Colloquio con Tiziano Terzani autore di Lettere contro la guerra ISBN:8830419788

L’11 settembre del 2002 è una data che rimarrà incisa a caratteri di sangue negli annali di questo primo secolo del Terzo Millennio, come altre date lo sono negli annali di altri secoli. Tiziano Terzani, che ormai vive abitualmente in Asia dove passa “gran parte del tempo nell’Himalaya”, era in Italia, ha visto come tutti noi i terribili eventi alla televisione, ha provato l’insopprimibile impulso a scrivere una “lettera” su quegli eventi, da rivolgere al più ampio pubblico possibile attraverso il grande quotidiano italiano a cui collabora. Pochi giorni dopo era già ai confini del Pakistan con l’Afghanistan, nel febbrile tentativo di capire il “perché” di quanto avvenuto, le ragioni degli uni e quelle degli altri. Da lì è riuscito a entrare in Afghanistan, a raggiungere Kabul e a muoversi per il martoriato paese con tutti gli scarsissimi mezzi possibili, non ultima la bicicletta. Di nuovo, per vedere, per capire. Ne sono nate altre “lettere”, da Peshawar, da Quetta, dalla stessa Kabul, da Delhi, dal suo rifugio sull’Himalaya. Per cercare di far “vedere” agli altri attraverso le sue parole, di aiutare a capire. Ne è nato Lettere contro la guerra. Terzani è di nuovo in Italia per l’uscita del libro e ha cortesemente accettato di parlarne con noi.

D. Possiamo definire queste sue “lettere” un appassionato “grido di avvertimento”? Rivolto a chi, in particolare?

R. Sì, un grido d’allarme, col cuore in mano, ma anche un incoraggiamento alla speranza. Mi rivolgo soprattutto ai giovani, a quelli che ora possono avere l’impressione che il mondo non è loro, che non si può far niente per cambiarlo. Ed io dico: il mondo è di tutti, specie dei giovani; ed il mondo lo si può cambiare. Come? Lentamente cominciando a cambiare noi stessi. Le lettere sono dedicate a mio nipote Novalis, che ha due anni e mezzo, perché, quando io non ci sarò più e anche a lui toccherà scegliere, sappia che la non violenza è una vera alternativa. Le lettere sono una risposta allo sgomento, alla paura, al senso di insicurezza che ha preso tutti dopo i fatti dell’11 settembre. Io dico: questa è la buona occasione per riflettere su tutto, per rifondare il futuro, per fare un bel passo avanti nell’evoluzione. L’uomo – quello che oggi siamo – non è un prodotto definitivo, siamo un essere in via di transizione. Eravamo scimmie. Cosa saremo? Bene, usiamo della nostra coscienza per evitare di tornare ad essere scimmie tecnologiche. Abbiamo sempre più sofisticati mezzi di comunicazione (accidenti ai telefonini!), ma comunichiamo sempre di meno; abbiamo sempre più inesauribili fonti di informazione e sappiamo sempre di meno. Siamo sempre più in mezzo a tanta gente e siamo sempre più soli. Abbiamo conquistato in tantissimi sensi la natura, ma non abbiamo fatto alcun progresso noi stessi: abbiamo forse meno paura della morte? abbiamo forse meno bisogno di essere amati? No. Questo perché al progresso materiale non è andato di pari passo un progresso spirituale di questa specie chiamata umanità. Ecco secondo me dinanzi all’orrore dell’11 settembre e di quel che è seguito (e seguirà !!) abbiamo una bella occasione per fare un grande passo in avanti in questa evoluzione. Come? Rendendoci conto una volta per tutte che la violenza genera solo violenza, che la guerra non risolve i grandi problemi dell’umanità e che dobbiamo rinunciare alla violenza.

D. Durante la Grande Guerra gli inglesi riuscirono a far insorgere la nazione araba contro l’impero ottomano, promettendo varie indipendenze locali. Ne seguì quello che Lawrence d’Arabia, nei “Sette pilastri della saggezza”, denunciò con durezza come un grande “tradimento” da parte inglese e occidentale in genere. Le cose sono poi proseguite in quel senso? Con sempre nuovi “tradimenti”? Quello nei confronti del variegato popolo curdo, per esempio, sempre tenuto sui margini della rivolta e mai ascoltato in seri termini politici. Sta avvenendo la stessa cosa per i diversi popoli orientali ora in profondo fermento, se non vera e propria ribellione?

R. Verissimo. E non ci sono dubbi – a mio parere – che al fondo dell’attacco contro le Torri Gemelle, al fondo dell’ideologia di Osama bin Laden c’è questo senso del “tradimento” da parte dell’Occidente. Guardiamo i fatti: nel 1979, dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan gli Stati Uniti finanziano e addestrano decine di migliaia di giovani di tutti il mondo mussulmano perché combattano la “guerra santa” contro l’Impero del Male, che aveva allora la sua capitale a Mosca. Una volta che la guerra è vinta, gli Stati Uniti si disinteressano di tutta quella gente che, a parte l’Afghanistan, non ha più un posto dove andare, visto che nei loro paesi, retti per lo più da regimi reazionari filo-americani, ora non sono più benvenuti. Questo è il primo “tradimento”. Il secondo “tradimento” è nel fatto che gli Stati Uniti, dopo la Guerra del Golfo, non si ritirano dall’Arabia Saudita, ma lasciano basi militari e loro soldati nei luoghi sacri dell’Islam.

