatelo morire!”. E quando per davvero lo carezzavo, speranzosa di suscitargli un poco di tenerezza, “Finiscila!” diceva scansandomi la mano. Perciò mi diedi a Matteo, perciò gli diedi quello che nessuna donna onesta toglie a suo marito, perciò le volte che andai con lui nella baracca del fiume furono momenti d’estasi, e le mani sue sopra di me mi parvero mani di angelo che passavano dove il diavolo aveva tagliato e sanavano.

Questo trovai scritto nel biglietto, signora. Mi parve cosa indegna: possibile che chi aveva scritto quelle porcate fosse mia madre? Possibile, perché s’era firmata col nome suo: Preziosa. Lo rimisi dentro al muro e me ne scordai. Ci ripensai mesi dopo, un giorno che volevo uscire e mio padre disse che solo le buttane escono alle tre d’un pomeriggio d’agosto. Glielo domandai di nuovo la sera, e mi rispose che solo le buttane escono la sera. Gli domandai il permesso di andare in città, rispose che solo le buttane vanno in città. E allora – fu un lampo – capii la femmina che gli era stata moglie e tornai alla fessura e presi la carta e compresi il suo odio.

Quel giorno mi prese la voglia di cercare Matteo, pure se era vecchio, pure se aveva quattro capelli bianchi in testa e pochi denti in bocca. Volevo provare con lui le stesse cose che aveva provato mia madre. Ma come puoi uscire quando hai otto sbarre di carcere intorno a te? Come fai a dire: “Voglio andare al fiume da sola?”. Non era possibile. Mio padre, tra tutti i cani da guardia, era il più feroce. Un giorno gli sentii dire: “Ottavia mai di nessuno sarà”. Lo disse a mio fratello Saro, il grande. E quando gli chiesi spiegazioni, Saro rispose: “Non ti sposerai mai, Ottavia”.

“E perché?”.

“Per non fare la fine di nostra madre”.

“Che vuol dire?”

“Che nessun figlio ti deve ammazzare, a te”.

Ah! La collera che mi venne fu potente. Non ero stata io ad ammazzare mia madre, ma lui, con quel pungiglione di ferro che l’aveva scafugnata per anni e anni. E poi, chi gli aveva dato il potere di decidere sopra di me? Io lo volevo un uomo, uno che giocasse con le roselline del mio petto, che si facesse vento sulla mia bocca, tra le mie cosce; volevo provare sopra la carne mia lo stesso piacere di cui avevo letto su quella carta. E lui si permetteva di comandare che non fossi mai di nessuno? Mi sarei ammazzata, piuttosto.

Un giorno lo vidi, Matteo. Lo sentii chiamare e mi voltai perché in un paese tutto abitato da Jani, Turi, Peppi, Carmeli e Vicenzi, Matteo era nome forestiero e scognito. Lo vidi e il mio cuore fece un salto: Bello era. E ancora giovane. Ma come può essere?, mi domandai sbigottita. Possibile che mia madre si diede a un ragazzino che aveva  appena preso pelo di uomo? Per forza così doveva essere andata. E allora scoppiai a ridere, allora mi complimentai con quel gran pezzo di femmina che era stata mia madre: se Matteo aveva potuto passare del tempo con lei e farla ballare sopra i letti del piacere, era solo perché mio padre non avrebbe mai potuto concepire che sua moglie si facesse spogliare, aprire e possedere da un ragazzo. Un ragazzo che nel frattempo si era fatto un uomo magnifico. E ancora di più lo desiderai. Cominciai a spiarlo da dietro gli scuri accostati, bellissimo era, bellissimo. E ancora di più mi prese la brama di andare con lui al fiume.

Mio padre, però, non mi perdeva di vista un momento. Nessuno mi perdeva di vista un momento: ogni volta che uscivo avevo dietro il solito strascico di guardiani tanto che la gente stringeva la bocca e diceva: Mischina.

E ragione aveva, mischina ero, anche perché, dopo aver letto quella carta di mia madre, avevo cominciato a non avere pace: mi svegliavo sudata nel letto, mi pareva di avere labbra che mi sfioravano le labbra, mani che mi salivano per le cosce, dita che carezzavano le roselline del petto inturgidendole come quando d’inverno si muore di freddo. Insomma ero tutta piena di un desiderio, di una necessità che non era amore, no, ma fame della carne, fame di ogni pezzo di me che reclamava un uomo gentile capace di placarlo.

