“Una donna che parla di cose importanti, una donna che parla perché la sua opinione conta, è una sovversione pericolosa. Ai tempi dell’Odissea, certo, direte voi. Ma siamo proprio sicuri di aver superato del tutto questo tabù? Come spesso succede, il linguaggio comune porta cicatrici, mal rimarginate – anzi, temo proprio che siano ferite ancora aperte. Quante volte vi è capitato di sentire, riferita a una donna forte, la delicata espressione ‘è una donna con le palle’, declinata in varie gradazioni di bruttezza, sia di forma che di contenuto?”. Su ilLibraio.it l’approfondimento della scrittrice Ilaria Gaspari che, partendo dal saggio “Donne e potere” di Mary Beard, racconta il rapporto tra donne e potere, attraverso figure come Penelope, Mary Tudor, Cleopatra, Lady Macbeth, la matrigna di Biancaneve e molte altre…

Mi chiamo Ilaria, che vuol dire, a quanto pare, felice, ilare, lieta. Quando ero una bambina, per scherzarmi i compagni di scuola, e qualche volta i maestri, mi chiamavano Hillary come Hillary Clinton, che era allora la First Lady degli Stati Uniti, composta, forte e tradita, anche se noi non lo capivamo; era comunque il prototipo della donna seriosa, quadrata, insopportabile. Era uno scherzo buono per tutte noi Ilarie bambine, senza troppi sottintesi – faceva ridere facilmente per il suono maccheronico e il significato antifrastico. Sono cresciuta in una famiglia e in un ambiente liberi e amorevoli. Ma come a tutte le bambine che erano bambine ai tempi in cui Monica Lewinsky era un insulto incomprensibile e immotivato da gridare nel cortile della scuola, anche a me è stato insegnato a essere sempre gentile e a diffidare degli sconosciuti; a non piangere, perché fa diventare brutte – guarda invece quanto sei bella se sorridi! – e a sedermi composta, soprattutto quando porto la gonna. Sono cresciuta, ilare quanto potevo, ho diffidato degli sconosciuti con tutta la gentilezza possibile, mi sono nascosta quando mi sentivo brutta – perché piangevo, perché sudavo, perché sanguinavo.

Non vedete quanto sono bella, quando sorrido? Ho sorriso in moltissime foto, in nessuna ho pianto. Nel frattempo sono passati mesi e anni, ho studiato, ho viaggiato, ho continuato a studiare e ho cominciato a scrivere. Così a un certo punto è capitato che una di queste foto in cui sorridevo venisse usata per illustrare una recensione a un mio libro, su un sito che illustra con fotografie degli autori i testi recensiti.

A commento della recensione, qualcuno ha scritto una cosa che nonostante la mia abitudine a sorridere e a essere gentile (benché diffidente), mi ha colpita. Se quello che scrivi vale qualcosa, diceva, si capirà soltanto quando non sarai più giovane e attraente.

È certamente una frase insensata, anche se stranamente efficace: piccolo nonsense di galanteria insultante, riesce a riassumere una pletora di pregiudizi che, negli anni, ho avuto modo di osservare all’opera rispetto al lavoro e alla vita di molte donne – non importa se giovani. Vedere quei pregiudizi, spesso insinuati, finalmente messi nero su bianco è stato in qualche modo liberatorio: eccoli allo scoperto, una buona volta, francamente ridicoli come sono, non più mascherati da consigli paternalistici, non più avviluppati in quei viscidi complimenti che ti lasciano ammutolita perché sei troppo abituata a rispondere educatamente – o, semplicemente, non sai proprio che dire. Eccoli lì, invece, squadernati nella loro abbagliante, semplicissima, quasi (quasi!) tenera semplicità.

