“La stanza dei canarini” è il primo romanzo di Giulia Contini (uno pseudononimo), che racconta il cammino di una ragazza per accettare e far accettare la propria identità. Un ritratto della provincia italiana, la storia di un amore difficile – Su ilLibraio.it un estratto

Giulia Contini (uno pseudononimo) ha trentasette anni e ha vissuto la prima metà della sua vita tra il mare e la montagna, senza appartenere veramente né all’uno né all’altra. A diciannove anni si è trasferita a Roma ed è lì che ancora oggi vive, lavora, ama e cerca parcheggio. La stanza dei canarini, edito da Bompiani, è il suo esordio: racconta il cammino di una ragazza per accettare e far accettare la propria identità. Un ritratto della provincia italiana, la storia di un amore difficile, di una ragazza che lotta per poter essere se stessa.

Incredibile come un’infanzia tutta promesse possa sfumare in un’adolescenza tormentosa e tormentata, un’afflizione per sé e per gli altri. Ma Giulia è stata una bambina facile e contenta solo in apparenza: la sua identità mutevole era già viva allora, dolorosamente viva. E gli anni di mezzo, quando il corpo sfugge al controllo e la mente lo segue, acuiscono la sua fatica nel farsi posto nel mondo per quello che è. Poi l’incontro con Adele, vicepreside e professoressa al liceo, una donna indipendente, matura, che “abita gli spazi come la luce del mattino”. Per Giulia è da subito l’unica, la forma dell’amore atteso e sognato, da far vero ad ogni costo. Ci vorrà tempo, tempo e pazienza, prima che Adele ceda all’assedio irresistibile di Giulia; e bisognerà rispettare le convenienze, essere caute, astute, delicate, per poter diventare se stesse insieme nonostante le famiglie, la scuola, la cornice opprimente di una piccola città. Dopo, a Roma, tutto è un po’ più facile. Ma il tempo separa, si fa nemico, incalza…

Giulia Contini La stanza dei canarini

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Adele era diventata bella una mattina di luglio. Aveva perso molto peso tra l’inizio di aprile e la fine di giugno. Senza apparente motivo. Senza fare una dieta o andare in palestra. Perché lei non era mai stata un tipo da insalata o da spinning.

A quelli che glielo chiedevano rispondeva che era successo per caso, in due mesi di corso d’aggiornamento: prendeva l’autobus su viale Garibaldi all’ora di pranzo e così si era abituata a saltare un pasto senza recuperarlo.

Raccontava dei problemi del dimagrimento, di un rene sceso, della pelle floscia, dei vestiti da ricomprare, ma in realtà le faceva piacere. Si vedeva da come camminava per strada. Veloce, col busto eretto, a piccoli passi, come una padrona di casa.

Era diventata bella un giorno di luglio, quando il parrucchiere le aveva tagliato e tinto i capelli.

Per tutta la vita li aveva portati lisci, neri, tirati indietro con un cerchietto, lunghi fin sotto le spalle.

Per tutta la vita aveva indossato tailleur scuri coi bottoni davanti e il colletto rotondo stile Chanel.

Adele all’età di quarantotto anni in un giorno di luglio aveva conosciuto la primavera.

Ed è così che noi l’abbiamo vista arrivare il primo giorno di scuola della mia seconda liceo: pantaloni blu fino alla caviglia con gli spacchetti, maglia rossa con la scollatura a barchetta e le maniche a tre quarti, mocassini blu ai piedi e capelli corti.

Biondi.

D’un tratto era dorata.

D’un tratto splendeva.

D’un tratto l’amavo.

***

L’ufficio di Adele è il posto più bello del mondo.

È l’unico luogo in cui voglio stare. È l’unico luogo in cui mi sento felice.

Felice.

La felicità è un sentimento rotondo che mi avvolge dalla punta dei capelli alle unghie dei piedi. È come tornare nell’utero.

Non esiste il tempo quando sei felice. Non esiste giorno né orario. Sei immerso in questo sentimento bagnato e caldo e non ti importa niente se fuori è inverno o primavera.

Dentro è il sole delle tre.

Perenne.

Perché al sole delle tre non importa che oggi nevica. Il sole delle tre è sempre uguale. Sempre perfetto. Sempre sul ciglio del tramonto. Sempre meno invadente di quello delle dodici.

Il sole delle tre è come me quando mi fermo dopo la scuola nell’ufficio di Adele.

E non c’è altra cosa al mondo che mi interessi adesso come il flaconcino di Ambipur attaccato alla presa elettrica vicino alle mie scarpe, sotto la sua scrivania, da cui si diffonde la fragranza antitabacco che si confonde col fumo delle sigarette che esce dalle sue labbra e dalle sue narici mentre seduta sul davanzale della finestra aperta mi parla.

