A inizio gennaio uscirà “È così che si uccide”, thriller d’esordio di Mirko Zilahy. Nell’attesa, su ilLibraio.it ospitiamo un reportage dello scrittore, che lavora nell’editoria e che in passato ha insegnato letteratura italiana in Irlanda. In cui si parla del fascino di Dublino e dei pub della città. E, soprattutto, di grandi autori e bei libri

Dall’alto i campi d’erba brillano ingialliti mentre il velivolo plana sull’aeroporto. Li scruto in cerca del verde smeraldo che ha reso celebre l’Isola, ma queste non sono le distese dell’ovest interrotte solo dal grigio dei muretti a secco. Non è la terra raccontata in The Dark, il capolavoro di John McGahern, la penna più fine e struggente d’Irlanda moderna.

Il bus per il centro di Dublino beccheggia come un grosso jumbo a due piani. Su O’Connell Street l’aria sa di pioggia fritta. A occhio e croce non è cambiato molto negli ultimi cinque anni. Il solito via vai, i marciapiedi umidi e il rumore morbido del traffico. Mentre attraverso il ponte, il vento inumidito dalla Liffey, che pochi metri più in basso sembra un letto d’ardesia, mi sbuffa in faccia. Riconosco quelle sensazioni già quotidiane, nessuna emozione, nessuna nostalgia. Mi avvicino alla mia università sicuro che stavolta non mi salverò da un tuffo al cuore. E invece, nemmeno un sussulto quando mi fermo a osservare il Front Gate del Trinity College. Penso con un sorriso a come Joyce, nonostante l’esilio volontario dalla sua città natale, continuò ad abitarla e a ripercorrerne con la memoria ogni metro, giorno dopo giorno.

College Green è mezza chiusa per lavori in corso. La Luas, il tram-astronave inaugurato nel 2004, sta per arrivare anche qui. Dublino oggi è una città moderna che ha sfruttato gli anni ruggenti della Tigre celtica per costruire infrastrutture e moltiplicare il benessere e che, dopo l’esplosione della bolla immobiliare alla fine del 2008, si sta rialzando alla grande. Una delle testimonianze letterarie più innovative e drammatiche degli effetti di quella crisi è Il cuore girevole di Donal Ryan: un omicidio nelle campagne dell’ovest, ventuno voci che si rincorrono per svelare il mistero della piccola ghost town fatta di villette a schiera disabitate, mini cattedrali nel deserto verde d’Irlanda.

Mi arrampico su Grafton Street e ritrovo la solita folla di gente che naviga tra i negozi e i pub e qualche gruppetto di buskers. Ho perso lo sguardo vergine e l’ingenuità del turista che si fa ammaliare dai trasognati luoghi comuni irlandesi: U2, reel, folletti, arpe e via dicendo. Ho smarrito quell’immaginario costruito a tavolino. Tiro dritto fino al parco di St. Stephen’s Green, supero lo shopping centre, poso il bagaglio nella stanza e finalmente riparto per il tour de force che mi aspetta.

Su Kildare Street le nuvole basse ovattano la sagoma circolare della National Library mentre al numero 30 una targa ovale mi ricorda che è in quell’edificio grigio che ha vissuto Bram Stoker, manager teatrale e autore di Dracula. Poche centinaia di metri più giù incontro un cartellone che racconta del . Perché questa è anche l’Irlanda cattolica che ha detto sì ai matrimoni gay con il verde, il bianco e l’arancione a fare da sfondo.

Sono in cerca di librerie di libri usati e di pub sconosciuti da aggiungere alla collezione personale. Mi affaccio da Ulysses su Duke street e occhieggio la solita prima edizione di Dracula, il cui prezzo è sempre più proibitivo. Frugo nella mente in cerca del posto in cui concedermi la prima pinta della giornata e ripenso a Leopold Bloom che nell’Ulisse si domanda se sia possibile attraversare Dublino senza incontrare un pub. Pare che un ricercatore dublinese abbia risolto l’arcano con un algoritmo e che appena pubblicata la soluzione qualcuno si sia sbrigato ad aprire un altro locale proprio sul passaggio indicato per restituire anche questa impossibilità al testo joyciano. Entro al Duke pub e salgo al primo piano, mi siedo vicino al camino, estraggo un tascabile delle favole di Wilde e lo accompagno con la prima scura di giornata. Slainte.

La seconda decido di berla in uno dei pochi pub non turistici della zona, il McDaids. Qui i vistosi addobbi natalizi avvolgono la specchiera dietro al bancone di mogano e corrono ad abbracciare le foto di uno dei frequentatori storici del pub, Brendan Behan. Bombarolo, imbianchino, commediografo (L’impiccato di domani, L’ostaggio), conversatore e bevitore incallito, autore di romanzi come Borstal Boy, pubblicato all’inizio degli anni Sessanta da Feltrinelli nella collana “Le comete”, scrittori tradotti da scrittori e tradotto da Luciano Bianciardi, da noi è ormai quasi dimenticato. Sotto una foto dell’uomo col cuore più grande d’Irlanda con una scura in mano, campeggia uno dei suoi motti più spassosi: «Bevo soltanto in due occasioni, quando ho sete e quando non ce l’ho».

Guardo l’orologio, manca un’ora all’appuntamento, e decido di fare un salto al Palace, un pub stretto e lungo rivestito di legno, dove negli anni Settanta veniva a leggere e a bere Flann O’ Brien. Giornalista satirico che ha narrato il genio e la miseria del suo popolo sulla colonna dell’Irish Times intitolata Il boccale traboccante, è stato autore di pochi romanzi-antiromanzi surreali come Una pinta d’inchiostro irlandese, Il terzo poliziotto e La miseria in bocca.