D. Anche Freya Stark, grande viaggiatrice e osservatrice dei costumi vicino e medio orientali, nel suo “Effendi” (East is West), scriveva già negli anni Quaranta lunghe e intense pagine sull’equazione Est = Ovest, cioè sulla ormai avvenuta (secondo lei) omologazione delle classi dirigenti di queste due aree cruciali dello scacchiere internazionale. Alla luce di quanto è avvenuto in seguito, questa equazione non sembra però reggere. Le diversità ci sono, eccome.

R. La Stark è bravissima, ma il contatto privilegiato che un viaggiatore occidentale finisce spesso per avere con chi parla l’inglese, cioè con le elite “occidentalizzate”, le aveva dato una visione parziale del problema. Anch’io, forse, avessi incontrato Osama Bin Laden, o alcuni dei suoi uomini, vent’anni fa, quando avevano ancora trent’anni, avrei potuto credere di aver dinanzi dei futuri leader omologati, o omologabili. Osama nella foto di famiglia durante il viaggio nel Nord Europa non fa pensare ad Osama col Kalashnikov dinanzi alla caverna. Il fatto è che oggi nel mondo c’è un “mondo” di gente – non solo mussulmana – che non vuole essere e non vuol diventare come noi occidentali. Che fare? Bombardarli tutti fino all’estinzione? Forse meglio capire le loro ragioni e cercare un dialogo di civiltà invece che uno scontro.

D. Vi è senza dubbio una forte difficoltà per l’Ovest a capire l’Est, ma si può dire che l’Est faccia autentici sforzi per capire l’Ovest e stabilire con esso rapporti politici veramente dialettici o, se vogliamo, interattivi? Insomma: davvero le colpe risiedono soltanto da una parte?

R. Non è una questione di “colpa”, e questa stessa idea di voler che gli altri siano come noi – in questo caso che facciano uno sforzo per capire noi come noi diciamo di farne uno per capire loro – è tipica dell’atteggiamento occidentale. In fondo ci sentiremmo più sicuri e tranquilli se tutti fossero come noi. Il fatto è che questo non sarà mai possibile, e voler fare di tutti UNO è assurdo come l’uomo che voleva eliminare la sua ombra. Il bello del mondo, la sua armonia, sta nell’unità delle diversità non nell’appiattimento di tutto. Il nostro problema è trovare quell’unità e goderne.

D. Con “rapporti politici veramente dialettici” intendevo appunto l’impegno a realizzare una vera parità delle culture, da cui far emergere una sintesi politica positiva per tutta l’umanità. Un altro autore di una zona che conosco molto bene – per esempio —, il turco Orhan Pamuk, continua nei suoi romanzi a elevare vibranti e accorate accuse all’invadenza della cultura occidentale nei confronti se non altro di quella turca. Non mi sembra peraltro che la classe dirigente di quel paese faccia grandi sforzi, non soltanto per resistere a una simile penetrazione ma nemmeno, come dicevo sopra, per reagire in maniera dialettica. E lo stesso temo accada per alcune classi dirigenti dei paesi vicino e medio orientali. C’è forse troppa furbizia, da entrambe le parti.

R. Non conosco l’autore turco di cui lei parla, ma essendo vissuto in Asia per 30 anni, conosco il dramma di tutte le grandi, vecchie culture di quel mondo una volta che han dovuto affrontare non solo l’invadenza culturale dell’occidente a cui fa riferimento lei, ma il colonialismo e l’imperialismo occidentale. Ridurre questa storia di aggressione e di violenza da parte dell’occidente e le reazioni rivoluzionarie (Mao Tse-tung, Ho Chi Minh) o meno delle classi dirigenti degli aggrediti ad una questione di “furbizia”, mi pare troppo semplice.

D. Le rivoluzioni sono eventi catartici che non possono in nessun modo essere definiti “furbizia”, ma le classi dirigenti dei paesi “culturalmente” aggrediti non mi pare che rispondano sempre con la necessaria fermezza e anche durezza (senza arrivare alla “rivoluzione”), ma spesso con la furbizia (il vantaggio personale) dell’accomodamento. Quelli che rimangono in ogni caso tagliati fuori sono i popoli, la gente comune, sempre chiamata a pagare le spese delle decisioni prese sopra la sua testa, con prezzi che ai nostri presunti “occhi civili” dovrebbero comunque apparire inaccettabili.

R. Sì. Anche in guerra ormai sono sempre più i civili a morire.

D. La domanda può apparire semplicistica e forse senza risposta, ma: “Che fare?”

R. È una domanda sacrosanta, e non a caso ho intitolato proprio così la mia ultima lettera, quella che ho scritto dal mio rifugio nell’Himalaya, dove sono tornato per qualche giorno a cercare di mettere ordine “dall’alto” a quel che avevo visto viaggiando per due mesi lungo la frontiera fra Pakistan ed Afghanistan e poi passando tre settimane a Kabul. La domanda me la sono posta, e credo, a mio modo, di aver risposto. Ho indicato “il cammino” da fare, e fatto un grande augurio, a me stesso ed a chi mi leggerà: Buon Viaggio, sia fuori… che dentro.

Intervista a cura di Mario Biondi

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