“Tradurre la parola amore” di Lynne Kutsukake ricorda le atmosfere della tetralogia di Elena Ferrante – l’amicizia tra due ragazzine in una città poco accogliente, in questo caso Tokyo dopo la guerra, un legame totalizzante, fatto di ricatti e dipendenze affettive – ma è anche un resoconto quanto mai attuale di ciò che comporta la violenza per chi la subisce (e per le donne in particolare) – L’approfondimento

La seconda guerra mondiale è appena finita, il Giappone è sotto l’occupazione statunitense. Il progresso è incarnato dalla parola democrazia. Eppure, quando i soldati americani distribuiscono cibo occidentale nella scuola di Fumi, il cibo democratico per antonomasia, le uova, non è mai abbastanza.

E anche se la guerra è finita la sorella maggiore di Fumi non è ancora tornata da Ginza, il quartiere del divertimento, dove ha lavorato come ballerina per gli americani.

Queste storie racconta Tradurre la parola amore, dell’autrice nippo-canadese Lynne Kutsukake, pubblicato in Italia da Nuova Editrice Berti e tradotto da Francesca Cosi e Alessandra Repossi.

Come se non bastasse, la vita di Fumi viene sconvolta dall’arrivo di una nuova compagna di classe, Aya, che proviene dal Canada, dove con il padre ha vissuto per alcuni anni in un campo di internamento. Nel Nord America, dopo Pearl Harbour, chiunque avesse origini nipponiche vi è stato rinchiuso. E alla fine della guerra sono state date due opzioni ai prigionieri: tornare alla loro vecchia vita, pur non avendo più niente di quello che si erano guadagnati con anni di lavoro prima del conflitto mondiale, oppure espatriare in Giappone.

Così Aya e il padre arrivano a Tokyo. La ragazzina non sa niente della cultura giapponese e comprende poche parole, ma sa l’inglese, la lingua dei soldati, e del generale Douglas MacArthur, il Comandante supremo delle forze alleate in Giappone, un uomo con poteri assoluti di controllo sulle istituzioni giapponesi, compreso lo stesso imperatore Hirohito. Un uomo così stimato che ben presto i giapponesi iniziano a scrivergli lettere per chiedere il suo aiuto in questioni disparate, o anche solo manifestargli il loro apprezzamento.

Allo scopo di tradurre le lettere dei giapponesi in inglese esiste un intero squadrone di traduttori, soprattutto soldati americani di origine giapponese che allo scoppio della guerra si sono trovati a un bivio: dimostrare la propria fedeltà allo stato in cui sono nati o alla nazione dei propri avi? Matt è uno di quelli che hanno scelto di servire la bandiera a stelle e strisce.

Ma chi conosce l’inglese non lavora solo per il governo. C’è anche chi, come il maestro di Fumi, Kondo, alla sera installa il suo banchetto in un vicolo e traduce le lettere che le donne locali ricevono dai soldati americani con cui hanno avuto una relazione.

Il Giappone che racconta il romanzo è spaccato a metà: da un lato la tradizione e il passato del grande impero, dall’altra la modernità, i costumi occidentali e il peso dell’occupazione straniera. Così come sono giapponesi a metà tutti coloro che come Aya e suo padre sono arrivati nel paese del sol levante da altri stati.

Se da un lato Tradurre la parola amore ricorda le atmosfere della tetralogia di Elena Ferrante – l’amicizia tra due ragazzine in una città poco accogliente, un legame totalizzante ma fatto anche di ricatti e dipendenze affettive – dall’altro è un resoconto quanto mai attuale di quello che impone la guerra sulle popolazioni locali. E soprattutto sulle donne, costrette dalla povertà a rendersi disponibili ai soldati per poi essere abbandonate, perfino incinte, dopo promesse e illusioni di una vita migliore.

Ma si tratta anche di un romanzo che racconta un momento cruciale della storia del Giappone: l’occidentalizzazione di una nazione che per millenni ha visto svilupparsi una cultura unica e intoccabile. E, più in generale, fa riflettere sulla guerra dal punto di vista dei vinti.

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