La felicità ha l’odore di un Ambipur antitabacco, attaccato alla presa elettrica, in una stanza chiusa.

***

Che per me sarebbe stato più difficile l’ho capito subito. Sarebbe stato un problema allinearmi, prima con me stessa – con le parti del mio corpo come pezzi di una macchina smontati sul pavimento di un garage e dopo rimontati in modo tale che la macchina funzioni – e poi con gli altri.

Non sarebbe stato facile. Per niente.

-Come faccio a capire se una persona mi piace davvero o semplicemente mi sta molto simpatica?
-Come faccio a capire se con quella persona voglio solo passarci del tempo insieme oppure voglio qualcosa di più?
-Una volta che ho capito che mi piace davvero e che voglio qualcosa di più, come lo faccio capire anche a lei?
-Dopo che l’ho fatto capire anche a lei, come faccio a capire se la cosa è corrisposta?

Fin qui niente di nuovo, fin qui è uguale per tutti.

Poi io aggiungo un passaggio.

-Se la cosa è corrisposta come faccio a vivermela?
-Se me la vivo, lo faccio di nascosto per non turbare la quiete pubblica e famigliare oppure mi accollo la pratica del coming out?
-Se mi accollo il coming out come reagisco se le cose non vanno bene? Ritratto e dico che ho scherzato oppure inizio una battaglia dolorosa e cruenta per me e per le persone che amo?

E ogni volta che arrivo qui il cervello mi si chiude immediatamente come se si attivasse una sorta di sistema di sicurezza endocrino, un allarme che blocca l’accesso all’astrazione impedendo di fatto l’attorcigliamento del pensiero su se stesso.

Non ci arriverò mai, a questo punto, mi rispondo. Se arrivo al punto 4 è già una forza.

Se mai arriverò al punto 4 mi porrò il problema.

Ma ogni notte, prima di addormentarmi nella stanza dei canarini, riparte la giostra.

-Come faccio a capire se una persona mi piace davvero o semplicemente mi sta molto simpatica?
-Come faccio a capire se con quella persona voglio solo passarci del tempo insieme oppure voglio qualcosa di più?
-Una volta che ho capito che mi piace davvero e che voglio qualcosa di più, come lo faccio capire anche a lei?
-Dopo che l’ho fatto capire anche a lei, come faccio a capire se la cosa è corrisposta?
-Se la cosa è corrisposta come faccio a vivermela?
-Se me la vivo, lo faccio di nascosto per non turbare la quiete pubblica e famigliare oppure mi accollo la pratica del coming out?
-Se mi accollo il coming out come reagisco se le cose non vanno bene? Ritratto e dico che ho scherzato oppure inizio una battaglia dolorosa e cruenta per me e per le persone che amo?

In loop. Ogni notte.

È un pensiero fisso, perché hai sedici anni e l’amore dovrebbe essere il tuo pane quotidiano e una parte di te sa che non dovrebbe essere difficile come disinnescare una bomba.

Per me è difficile. Così difficile che spesso l’unico modo per non esplodere/implodere è spezzare il circolo alla partenza.

Fermarsi al punto 1: come faccio a capire se una persona mi piace davvero o semplicemente mi sta molto simpatica?

Non lo capisci, e se lo capisci scappi nella direzione opposta.

Ottima soluzione.

Evitare di intraprendere il percorso, non iniziarlo nemmeno col rischio di non riuscire a superare il livello seguente e restare incastrati tra due piani intermedi.

Disinnescare subito.

Questa è la soluzione.

Ma questa non è la soluzione.

“Gli occhi degli esseri viventi possiedono la più straordinaria delle proprietà: lo sguardo. Nulla è più eccezionale dello sguardo…

Cos’è lo sguardo? È qualcosa di inesprimibile. Nessuna parola esprime, neanche lontanamente, la sua strana essenza. Eppure lo sguardo esiste…

Che differenza c’è fra occhi che possiedono uno sguardo e occhi che ne sono sprovvisti? Questa differenza ha un nome: si chiama vita. La vita inizia laddove inizia lo sguardo. Dio non aveva sguardo.”

I miei occhi possiedono lo sguardo.

E come dice Hannibal Lecter a Clarice Starling nel Silenzio degli innocenti: come cominciamo a desiderare?

Il desiderio nasce da quello che vediamo ogni giorno.

Io tutti i giorni vedevo Adele.

E poiché i miei occhi possiedono lo sguardo, come un dio minore, come un ingegnere, come un narratore, osservando creo.

Arriviamo alla domanda del punto 3: una volta che ho capito che mi piace davvero e che voglio qualcosa di più come lo faccio capire anche lei? Risposta: l’assedio.

***

© 2020 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani

(continua in libreria…)

 

 

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