Su ilLibraio.it un capitolo da “Piani di vita”, il nuovo romanzo di Alberto Garlini

Alberto Garlini, classe ’69, scrittore pubblicato anche in Francia (da Gallimard), curatore del festival Pordenonelegge (che torna dal 16 al 20 settembre, qui la nostra selezione degli incontri da non perdere), torna in libreria con il romanzo Pani di vita (Marsilio), in cui tre vite si incrociano in un condominio alla periferia di Treviso: Marco, sceneggiatore quarantenne, viene da Roma per vendere l’appartamento del padre defunto; Fatima, giovane donna reclusa in casa, immagina di riscattare la miseria della sua vita con sogni febbrili ed estemporanei; Achmet, marito di Fatima, licenziato dalla fabbrica, tampona a stento una disperazione sempre più evidente. Fatima è innamorata di Marco – o almeno immagina di esserlo -, Marco è gay e non sospetta nulla, Achmet crede che Marco abbia molestato Fatima…

Piani di vita

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, un estratto dal romanzo.

Sesto capitolo

Fatima è appoggiata spalle al muro nella penombra del corridoio. Quando sente rumori dalle scale, tiene stretta la mano sulla maniglia della porta. Stava per uscire? Stava per salire da Marco? Non lo sa. Non era sicura di farcela, cercava una voce interiore che la convincesse. La voce suadente di dio, o una robetta sciapa come nei supermercati le promotrici di ravioli. Le sarebbe andata bene qualunque cosa. Ma i passi sulle scale cambiano lo scenario. Chi sta arrivando? Che novità porta? Ne nascerà una giustificazione credibile da fornire a Achmet? O solo un effimero contrattempo? Quella mattina, dopo una notte insonne, Achmet sembrava pazzo. Aveva conficcato la mezzaluna sul tavolo. Voleva i soldi di Marco, fino all’ultima lira. Altrimenti avrebbe usato la lama per tagliare una gola. O due gole. O tre gole. O la sua stessa gola. L’onore perso doveva essere risarcito. La dignità ripristinata. Era un uomo, aveva i suoi diritti. E questi diritti erano stati lesi. Aveva mangiato un paio di biscotti intinti nel latte freddo, e era uscito. Non aveva detto dove andava, non lo diceva mai, ma era sicuramente diretto al bar Europa, a elemosinare dagli amici un Campari o un Fernet. Quando è in quelle condizioni, Fatima gli legge negli occhi il desiderio di bere e di giocare. Di annullarsi in un mondo dove nessuna angustia lo assale, dove non c’è conoscenza, solo smarrimento. Come dargli torto? Che mondo possiede? A quale mondo ha mai potuto aspirare? Un lavoro stupido, una paga da fame e, adesso, una moglie che lo tradisce.
Attraverso la menzogna, Fatima ha scoperto le opacità nascoste della luce. Non sa da dove ha rubato quella frase, forse è di un poeta. È perfetta. Con la menzogna, Fatima può aprire un nuovo mondo. Sfiorare l’assoluto, o morire in una pozza di sangue. La sua felicità dipende dalle scelte di un assassino. Ma Achmet è davvero un assassino?
Sarà capace di uccidere? E non è forse questa l’estrema conseguenza dell’amore? Se non uccide, non ama. È la prova definitiva. I soldi sono nulla: una mosca xontro la parete.
Oh dio, quanto le brucia il cuore. Fatima appoggia la guancia alla porta e guarda dallo spioncino chi passa per il pianerottolo. Sono due sikh, quello più alto ha baffi enormi, la pelle scura e gli occhi di brace. Li accompagna un ometto incravattato e un pesante odore di fritto, curry e spezie. Se comprassero l’appartamento, in una settimana l’aria sarebbe irrespirabile. Fatima dovrebbe convincere Achmet a cambiare casa. Convincerlo, certo, se è ancora viva al termine della giornata.
Ma la visita imprevista le dà tempo. Tempo per immaginare, tempo per piangere. A ogni minuto segue un altro minuto, e ogni minuto contiene un universo.

Esauriti i convenevoli sulla porta, i due sikh entrano dal signor Leoni. Fatima lascia lo spioncino e si dirige verso la culla di Youssuf. Il bambino è inerte, muto, con lo sguardo fisso nel vuoto. Fatima scuote la mano nella speranza di una reazione. Saluta, stringe, schiaffeggia l’aria. Ma il bambino continua a guardare davanti a sé, senza comprendere. Vorrebbe nutrirlo, come una madre fa col figlio, come la più vecchia storia del mondo. Svita il coperchio a un barattolo di omogeneizzati, intinge il cucchiaino. Apre ripetutamente la bocca per stimolare, come le hanno insegnato i medici, un comportamento imitativo. Avvicina il cucchiaio alla bocca di Youssuf che rimane serrata. È un ghigno irridente quella piega all’angolo della bocca? Fatima desiste dal tentativo, non ha nessun desiderio di nutrire il figlio. E non si vergogna nemmeno. Va in cucina e prende dal frigorifero il macinato di manzo. Toglie la carne dalla carta e la butta in un piatto.
Non è vino né sangue, ma è oscenamente rossa e sembra ribollire. Per riscaldarla, la appoggia sul termosifone. Si siede. Guarda il piatto, guarda la carne. Ha tutto il tempo che vuole. Fino a quando i sikh non usciranno è una donna libera. Youssuf piange, poi smette. Dopo una decina di minuti, Fatima tocca la carne con un dito. È tiepida. Il calore giusto. Guarda dallo spioncino che non ci sia nessuno, poi scende in cantina.

(continua in libreria…)

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