Ha rischiato la vita al Polo Nord, in Bosnia e in Somalia. Ha cercato di salvare il mondo e ha effettivamente salvato una bambina in Thailandia – acquistandola. Ha scritto storie d’amore ambientate all’inferno, romanzi storici con un tempo fuori sesto, algoritmi morali e saggi da dopo l’apocalisse ecologica in grado di far collassare le coordinate del nostro stare al mondo. La vita di William T. Vollmann è incredibile: ma non è nulla in confronto ai suoi libri. Sembra un mistico, un santo, o un pazzo; più semplicemente è lo scrittore che ha creduto di più nella letteratura come strumento di indagine del mondo, di azione sulla realtà, di sconfinamento nella visione, o propriamente di per sé… – L’approfondimento

Dare un’idea di William T. Vollman (1959) a chi già non lo conoscesse è impossibile. William T. Vollmann è simile a un buco nero, letterariamente parlando: più ti avvicini, più lo conosci, più rischi di caderci dentro e non poter più vedere nulla. Non che manchino i tentativi: c’è tutto un microgenere di ritrattistica che immancabilmente predica ai convertiti di un culto in cui per una volta vale la pena credere. Però la tesi di questo articolo, meglio mettere le mani avanti, è che la sostanza di William T. Vollman (al netto delle costanti: l’eclettismo, la grafomania, l’analisi del potere, quindi della violenza, quindi la protesta contro la morte, e l’etica, la visionarietà, ecc.) stia nella sua capacità di isolare dei nuclei dell’esperienza in un modo in cui l’esperienza, propriamente intesa, collassa.

A 9 anni, racconta in Rising up and Rising Down, doveva badare alla sorella di sei. Si è distratto e la sorella è annegata. Scrive (cita, in realtà, dalla lettera di una donna gentile): “Ho imparato il giorno in cui morì che ci sono ambiti della vita in cui la misura del senso e del non senso non si applica”. Da lì viene la sua voce.

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È una questione di progetto (di poetica, se solo non fosse un termine ammuffito nei manuali) e si trascina il corollario per cui non tutta la sua opera (sterminata, illeggibile nella sua interezza) sia oro colato; ma quando funziona (quando si avverte il click, per frasi, fasi, momenti) è indescrivibilmente potente, violenta e commovente (chiedere a quella signora, che, racconta Saviano, svenne a Ravello dopo la lettura di alcune sue pagine).

Semplificando – e di molto – si potrebbe mettere giù così: una generazione di scrittori americani tra gli anni Ottanta e i Novanta voleva lasciarsi alle spalle l’eredità del postmodernismo, superarlo (qualsiasi cosa significhi; e, vero o meno). Nello scontro contro questo postmodernismo percepito, Franzen se la prendeva con Mr.Difficult Gaddis, Wallace con Barth. A torto o a ragione, ne uscì fuori una dialettica: il postmodernismo fu accusato di essere autoreferenziale, onanista. Perso nelle proprie strutture instabili ed eccessive si dimenticava della realtà. Invece si voleva una letteratura che parlasse del mondo (la verità, se ne deduce, esiste), parlasse al mondo (mettendo al centro il lettore), per il mondo (che avesse uno scopo). Franzen sceglie un’opzione restaurativa ma ipercosciente; il romanzone sociale, riaggiornato sì, certo (quanto, in definitiva, dipende da quanto vi stia simpatico). Wallace, forte di un’intelligenza logico-scientifica, non voleva rinunciare alle tecniche da avanguardia e desiderava che la sua scrittura fosse un antidoto contro la solitudine, ingaggia una lotta con la realtà a colpi di cardiodi, di frattali, geometrie ricorsive e transfiniti cantoriani capaci di discriminare tra infiniti di ordine diverso.

Poi c’è Vollmann (ci sarebbe almeno anche Richard Powers, spesso dimenticato). Per dirla con il suo unico testo vagamente teorico (Scrittura americana oggi: una diagnosi della malattia, due pagine in tutto, di cui un elenco in sette punti), “dobbiamo conoscere il nostro argomento, trattarlo con lo stesso rispetto che l’Io deve all’Altro. Conoscerlo in ogni suo senso, finché gli occhi siano annebbiati dal vederlo, le orecchie fischino dal sentirlo, i muscoli brucino per l’abbracciarlo e le gonadi si infiammino dal farci l’amore (se suona pomposo, forse è perché indosso occhiali spessi)”.

A Vollmann non interessa né l’opzione-Franzen, né la geometria sofferta di Wallace. Vollmann fa saltare il tavolo, esplodere dialettica e tutte le categorie. Non c’è davvero un modo di spiegarlo meglio in due parole. Crea uno spazio in cui semplicemente le categorie opposte sono indistinte: razionale, irrazionale, vero, falso, buono, cattivo, reale e irreale, morte e vita, si scambiano continuamente di posizione (per fare un esempio più noto, quanto succede alla dialettica ironia/autenticità in Wallace, o, in Italia, quanto fa Siti con la sua vita, in Vollman è ovunque).