Fu così che un giorno uscii. Era passato da poco mezzogiorno, mio fratello Turi mi venne dietro: “Dove vai?” domandò spaventato. Mai era successo, infatti, che uscissi senza domandare il permesso.

“Dal farmacista”.

“Ma a fare che cosa?”

“A comprare una medicina contro i pidocchi” disse con la bocca schifata, “ché voi masculi, che ve la fate con le pecore, portate a casa ogni sorta di animali”.

Mi guardò stravolto. Mai gli avevo parlato così, mai dalla mia bocca erano uscite parole volgari: ero la Principessa della casa che si preparava a diventare la Regina della casa e a morire come l’Imperatrice della casa.

Lo sdegno m’accese la faccia, mi sciolse i capelli che mi calarono per le spalle come un lungo manto nero e ricciuto. Gli uomini seduti nella piazza, a ridosso d’una fascia d’ombra, mi guardarono come se mi vedessero per la prima volta: ero vestita di bianco, un abito che mi scivolava leggero sul corpo e che aderiva al petto, alle cosce e soprattutto alle natiche visto che il vento soffiava da dietro. Quel vestito era di mia madre, come molti degli altri che avevo trovato in fondo a una cassa e che mio padre le aveva sempre proibito di mettersi.

Gli uomini mi puntarono addosso occhi come denti che spolpavano là dove si posavano. Mio fratello ne fu sconvolto: “A casa dobbiamo andare, a casa”.

E io: “Ma il farmacista è qui, a due passi”.

Era la verità: la farmacia di don Alfonso si trovava nella stessa piazza in cui s’affacciava la casa di mio padre. Per raggiungerla mi restava da percorrere una cinquantina di metri. Alta, dritta, i capelli indiavolati per la schiena, il petto né troppo grande né troppo piccolo, le cosce forti, la vita sottile: gli uomini mi rosicavano con gli occhi mentre camminavo svelta e superba verso la farmacia.

Mio fratello mi strattonò per un braccio.

Mi fermai: “Se non la smetti, grido” minacciai. “Dico che stanotte sei entrato nel letto mio”.

Mi guardò confuso, rosso. Fece dietrofront e corse a chiamare mio padre.

Entrai nella bottega, don Alfonso domandò: “Finalmente ti scarcerarono?”. Ma vedendo la mia faccia disperata, ché ogni maschera all’improvviso mi era caduta: “Che ti serve?” dissi.

“Un sonnifero potente”.

Ebbi appena il tempo di mormorarlo che mio padre entrò. Aveva il viso colore del vino, come quando ai miei fratelli prometteva cinghiate.

“Datemi una medicina per i pidocchi” dissi forte.

“Ce l’abbiamo!” mi zittì lui posandomi una zampaccia sopra la spalla.

Don Alfonso gli porse la mano, col sorriso più amabile che seppe stamparsi in bocca disse: “Ma lo sapete che è da tanto che penso di parlarvi?”.

“E a quale proposito?” fece lui spiccicando appena le labbra.

“A proposito di quella cavalla magnifica che vi vedo cavalcare da qualche mese”.

La raggia gli scomparì dalla faccia, ché quella cavalla era la luce degli occhi suoi: “Femmina di fuoco è. Vi piace?” gli disse.

“Mi piace?” fece lui ridendo, “Se non state attento vengo di notte e ve la rubo”.

“Se ci provate v’ammazzo” rispose, pure lui ridendo.

E rise pure un vecchio che era entrato in quel momento per chiedere un purgante, persino il gatto rise, un tigrato che dormiva sulle gambe del farmacista quando quello preparava i suoi rimedi. Risi anche io. Mio padre si scordò la raggia, mi disse con voce di miele: “Ottaviuccia, devi tornare a casa”.

“Ragione ha” fece il farmacista alzando il dito a rimprovero contro di me. “E però” aggiunse tornando a lui con gli occhi: “Permettete, don Attilio? Queste caramelle gliele voglio dare alla picciridda, per farsi la bocca dolce” e mi mise tra le mani un pacchetto.