Sono pregiudizi vecchi decrepiti che troppo spesso hanno trovato la loro eco in un silenzio che non è semplicemente buona educazione da ragazze perbene, ma un doloroso retaggio arcaico. La storica Mary Beard, autrice di un bellissimo saggio su Donne e potere (pubblicato in italiano da Mondadori nel 2018, nella traduzione di Carla Lazzari), cita una scena dell’Odissea che di questi silenzi ci dice molto. Siamo nel primo libro; Ulisse è lontano e la grande sala della reggia è gremita dei corteggiatori di Penelope, regina sola, forse vedova, impareggiabilmente fedele alla pura speranza di rivedere il suo sposo; un aedo intrattiene gli ospiti cantando una canzone che parla di eroi che fra mille peripezie cercano di tornare a casa.

donne e potere

Penelope – qualcuno potrebbe biasimarla? – che sente il suo cuore straziarsi al pensiero di Ulisse forse morto, certo disperso per via (quello stesso pensiero che autorizza i proci a farle la corte occupandole la casa con nonchalance), chiede al cantastorie se non possa magari intonare una canzone meno triste. Interviene Telemaco: è solo un ragazzino, ma rimbecca la madre con una crudeltà che trovo difficile perdonargli, benché lui sia più che altro lo strumento in cui risuona una credenza culturale che all’epoca certo non si discuteva. Telemaco senza tanti complimenti davanti a tutti zittisce sua madre, e – lui, l’adolescente! – la spedisce nella sua stanza:  Madre mia, le dice, va’ nella stanza tua, accudisci ai lavori tuoi, il telaio, la conocchia, e comanda alle ancelle di badare al lavoro. E aggiunge: la parola spetterà qui agli uomini tutti, e a me soprattutto, che ho il potere qui in casa.

E lei obbedisce: educatamente, si ritira nelle sue stanze, dove ha una tela che l’aspetta.

La parola – la parola seria, non quella delle chiacchiere; Telemaco dice mythos – spetta agli uomini, spiega il ragazzino imberbe a Penelope. Ed è a ragion veduta che Beard cita proprio questa scena in apertura del suo saggio sul rapporto fra donne e potere.

Una donna che parla di cose importanti, una donna che parla perché la sua opinione conta, è una sovversione pericolosa. Ai tempi dell’Odissea, certo, direte voi. Ma siamo sicuri, siamo proprio sicuri, di aver superato del tutto questo tabù? Ci ho pensato, dalla mia prospettiva angusta e a modo suo sfacciatamente fortunata, soppesando il senso di fastidio per quel commento fuori luogo, che come in un prisma moltiplicava infiniti frammenti di altri piccoli, trascurabili e perciò significativi soprusi a cui ho assistito, a cui continuo ad assistere. Come spesso succede, il linguaggio comune porta le cicatrici anche di questo tabù, e sono cicatrici mal rimarginate – anzi, temo proprio che siano ferite ancora aperte. Quante volte vi è capitato di sentire, riferita a una donna forte, la delicata espressione “è una donna con le palle“, declinata in varie gradazioni di bruttezza, sia di forma che di contenuto?

Per essere meno sovversiva, la donna di potere può scegliere se essere un po’ meno donna (si intenda: meno donna nel senso stereotipato e vagamente sacrificale che proprio qualche giorno fa, in occasione dell’8 marzo, è stato celebrato da un noto scrittore che ahinoi intendeva lanciare un suo omaggio alla ‘donna femminile’) – o un po’ meno potente. O meglio: lei può sceglierlo fino a un certo punto, perché a forzare la mano in una direzione o nell’altra sarà poi, naturalmente, chi racconterà quella donna e la sua vita, e il suo rapporto col potere.

