Intervista a Cristiano De Majo autore di Vita e morte di un giovane impostore raccontata da me, il suo migliore amico ISBN:9788862200981

Cristiano De Majo, Napoli 1975, firma un particolarissimo romanzo d’esordio: Vita e morte di un giovane impostore raccontata da me, il suo migliore amico. Storia di uno scrittore in erba e in potenza, morto prematuramente, il libro si presenta come il tentativo filologico – attraverso testi apparentemente marginali quali cartoline, lettere, racconti minori… – di raccontare biografia e opere (in nuce, in itinere, perdute) di un giovane, genio incompreso, o forse artista velleitario. Ironica ricostruzione e riabilitazione delle sorti (mancate) letterarie ed esistenziali inespresse e incomprese, il libro di De Majo, al di là del divertimento, tocca corde profonde, dando vita (e morte) a personaggi che segnano il lettore.

D. Un titolo un po’ wertmulleriano, ironico e debordante. Come mai?

R. È un titolo che è venuto fuori in casa editrice durante una di quelle riunioni in cui si deve decidere il titolo di un romanzo. Sinceramente non lo trovo così wertmulleriano, se non per il fatto che è lungo. L’ho scelto perché da un lato svela subito che i protagonisti del libro sono due e dall’altro perché, alla luce di come si articola la storia, ha un certo grado di ambiguità e di ironia a posteriori.

D. La scrittura come necessità d’espressione e di riconoscimento, le aspirazioni creative e intellettuali di una generazione di trentenni, i rituali consunti e un po’ provinciali dell’industria culturale nostrana, sorda al talento e sedotta dalle mode. Il suo libro mostra l’Italia di oggi raccontando le vocazioni dei giovani adulti di questi anni?

R. In realtà sono particolarmente sospettoso nei confronti dei romanzi che aspirano a raccontare l’Italia di oggi quando questa diventa l’unica ragione che fa andare avanti il racconto. Ho spesso la sgradevole sensazione che ci sia troppa sociologia, spesso anche spicciola, nel romanzo italiano contemporaneo. Ci sarebbero lunghe liste da fare: i romanzi sui trentenni di oggi, o i romanzi sull’Italia berlusconiana, per esempio, ce ne sono quanti ne vuoi. Ma i romanzi con un obiettivo rischiano di uscire secondo me, per il fatto stesso di avere un obiettivo, dalla categoria romanzo.
Sicuramente il mio romanzo racconta la storia di due personaggi che sono figli degli anni Novanta e muovono i passi nell’Italia di oggi ma non c’è né un teorema generazionale da applicare in via generale, né una spiegazione finale. Per quella abbiamo già Ilvo Diamanti e il Censis e altre centinaia di professionisti della spiegazione.

D. La cornice metanarrativa (un romanzo che racconta la sua genesi) può prestarsi alle accuse di autocompiacimento e di autoreferenzialità. Eppure l’ironia sembra una chiave per dare respiro e senso a quest’impianto. Perché questa scelta?

R. Nei libri che amo di più (ma anche nei film che amo di più) è sempre presente con diverse gradazioni il tema della consapevolezza nell’uso di quel particolare linguaggio espressivo. L’autocompiacimento/autoreferenzialità di cui parli può nascere forse quando questa diventa l’unica chiave di lettura del romanzo, quando cioè non si ha nient’altro da dire. Non credo sia il caso del mio libro, visto che parla sostanzialmente di vita e di morte, di debolezze umane, di genitori, di amicizia. Nella mia visione il ragionamento sulla letteratura è subordinato a questi grandissimi temi, come se fosse una macchina costruita per generare domande su questi grandissimi temi. D’altra parte era difficile evitare una cornice metanarrativa in un libro i cui due protagonisti sono persone che scrivono o vogliono farlo.

D. Il narratore del suo romanzo è un filologo sui generis, che trasforma la letteratura marginale (cartoline, lettere private, sfoghi, recensioni, racconti minori…) negli indizi di un talento in nuce. Così facendo, trasforma un lavoro di ricerca, complice l’etichetta di un editore un po’ spregiudicato, in un romanzo. Domande impegnative sorgono: Che cos’è un romanzo oggi? E ancora, per dirla con Sartre, che cos’è la letteratura?

R. Sono domande a cui ovviamente non posso rispondere con asserzioni definitive… Romanzo è una categoria strutturale e non qualitativa, anche se in continua evoluzione. Un romanzo oggi è sostanzialmente come un romanzo ieri in termini di vicende, personaggi, conflitti narrati, mentre può cambiare ed è cambiata la forma che ha assunto nel tempo. Dal punto di vista del lettore apprezzo anche le narrazioni tradizionali se ben riuscite, ma dal punto di vista dello scrittore in questo caso m’interessava forzare la forma del romanzo classico e non per il puro gusto di sperimentare, ma per aumentare la credibilità del racconto. Di fatto il mio è un romanzo sotto mentite spoglie, le spoglie di un lavoro filologico o di una biografia documentale…
La letteratura, invece, specie se non accompagnata da suffissi (di genere, o rosa, per esempio) è diventata di fatto una categoria qualitativa (e per i nostri contemporanei anche futurologica, visto che quando si ascrive alla categoria letteratura il tale libro, lo inserisce automaticamente nella storia della letteratura prima che il libro stesso sia stato storicizzato). La usiamo così come un confine con cui esercitarci per formulare giudizi perentori tipo: Bret Easton Ellis è letteratura, Alessandro D’Avenia non è letteratura.

D. Il suo romanzo descrive anche una Napoli ipotizzata/fantasticata come capitale mitteleuropea. Come le è venuta in mente? Che cosa pensa della Napoli letteraria contemporanea?

R. Beh, è qualcosa che si avvicina a un sentimento presente nella città. Deriva dalla storia, dalla preminenza in ambito culturale nell’Europa del Settecento e dalle numerose dominazioni che hanno insistito sul territorio. Ed è un sentimento, o una pretesa, che, confrontandosi con la Napoli contemporanea, assume spesso toni involontariamente comici.
Della Napoli letteraria contemporanea, invece, penso abbastanza male e qualche volta finisco per impelagarmi in annose polemiche in cui mi pento subito di essermi impelagato. D’altra parte, una città in cui la borghesia non ha mai saputo fare da guida nel senso migliore del termine, o anche solo essere una voce ascoltata, è condannata a una produzione culturale immatura, che trova la sua ragione o in una specie di missione salvifica da portare a termine, oppure nella comoda (da un punto di vista narrativo) riproposizione di una tradizione stracciona e decrepita, che dentro e fuori i confini della città continua a fare colore, ma che si conforma più che altro come tappezzeria culturale.

D. La morte apre e chiude una storia di amicizia, aspirazioni, scritture e divagazioni. Come se la narrazione dovesse confrontarsi sempre con il nocciolo duro dell’esistenza. Che cosa val la pena di raccontare oggi?

R. Più o meno le stesse cose che valeva la pena raccontare duemila anni fa. La morte, appunto. La vita. La debolezza degli uomini. Le sconfitte. Il dolore.

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