Lo presi con malagrazia, troppo offesa – così mio padre pensò – per quel picciridda che gli era scappato di bocca. Si scusò per me: “È ’na picciridda ca si voli sentiri fimmina fatta” disse. E di nuovo rise. E rise don Alfonso, rise il gatto e pure il vecchio che aveva bisogno del purgante. Io, superbissima, precisai: “Femmina fatta sono, precisamente, e voi, signor speziale, quando parlate con me, usatemi il rispetto che si deve a una signora!”

“Minchia!” fece il vecchio.

Mio padre lo bruciò con lo sguardo.

Uscii. E intanto, nella mente, cantavo e ballavo. E camminai a passo di ballo davanti agli uomini della piazza, che si ruppero i denti sopra il mio petto, le mie natiche.

Li addormentai tutti e otto col sonnifero che c’era nella busta delle caramelle, signora. Magnifico don Alfonso, ché il Padreterno gli rinnovi vita e contentezza a ogni giorno che passa!

Andai a casa di Matteo, bussai. Riconobbe il vestito, pensò di avere davanti mia madre e gli occhi gli si riempirono di lacrime, disse: “Quanto ti ho aspettato, Preziosa”.

“E io sono venuta” mormorai, “non lo vedi? Qui sono”.

Prese le chiavi, si tirò il portone alle spalle e corremmo ridendo fino alla baracca del fiume, e lì, sopra un letto profumato che pareva aspettarmi, Matteo si fece bocca di vento che carezza, mano di vento che inturgida il petto, sapienza di tocchi che svamparono in me la prescia, il desiderio, il bisogno d’immediata soddisfazione: “Subito” mi trovai a implorare “subito”.

Lui rise, disse: “Devi imparare ad aspettare, gioia mia” e mi toccava piano piano e intanto mi guardava: alla luce della luna parevo fatta di madreperla. “Di sale” lui disse, e cominciò a leccare il sale, le lacrime di sale che mi cadevano dagli occhi per la contentezza, cominciò a parlarmi come parliamo a qualcuno che abbiamo conosciuto in un tempo remotissimo e che non speravamo più di rivedere. Mi toccò, mi carezzò, mi aprì, mi fece patire la delicatezza, la lentezza che accendeva più forte il fuoco, mi fece sbramare di desiderio, mi costrinse a supplicarlo: “Presto!” ché poi avremmo ricominciato. Glielo giuravo, ma lui: “Non avere prescia” ripeteva. E io mi squagliavo come una candela al calore di un fuoco che lambiva e non ustionava, che sfiorava e non bruciava, che giocava con ogni millimetro di pelle facendomi folle di desiderio. E allora lo morsicai. E l’acchiappai per i capelli e gli fui sopra e me lo presi con la furia di una prima volta che sarebbe stata la prima di un’infinita serie di prime volte con lui, che cominciò a ridere. E pure io risi, e ridendo e parlando inframmezzammo le parole ai fiati, intanto che lui tornava a farsi strada dentro la mia carne di burro”.

Si ferma. Riprende fiato. Poi: “Volete sapere come andò a finire?” mi domanda.

Annuisco.

“Andò a finire che io e Matteo scappammo. E fummo marito e moglie. E fummo amanti sempre. E fummo compagni. E fummo complici e fummo il pane e il vino, il giorno e la notte, il sale e il pepe della vita nostra. Partorii due femmine e due maschi. Facemmo insieme ogni cosa. E insieme morimmo. Perché Vita andò da sua sorella Morte e le disse: “Senti, quei due una cosa sola sono, e fammelo per una volta un piacere: arricogghitilli tutti e due”.

E così fu. Morte passò nella stanza dove sono tesi i fili della vita di ognuno e con una forbice tagliò il mio e quello di Matteo: ci prese nel sonno, ci regalò un trapasso senza pena, senza dolore. Ci trovarono addormentati mano nella mano, ci seppellirono una accanto all’altro.

I nostri figli vengono spesso sulla nostra tomba, ci regalano risate raccontandoci la vita anche se siamo nella morte, e noi ridiamo e godiamo con loro, perché tra la vita e la morte, signora mia, c’è solamente un velo”.

(Continua in libreria…)

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