Quelle che la storia – per lo più tramandata dagli uomini – ricorda, sembrano aver prediletto in generale la prima opzione. Per questo, più che come donne di potere sono state ritratte come donne cattivissime. Per esempio Mary Tudor, sotto il cui regno nel Cinquecento morirono tanti protestanti da guadagnarle il simpatico epiteto di Maria la Sanguinaria – che oggi riecheggia nel colore cruento del cocktail che porta il suo nome, anche se in quel caso, per fortuna, si tratta solo di succo di pomodoro. O Elisabetta I, sua sorellastra minore (che Mary non esitò a rinchiudere in prigione, trattamento che poi lei riservò, a sua volta, alla cugina Mary Stuart, con l’aggiunta di una bella decapitazione). Ma è vero che queste signore e signorine sono vissute in un’epoca cruda, in cui il potere mostrava senza troppi orpelli il suo volto più spietato e nessun sovrano andava troppo per il sottile: un esempio luminoso di questa mancanza di scrupoli l’offriva il loro stesso padre, Enrico VIII, che se dalla madre di Maria divorziò a prezzo di uno scisma con la Chiesa di Roma, ad Anna Bolena, mamma di Elisabetta, riservò nientemeno che un’esecuzione capitale, quando si stufò di lei. Eppure, è bizzarro che le sovrane che la storia ricorda, statisticamente molto, molto meno numerose dei loro colleghi maschi, siano sempre citate come esempi di lampante e irredimibile crudeltà – proprio come se si facesse ricorso a un metro morale differente.

Mary Tudor

Queste donne dalla cattiveria leggendaria non appaiono meno disturbanti quando la loro leggenda conserva traccia anche dell’esagerato potere seduttivo che, si dice regolarmente, usarono in maniera attiva, spregiudicata – fatale. Sono cacciatrici, non prede: qualcuna addirittura ricordata come una vera e propria ninfomane, come Messalina, che fu costretta da Caligola a sposare il futuro imperatore Claudio, zoppo e balbuziente e trent’anni più vecchio di lei (all’epoca delle nozze appena quattordicenne), ma di cui Giovenale ricorda soprattutto l’abitudine di andare a prostituirsi nei bordelli, con gli occhi bistrati, una parrucca in testa e i capezzoli dipinti d’oro; o Cleopatra, la seduttrice di Cesare e di Marco Antonio, con la cui morte spaventosamente erotica – la tradizione vuole che si sia fatta mordere il seno da un serpentello velenosissimo, un aspide – ha fine l’età ellenistica. E lo stesso vale per Lucrezia Borgia, machiavellica femme fatale rinascimentale intorno al cui delicato profilo si intesse una leggenda nera di incestuose crudeltà.

Lady Macbeth, più vera del vero come i personaggi di Shakespeare, con una crudezza e un realismo francamente terrificanti lega l’ambizione politica alla più assoluta negazione della sua natura femminile – e non c’è da stupirsi che una tale violenza su se stessa finisca per portarla alla follia:

“Venite, spiriti che agitate pensieri di morte
snaturate in me il sesso,
riempitemi tutta, da capo ai piedi,
della più crudele ferocia!
Condensate il mio sangue, chiudete in me ogni via,
ogni accesso al rimorso, che nessun pungente ritorno di pietà
naturale scuota il mio truce proposito
o metta indugio tra esso e il suo compimento!
E voi, ministri di assassinio, ovunque siate,
nelle vostre invisibili forme, al servigio della malizia umana
venite alle mie mammelle di donna e prendetevi il mio latte
in cambio del vostro fiele!”.

Jeanette Nolan in Macbeth di O. Welles

Ma non dimentichiamo la seconda opzione: essere, se non meno ‘donne’, un po’ meno potenti. Questa è la strada di Grimilde, la regina cattiva di Biancaneve: un personaggio di fiaba, certo – ma, proprio per questo, un personaggio archetipico. Lei, che è per l’appunto una regina, che dispone di un potere tale da poter ordinare, come nulla fosse, a un cacciatore di portarle il cuore di una ragazzina ben confezionato in uno scrigno; lei che può compiere incantesimi e malefici perché siamo in una fiaba ed è anche un po’ strega. Lei, insomma, che potrebbe tranquillamente godersi questo suo sterminato potere, decide invece di distruggere quel suo stesso potere con il più subdolo degli assalti. Lo intacca, poco a poco, lasciando che la sua idea di sé, dentro lo specchio servo delle sue brame, sia corrosa dall’acido potentissimo di un’ossessione impossibile da tenere sotto controllo, un’ossessione che è il marchio di una competizione senza speranza, e che per di più si riversa su qualcosa che, da un lato, non dipende da lei; dall’altro, ha senso unicamente come misura di una quotazione di mercato su un immaginario mercato della desiderabilità: la bellezza. Così, la regina consegna le chiavi del suo potere a un piccolo esercito di passioni tristi, all’invidia, alla gelosia, all’odio, che di quel potere faranno brandelli.

