“Il sesso – scriveva Henry Miller in Sexus, uno dei suoi libri peraltro meno felici – è una delle nove ragioni della reincarnazione. Le altre otto sono prive di importanza”. La riflessione di Mario Baudino a partire da “Sesso e Apocalisse a Istanbul” di Giuseppe Conte

“Il sesso – scriveva Henry Miller in Sexus, uno dei suoi libri peraltro meno felici – è una delle nove ragioni della reincarnazione. Le altre otto sono prive di importanza”. Non è soltanto una battuta ironicamente giocosa: è una professione di fede. Per lo scrittore dei Tropici il sesso veniva in fondo prima della letteratura, ovvero come scrisse Anais Nin, la sua compagna di vita spericolata nella Parigi Anni Trenta, “deve essere innaffiato di lacrime, di risate, di parole, di promesse, di scenate, di tutte le spezie della paura, di viaggi all’estero, di facce nuove, di romanzi, di racconti, di sogni, di fantasia, di musica, di danza, di oppio, di vino“. È un valore a sé, e non dovrebbe sembrare troppo irriguardoso confrontare queste parole con quelle che nel Malte Rainer Maria Rilke usa per la poesia, nella notissima pagina dove elenca una lista infinita di esperienze necessarie «per scrivere un verso»: città uomini e cose, il gesto dei fiori che si schiudono al mattino, le nascite e le morti, le notti d’amore, le grida delle partorienti, e insomma tutto, e non solo ricordi, perché quelli vanno dimenticati in attesa che ritornino. Si tratta di esperienze totali, che richiedono una passione e un’ascesi.

Sesso e apocalisse a Istanbul

Giuseppe Conte, che ha appena pubblicato Sesso e Apocalisse a Istanbul, (Giunti) certamente lo sa, ed è forse uno degli ultimi a esserne persuaso, in una letteratura (e in una società) dove il sesso sembra aver perso ogni rivendicazione di libertà e di autenticità, di scandalo e di rivoluzione – nel senso etimologico dell’Antiedipo: la ri-volizione, il ritorno del desiderio – per transitare dall’Impero dei sensi all’Impero del porno, come ci ha persuasivamente raccontato, poniamo, Mario Desiati in Candore (Einaudi). Ma se per lo scrittore romano, o quantomeno per il suo protagonista, “il bene era il popolo della notte e il male i moralisti, la buoncostume” la sua forma specifica di candore è tuttavia nell’amare tutte le donne, vale a dire tutte le immagini del porno, e nel non esserne riamato.

Il personaggio che dice io in Conte – attraverso l’artificio del manoscritto ritrovato – riprende invece il discorso ove l’avevano lasciato Miller o la Nin, o il D. H. Lawrence che rivendicava alla sua opera l’idea secondo cui il sangue e la carne sono più saggi dell’intelletto. Conte è poeta, e queste cose le conosce nell’intimo del suo verso – Rilke compreso. Ma è anche un narratore generoso, in bilico tra un Richard Ford e un Victor Hugo, traduttore fra l’altro di Lawrence, viaggiatore e curioso delle culture orientali, l’Islam sopra tutte. Il suo romanzo non poteva per queste e altre ragioni svolgersi se non a Istanbul, città cruciale e rorida di storia, al confine tra Oriente e Occidente, due anni dopo le repressioni di piazza Taskim, mentre il regime di Erdogan diventa sempre più autoritario e bigotto.

mario desiati candore

Ma tutto o quasi, su questo sfondo minaccioso, si svolge in realtà fra italiani: un libraio genovese che ha dovuto chiudere (è stato il suo 11 settembre, dice significativamente), la sua amante, moglie di un potente politico di sinistra, e un ragazzo sempre genovese che per una serie di traumi esistenziali non solo si è convertito all’Islam ma si è arruolato fra i terroristi. Certo non lo si può liquidare come un cretino, una banale incarnazione del male, e l’autore non lo fa. Quel che mette in scena è infatti lo scontro fra libertà e paranoia, fra la passione dei corpi e il culto superstizioso della morte.

“Voglio fare con te cose talmente pazzesche che non so come dirle”, scriveva a Miller Anais Nin. Lo stesse parole potrebbero usare i due amanti nel loro week end clandestino in un albergo della città sul Corno d’oro, ma per scoprire alla fine che quelle cose “talmente pazzesche” trascendono infine l’atto sessuale. O forse lo sublimano, in un eros dove la vita e la morte cessano di essere inconciliabili. È una proposta letteraria, quella di Conte, molto provocatoria, perché apparentemente, solo apparentemente, inattuale. I romanzi anche italiani hanno quasi tutti, per ragioni culturali o anche solo commerciali, la loro componente di sesso. Ma nei migliori – penso alla Femmina nuda di Elena Stancanelli (La Nave di Teseo) o a Mescolo tutto di Yasmin Incretolli (Tunué) – il sesso è guardato, fantasticato o subito come qualcosa che proviene dall’esterno, non affermazione e tantomeno autoaffermazione ma dedizione a un’idea sacrale anche attraverso una sorta di sacrificio, di autoimmolazione.

Il sacro, in Conte, è invece tutto di provenienza interiore, irradia dall’individuo, non si distingue dall’autoaffermazione, dal desiderio di vivere, finalmente, in tutta la pienezza possibile. La scommessa, al di là della narrazione avvincente quasi come un thriller, che non si nega se pure con parsimonia l’uso di strutture del romanzo di genere, è riaffermare in letteratura un’idea politica in senso alto, ovvero la possibilità per la componente istintiva, emozionale, per l’anima naturale di combattere la disperazione del nostro tempo, il razionalismo tecnologico, in una parola la violenza. E non solo in Turchia, dove non fa purtroppo difetto.

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