Mentre in tutta Europa continuano le polemiche sul tema immigrazione, su ilLibraio.it Giuseppe Marotta, ufficiale giudiziario, in libreria con “Sfrattati”, racconta la commovente storia vera di una famiglia afghana e di un adolescente costretto a crescere in fretta: “Non ci sono muri che possano fermare il coraggio di un padre che vuole dare un futuro florido e fecondo ai propri figli”.

Dice di chiamarsi Alì, è afghano, ha 17 anni e suo padre ha firmato un regolare contratto d’affitto: «perché mai dovremmo andar via?» protesta.

«È una casa che sta per essere venduta all’asta» gli spiego «e il proprietario non avrebbe potuto affittarla: sapeva che prima o poi sarei arrivato per cacciarlo via. Non l’ha detto a tuo padre?» gli domando.

«No, assolutamente» risponde pensieroso «Quindi ci ha fregato?» conclude.

«Sì, vi ha fregati, Alì.» annuisco «Mi dispiace, ma dovresti uscire.»

«Come uscire, e dove vado?» mi guarda incredulo «sono solo in casa, adesso. I miei non ci sono, torneranno questa sera.»

«Quante persone vivono qui?» gli domando.

«Io, i miei genitori, mio fratello più piccolo e mia sorella. Hanno quindici e sedici anni, vanno a scuola anche loro, come faremo?» mi chiede, mentre cerca una sedia per poggiarsi.

«E cosa studiate?».

«Io e mio fratello, geometra; mia sorella, ragioneria.»

«A che anno sei?»

«Io al terzo, mio fratello e mia sorella al secondo.»

«E i tuoi lavorano?» chiedo ancora.

«Sì, mio padre lavora di notte: portiere in un hotel di Milano; mia madre va in giro a far pulizie» mi spiega, abbassando lo sguardo.

«Non so cosa dirti, Alì, ma la situazione è drammatica. Sono passato già un paio di volte, ho lasciato degli avvisi, ma nessuno si è mai fatto vivo: se fossi venuto nel mio ufficio ti avrei spiegato com’era la faccenda.»

«Non abbiamo mai ricevuto avvisi: il signor Mario prendeva tutta la posta ogni mattina e la portava via. Non ci ha mai detto nulla» risponde.

«Certo, altrimenti avrebbe dovuto spiegarvi che non potevate più stare qua. E adesso dov’è?» gli chiedo.

«Non saprei, è da un paio di mesi che non si vede.»

«E come fate a pagare l’affitto?» domando.

«Quando mio padre ha firmato il contratto gli ha dato tre mesi di anticipo e due di cauzione e un altro mese è venuto il signor Mario a prenderlo fin qua. Ma anche allora non ci ha detto nulla.»

Allargo le braccia, mentre osservo la sua faccia scura e triste. E mi sorprendo di come, alla sua età, sia al corrente di tutto ciò che ha firmato suo padre e delle somme che ha versato.

Accanto a me c’è l’avvocato incaricato della vendita all’asta: lo conosco da qualche anno, è un galantuomo e comprende al volo la questione. «Che si fa ufficiale?» mi domanda.

Lo fisso qualche istante: «come al solito» rispondo, mentre afferro l’agenda dalla mia borsa.

«Quando è fissata l’asta?» chiedo all’avvocato.

«La prossima settimana, ho il primo incanto. A chi farà un’offerta vorrei comunicare una data certa in cui l’alloggio sarà libero. Sa, se la casa è occupata, sono un po’ restii a partecipare.»

Scorro le pagine dell’agenda: «beh, direi che un mese e mezzo può bastare per trovare un nuovo alloggio, che ne dici, Alì.»

«Non saprei, ne parlerò con mio padre.» risponde lui, con un’aria attonita.

«Nel caso potreste farvi ospitare da qualche amico, qualche parente» suggerisco.

«Non abbiamo parenti qua, e dagli amici non possiamo andare.»

«Perché mai?» domando incuriosito.

«Ci sono mia sorella e mia madre. È per motivi religiosi, sa: le donne in casa, con altri uomini…» e accenna un mezzo sorriso.

Sorridiamo anche noi.

«Ufficiale non sarebbe un po’ troppo, un mese e mezzo. È stato già rinviato più volte questo sfratto. Il giudice dell’esecuzione mi chiederà conto: come mai tutto questo tempo per liberare un immobile?» interviene l’avvocato.

«Scriverò che ci sono dei minori, che occorre avvisare gli assistenti sociali. E poi un mese e mezzo passa in fretta, vedrà» gli dico per rassicurarlo.

L’avvocato annuisce, mentre mi avvicino ad Alì e gli tendo la mano: «Tutto chiaro, Alì?».

Lui chiude gli occhi e allarga le braccia. «Spiega bene a tuo padre come sono andate le cose e iniziate subito a trovare un nuovo alloggio. Un mese e mezzo passa davvero in fretta» concludo.

«La ringrazio» risponde. «Prima però devo cercare il signor Mario e farmi restituire la cauzione. Non è che abbiamo tanti altri soldi per affittare un nuovo alloggio.»

«Immagino» rispondo. E così ci avviamo giù per le scale, io e l’avvocato galantuomo e spero che tra un mese e mezzo Alì e la sua famiglia non siano più qui e non mi costringano a intervenire con la forza pubblica: io odio, in questi casi, intervenire con la forza pubblica. Uno sfratto non dovrebbe essere una questione di ordine pubblico, dovrebbe essere una questione sociale e in quanto tale dovrebbe essere risolto con politiche sociali: non con poliziotti in assetto di guerra. Ma questa è un’altra storia.