Crea un gorgo e ci finisce dentro. Si potrebbe pure dire che l’autore in carne e ossa William T. Vollmann è un personaggio di William T. Vollmann. Proviamo con degli esempi. Quando scrive che Ultime storie e altre storie è il suo ultimo libro ed eventuali altre opere a lui attribuite “sono composte da un fantasma”, sbaglia chi non gli crede, perché è precisamente il libro dove collassa la distinzione tra vita e morte e se ne attraversano i confini.

La prima distinzione a cadere è quella tra l’autore e la sua opera (per la critica più avvertita la sua grafomania e l’aneddotica da avventuriero hanno creato sì un culto, ma che alla lunga ha finito per nuocergli). Vollmann è veramente innamorato dell’Elena di Europe Central. In I Fucili (traduzione di Cristiana Mennella), il primo dei cinque testi che pubblicherà minimum fax mettendo una pezza alla sua certo non facile storia editoriale in Italia, salta la distinzione nel libro, tra l’oggetto dell’indagine storica – il Capitano Franklin, che morì cercando il passaggio a Nordovest nell’Artico – e il personaggio, il capitan Sottozero.

Il Capitan Sottozero, nell’oggi, si innamora disperatamente di Reepah, un’altrettanto disperata alcolista, ma è anche Franklin (un suo gemello sovrannaturale), con cui condivide Reepah, che a sua volta in qualche modo ascende a una forma di divinità archetipica, senza perdere una tacca di disperazione.

La maledizione di un desiderio impossibile (“se davvero volevi l’amore eterno, se volevi davvero trasformarti e dare e divorare senza tregua, allora posso quasi perdonarti perché l’amore è necessario quanto crudele”), è la stessa ricerca destinata al fallimento della spedizione Sir John Franklin. Su questo piano collassa l’ordine del tempo: i personaggi interagiscono e sono l’uno l’altro, come in una visione, in uno spazio-tempo ibrido che è sia il presente che il passato.

Insieme al tempo collassa la distinzione tra fatti e finzione, tra senso e non-senso (“Il mio obiettivo con i Sette Sogni era di creare una ‘storia simbolica’, ovverosia un racconto di origini e metamorfosi che spesso è falso, se rapportato ai fatti reali così come noi li conosciamo, ma la cui inesattezza disvela un più profondo senso della verità. Qui si cammina sul proverbiale filo del rasoio”), ma non la verità della violenza della colonizzazione, della distruzione della cultura inuit, degli spettri del passato che infestano il presente.

La cosa assurda e affascinante è che la stessa cosa succede nella realtà, che è del tutto subordinata al libro. Vollmann per essere anche il Capitano Franklin, o per capire cosa potesse provare (“ti sentivi sconcertato; quel centro delle cose non era come prevedevi. Andava tutto bene, ma non riuscivi a collocarti da nessuna parte. Tutto era sotto di te e nella direzione sbagliata”), è andato due settimane in una stazione metereologica abbandonata al Polo Nord. Ha rischiato di morire di freddo, l’hanno recuperato con gli elicotteri. (“ho pensato che avrei imparato qualcosa sulla solitudine e la paura”). Quando scrive “Certo, neanche Franklin, che sarei io, ha mai pensato in questi termini” (corsivo mio), come si fa a non credergli?, i suoi Sette Sogni per lui sono “simultaneamente Fiction e Non-Fiction”.

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La vita dell’autore noto in questo mondo come William il Cieco è quella di un personaggio scritto da se stesso. Infatti, l’accusano “è molto più interessante leggere di Vollmann che non leggere Vollmann”. Per You Bright and Risen Angels, ha vissuto settimane dormendo nel suo cubicolo di nascosto (lavorava come programmatore, peraltro non sapendone nulla), mangiando a colazione pranzo e cena merendine. Ventenne è partito per l’Afghanistan per salvare il mondo. Si tratta sempre di salvare il mondo, in realtà: in I Fucili, “Sottozero credeva che lo avesse fatto per amore, o forse per risolvere i problemi del mondo (cioè i problemi di Reepah), per risolverli esattamente come un’equazione differenziale, evitando nel frattempo la soluzione dei propri”; di Jimmy in Whores of Gloria, scrive “amavo quel bastardo. Avrebbe potuto salvare il mondo”. Dall’Afghanistan ha scritto Afghanistan Picture Show concludendone che tra la sua esperienza (da americano) e quella dei mujahaidin c’è una frattura incolmabile: loro stavano combattendo, mentre il Giovane Ragazzo che Sapeva Tutto no, e in più non sapeva niente (“Stavano realizzando lo scopo della loro vita in quegli infiniti momenti notturni di felicità prossimi alla morte”).

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Vollmann ha conservato questa specie di ingenuità, di candore abbacinante, e ne ha fatto un’arma: “Cerco solo di essere aperto, come un bambino, e così posso avere qualche chance di imparare davvero cosa sia la realtà”. Quando gli interessa qualcosa (poniamo: la violenza, il potere, l’amore) ci si infila dentro: a Mogadiscio ha preso fuoco. In Bosnia, durante la guerra, è stato vittima di un attentato; sono morti due suoi colleghi. Ha frequentato i bordelli del tenderloin di San Francisco e di mezza Asia (da cui la prostitute trilogy: storie d’amore ambientate all’inferno).