Nonostante la vicinanza al centro qui c’è già un’altra Dublino, lontana nel tempo ma ostinatamente persistente. A dirmelo sono le voci di Christie Moore e Shane McGowan che cantano Spancil Hill rammentandomi che i tempi dell’emigrazione verso America e Australia sono distanti nel tempo ma indelebili nella memoria di questa gente. E che ci sono cantautori come Demien Dempsey (Colony il suo grido anticolonialista) che hanno riannodato i fili di quelle emozioni popolari rilanciandole in questo secolo.

Seguo i passi e i consigli del mio professional drinker, a tempo perso traduttore di James Joyce, che incontro per farmi accompagnare alla scoperta dei pub dublinesi più nascosti e sconosciuti. L’aroma del fine settimana nelle prime cinque stazioni della nostra via cervisiae è lo stesso di sempre, birra e moquette, palline di naftalina negli orinatoi. Per strada ci accompagna la fragranza dell’aceto dei fish&chips. Ma quando alla fine arriviamo a Ringsend in cerca dello Yacht pub, l’odore della torba spunta dal nulla, nostalgico e rassicurante.

Il posto è com’era trenta o quarant’anni fa, ce lo dicono le foto sopra il bancone a baldacchino. Il silenzio dei venti locals all’interno è irreale, l’esatto contrario del frastuono di Temple Bar. L’opposto del nostro concetto di pub come luogo d’intrattenimento al pari del cinema, del teatro o simili. Questa è una casa pubblica, invece, il luogo d’elezione delle proprie cose, delle proprie esistenze, il posto migliore dove restare in attesa dell’inevitabile, chiacchierando piano, guardando oltre le griglie alle finestre l’acqua immobile del Grand Canal. Sulle pareti di quella che sembra una living room, con tanto di televisione muta che trasmette una inesorabile partita di golf, stoffe con motivi nautici sbiaditi. È tutto miniaturizzato, qui, a partire dal bagnetto fino ai pertugi che servono da salette, tutto ridotto alla misura di una tana, un posto dove ci si acquatta per ripararsi dalla vita esterna, reale, appunto.

Beviamo due scure a testa, in silenzio anche noi, derogando dalla regola che abbiamo dato alla serata di “una pinta per pub”. Fissiamo il televisore mentre la pallina bianca brilla sul prato verde del green e si perde in una pozza d’acqua tra le deboli imprecazioni del pubblico in sala. Scuotiamo lentamente il capo anche noi vinti dal placido torpore che regna in questo posto. Sono le undici e mezzo e la campanella annuncia l’ultimo giro, irrevocabile. Mi alzo diretto al bancone. «L’ultima», ci diciamo, mentre fuori la pioggerella scende polverizzandosi un istante prima di toccare il suolo.

L’AUTORE DEL REPORTAGE – Mirko Zilahy (Roma, classe ’74), ha vissuto nel quartiere di Montesacro fino al 1983 quando si è trasferito a Latina per seguire il lavoro del padre, nefrologo presso l’ospedale Santa Maria Goretti. Dopo il liceo classico, è tornato a Roma per l’Università Lingue e Letterature straniere, dove si è laureato, dopo aver gestito un pub, con una tesi su Dracula di Bram Stoker. Si è poi spostato in Irlanda per un dottorato di ricerca sullo scrittore Giorgio Manganelli. Al Trinity College di Dublino ha lavorato insegnando lingua e letteratura italiana. In seguito, al ritorno in Italia, ha lavorato per Fazi editore come redattore-aiuto editor della straniera nella casa editrice. Nel marzo 2014 è uscito nella sua traduzione Il Cardellino* di Donna Tartt per Rizzoli (premio Pulitzer). Il mese successivo è diventato editor della narrativa straniera di Minimum Fax, per cui ora collabora come consulente. È giornalista pubblicista e collabora con il Manifesto con recensioni letterarie. Oltre alla Tartt ha tradotto autori come Bram Stoker, Roger Boylan, Peter Murphy. È cultore di Letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia. Vive nelle vicinanze del grande Gazometro con la compagna e due figli. È appassionato di calcio, arti marziali, hard rock, birra scura e Irlanda. E il prossimo 4 gennaio sarà in libreria con Longanesi con il suo primo romanzo, È così che si uccide: sulla tavola ci sono tutti gli ingredienti di un thriller, quegli stessi ingredienti che ne hanno già fatto un piatto apprezzato a livello internazionale: una città oscura, che offre la sua faccia più torva, fatta di acciaio, ruggine e pioggia. Un assassino seriale metodico, imprendibile, di ferocia chirurgica. Un commissario di straordinaria umanità, affiancato da una squadra in cui spiccano donne di grande acume e sensibilità. Ma questa volta in cucina c’è Zilahy, che ha la capacità (letteraria) di farsi da parte e lasciare che siano i suoi personaggi – tre in particolare: il commissario Enrico Mancini, il killer senza nome e la città, Roma, anch’essa un personaggio vivo – a fare la storia. Zilahy la racconta mescolando i registri, l’alto e il basso, l’action accanto al misurato accostamento di lemmi selezionati con cura quasi ossessiva.

longanesi

Un thriller diverso dal solito, come avrete capito, quello che uscirà a gennaio. E questa riflessione scritta per ilLibraio.it lo dimostra…

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