Ciò che mi colpisce invece di questo caso, è il fantomatico signor Mario. Non l’ho mai conosciuto, mai incontrato in tutti questi mesi: non ha mai ritirato gli atti giudiziari presso la casa comunale in cui puntualmente li depositavo ogni volta che non rispondeva al citofono, né ha mai partecipato alle udienze. Così il giudice ha deciso che il suo appartamento andava venduto all’asta a causa di tutti debiti che aveva contratto, e soprattutto per non aver pagato le spese condominiali negli ultimi cinque anni. E lui nel frattempo ha pensato bene di raschiare il fondo, in modo che l’alloggio gli potesse fruttare ancora qualche centesimo e così lo ha affittato agli afghani, tanto loro che ne sanno di leggi, risarcimenti e fregature all’italiana.

E così mentre sto tornando in ufficio, in macchina, immagino quando stasera Alì spiegherà a suo padre che sono stati truffati dal signor Mario, che dovranno lasciare la casa entro un mese e mezzo e che sarà difficile recuperare i soldi della cauzione perché nel frattempo il signor Mario si è dileguato.

Immagino la faccia del padre di Alì che guarderà incredulo negli occhi i suoi figli, lo smarrimento stampato sul volto, il bruciore della frode subita. E sono perso in questa scena, quando mi fermo a un semaforo rosso: come un fulmine, il solito indiano mi porge una rosa che non acquisto, mentre un altro si precipita a pulirmi il parabrezza. «No!» urlo, senza successo: oramai ha bagnato mezzo vetro e lascio che completi l’opera. Recupero venti centesimi dal portaoggetti e glieli porgo in tempo, prima che scatti il verde. Riparto e il pensiero mi riconduce ad Alì e a suo padre che «tutto sommato se la passa meglio dei due poveri cristi che ho appena incrociato al semaforo»  ripeto tra me, come a garantirmi un sollievo morale, e così riesco a esaminare questa storia triste, una delle tante che incontro ogni mattina, da un’angolazione diversa: e nel padre di Alì, per quanto mi sforzi, non ritrovo più l’emblema del povero extracomunitario truffato e sotto sfratto. In fondo è uno che ce l’ha fatta, e me lo suggerisce la sua famiglia dalle potenzialità elevate, ben salde e proiettate verso un futuro florido e fecondo: due figli che un giorno saranno geometri e una figlia che diventerà ragioniera e così lo sfratto, che ora sta subendo, è solo un piccolo incidente di percorso, come accade a tante famiglie italiane sfrattate e truffate. Un incidente che, nei prossimi anni, ogni tanto riaffiorerà nella mente di Alì e di suo fratello, chissà magari una mattina quando apriranno la porta del loro studio di geometri; e se ne ricorderà anche sua sorella, chissà magari una mattina quando dall’alto di un grattacielo milanese guarderà la città, seminascosta dalla nebbia, che si stende davanti ai suoi occhi. Seduta dietro una scrivania di mogano di una grande multinazionale penserà a quel padre che una notte, di tanti anni prima, era partito, scappato via dall’Afghanistan in guerra: una lunga marcia a piedi nel deserto verso l’Iran, la Turchia, la Grecia, la Macedonia e lì era salito su un barcone zeppo di tanti altri profughi come lui, ed era approdato in Italia, carico di speranze, per iniziare quella semina che un giorno gli avrebbe dato un raccolto più che soddisfacente. Lei e i suoi fratelli ne erano i frutti.

E a pensarci adesso quel viaggio memorabile, arduo e temerario suona come uno sberleffo in faccia a quel Viktor Orban, feroce premier ungherese che ha ordinato di stendere del filo spinato lungo i confini con la Serbia per impedire gli accessi dei migranti. Ancora filo spinato, come se non fossero bastati Dachau e Auschwitz.

«Non ci sono muri che possano fermare il coraggio di un padre che vuole dare un futuro florido e fecondo ai propri figli» dico tra me, mentre parcheggio l’auto sotto il mio ufficio. Altro che la paura verso gli extracomunitari che le testate di partito ci iniettano ogni giorno con titoli apocalittici, per attizzare il fuoco dell’odio, del terrore per il diverso, affinché tutto il panico generato si trasformi in consenso politico. L’individuo ha le stesse necessità in ogni angolo del mondo: un bambino vuole essere sfamato e accudito, un uomo vuole essere accolto e amato. Ma oggi la parola “amore” è così sprecata, così abusata che ne abbiamo perso il senso. E si dà del buonista per offendere chi vuol far del bene. E si dà del buonista per lavarsi la coscienza, per non essere stati capaci di guardare l’altro, il migrante, come nostro simile in cerca di rifugio dalla guerra, dalla fame, dalla miseria: tragedie che corrono sopra le nostre teste senza riverenza alcuna. Se la nostra casa bruciasse anche noi cercheremmo rifugio dal vicino, perché questo è un istinto naturale, di sopravvivenza. Cosa non faremmo per rifarci una vita.

«In Europa abbiamo mezzi e strumenti per aiutare chi fugge da guerre e oppressione. L’Europa, nonostante le divergenze interne tra gli stati, è il continente più stabile e ricco di tutto il mondo.» ha affermato, qualche giorno fa, il Presidente della Commissione Europea, Jean Claude Junker, nel suo ultimo discorso all’Europarlamento. E poi ha aggiunto: «L’Europa sono i ragazzi di Kos che portano i panini ai siriani, chi applaude al loro arrivo nella stazione di Monaco».

È questa l’Europa che vogliamo, è questa la mia Europa.

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