In una zona rurale della Thailandia, Vollmann ha rapito una prostituta bambina di 14 anni, Sukanja. Poi ha guidato fino a Bangkok per portarla al sicuro; per salvarla è andato dal padre nel nord (“non è particolarmente cattivo, solo un totale perdente”) e, tecnicamente l’ha comprata, con la ricevuta e tutto il resto, e ora ne è proprietario: alla Paris Review ha dichiarato che a Sukanja in realtà lui non piace particolarmente, invece ama molto la scuola.

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Voleva capire qualcosa sulla povertà ed è andato per il mondo a chiedere ai poveri cose tipo “Perché sei povero?”, “Definisci la povertà”, ritenendo moralmente opportuno pagarli (“Questa paragrafo mi è costato sette dollari”, ne è nato Poor People).

È saltato su treni in corsa a caso con gli hobo (Riding Toward Everywhere). Ha fatto uso di eroina, di crack (“Credo che direi che l’ho fatto” – e grazie a dio, se ha potuto scrivere, The Best Way to Smoke Crack, in The Atlas, pagine francamente incredibili).

L’FBI ha sospettato fosse Unabomber. Per capire qualcosa sul genere è diventato Dolores, travestendosi da donna, ha dichiarato – ecco come l’ingenuità diventa un’arma – “Finché non ho iniziato a fare cross-dressing non avevo idea di cosa significasse andare in giro di notte e avere paura. Questo è quanto affronta una grossa porzione della razza umana, e ora lo capisco”.

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Ha lavorato per più di vent’anni a un enorme saggio, 3352 pagine (Rising up and Rising Down), in cui si fa una domanda radicale: è possibile stabilire quando la violenza è giustificata e quando no? Si può fare un calcolo morale?

È lo scrittore che più ossessivamente, più coraggiosamente, ha guardato in faccia – facendoli, appunto, collassare  –  i punti ciechi della forma di vita occidentale, osservando con una libertà lancinante le sue dinamiche di potere: la violenza dell’uomo sull’uomo (Rising up and Rising down), di classe (Poor People), storica, etnica (con il ciclo dei Seven dreams o Afghanistan Picture Show), di genere (Kissing the Mask, The Book of Dolores, anche al netto di un certo suo machismo), la tragedia nei rapporti umani, con i suoi disperati che cercano la salvezza nell’amore delle prostitute anche se sanno che è futile, assurdo, falso, e anzi, proprio per questo. L’unica cosa che può salvare gli emarginati di Vollmann è credere disperatamente in qualcosa in cui non credono, come per tutti gli altri.

Ha scritto il libro più onesto (così, il The Atlantic) sul disastro climatico, Carbon ideologies, in due volumi, 1268 pagine, che ancora è un libro sulla violenza dell’uomo su se stesso, come specie, e sull’altro da sé, la natura: è onesto perché, detto tra i denti, Vollmann, con tutto il suo candore rifiuta ogni speranza “non si può fare niente per salvare il mondo; quindi, non è necessario fare niente”, è interessato alle conseguenze morali di un fatto già compiuto (qual è, per dire, la dissociazione, la cecità o la forma di disperazione di una specie che sta contribuendo alla fine della vita per come la conosce?, quanto esserne coscienti, e rimuoverlo, svuota di senso l’esperienza?) Naturalmente è partito per la zona radioattiva di Fukushima, portandosi di nascosto un contatore Geiger (ha passato i controlli in aeroporto perché non avevano idea di cosa fosse).

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Foto di William T. Vollmann, da Imperial (via)

Sembra un mistico, un santo, o un pazzo; più semplicemente è lo scrittore che ha creduto di più nella letteratura come strumento di indagine del mondo, di azione sulla realtà, di sconfinamento nella visione, o propriamente di per sé. Ora, che minimum fax pubblicherà cinque suoi libri (Fucili, The Butterfly Stories, I Racconti dell’Arcobaleno, Afghanistan Picture Show, La camicia di ghiaccio) va benissimo leggerlo, ma sembra anche moralmente giusto credere in lui. E, quindi, Vollmann è un fantasma, è Dolores, è ancora il bambino davanti a quel lago, e lo scheletro nei suoi incubi; è il Capitano Franklin con la sua ricerca maledetta, ed è distillato dentro i suoi tossici e le sue prostitute, in cerca di salvezza, di distruzione o di oblio, oppure già santi; è l’inuit a contatto coi fucili e un insetto in rivolta contro l’elettricità; è il giornalista sieropositivo che vaga per la Thailandia e la Cambogia degli khmer (non ha l’AIDS, ma quanto pare i suoi genitori gli scrissero disperati, un’ex ragazza terrorizzata), ed è il ragazzino che voleva salvare il mondo. Non è impossibile che alla fine, se ci si crede, dopo tutti questi anni, e dopo tutte queste pagine, ci possa anche riuscire.

© Immagine di Copertina: William T. Vollmann

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