Ma l’idea che la bellezza – una ‘dote’ su cui abbiamo potere solo fino a un certo punto, a meno di non sottoporci a torsioni particolarmente violente di inedia o di bisturi – sia la moneta di scambio per l’amore, il prestigio, il successo sociale; e, soprattutto, che quell’amore, quel prestigio, siano la posta in palio in un gioco a somma zero, per cui se non te li aggiudichi tu è perché qualcun’altra te li ruba, e quindi ogni donna è una potenziale rivale, ecco, quest’idea è il cardine di una forma di maschilismo interiorizzato che ha avvelenato, e avvelena, molte esistenze, non soltanto quella della povera Grimilde. 

Una donna di potere di cui si dice che fosse una crudelissima, instancabile tessitrice di trame e, soprattutto, di una gelosia patologica, è Olimpiade: nota soprattutto per essere stata la madre di Alessandro Magno, in realtà ebbe una vita estremamente avventurosa, fra intrighi di corte, reggenze finite male, tradimenti perpetrati e subiti; dedita al culto dionisiaco dei serpenti, da brava baccante – tanto che pare dormisse con un bel rettile nel letto, il che non dovette facilitare la sua vita coniugale. E fu, effettivamente, la madre ‘barbaramente possessiva’ di quel figlio che amò enormemente, come racconta in una biografia uscita da poco per Salerno lo storico Lorenzo Braccesi, che spiega come la figura di Olimpiade, “nei secoli è accompagnata da una tradizione di marca ostile, quasi una maledizione storiografica, perché, essendo donna, i contemporanei ne hanno infamato il ruolo di protagonista che ella ha sempre disinvoltamente esercitato”. Nel prezioso librino è ricostruita la vita di questa figlia di re, che fu madre del più grande re di tutti i tempi e moglie, infelice, di un altro re, Filippo. Il quale esercitava allegramente la poligamia, e difatti un giorno arrivò bel bello alla reggia di Pella portando con sé una delle sue due concubine di Tessaglia, di cui si diceva che praticasse arti magiche, e che così avesse irretito il re. Racconta Plutarco che Olimpiade volle incontrare la concubina per ridurla in suo potere e vincerla; ma “quando questa, venuta in presenza della regina, era apparsa bella di sembiante, e per giunta di conversazione che non difettava né di buona educazione né di intelligenza, esclamò: ‘Via con queste calunnie! Tu hai l’incantesimo magico in te stessa‘.”

Che sorpresa trovare, nelle parole attribuite a una regina-baccante dalla fama piuttosto sinistra, una risposta da ricordare la prima volta che sentiremo dire, di una donna che sa farsi rispettare, che è perché è una con le palle. Via con queste calunnie!, diremo: ha l’incantesimo magico in se stessa. E magari potremo pure continuare a sorridere, se ci va, senza che sia indispensabile mostrarci cattivissime – a meno che non lo vogliamo.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ora è la volta di un libro unico nel suo genere, Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), in cui Gaspari mette in scena una storia d’amore. Ma non solo. Vuole anche, con l’aiuto di filosofi e romanzieri (da Montaigne a Flaubert, da Freud a Simone Weil), tentare di sciogliere i grandi nodi che fanno sembrare complicata la vita amorosa.

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