Primo Levi non è stato solo l’autore di “Se questo è un uomo”, il libro definitivo sull’Olocausto. E lo dimostra il nuovo, sentito e ampio saggio di Marco Belpoliti

Marco Belpoliti, saggista e scrittore, ha curato le opere di Primo Levi e pubblicato diversi libri. In libreria per Guanda arriva Primo Levi. Di fronte e di profilo, un ampio volume – definitivo – dedicato all’autore di Se questo è un uomo. Su ilLibraio.it (per gentile concessione di Guanda) proponiamo l’introduzione, dove si spiega perché e come è stato scritto questo libro nel corso del tempo.

Primo Levi di fronte e di profilo Marco Belpoliti

La prima volta che ho sentito parlare di Primo Levi fu all’inizio degli anni Settanta, a scuola. Il mio insegnante d’italiano era stato deportato in Germania in quanto giovane militare di leva. Non aveva giurato fe­deltà alla Repubblica di Salò e non era entrato nel suo esercito, perciò fu caricato su un vagone merci e portato in un Lager. Mi parlò del libro, Se questo è un uomo, e del suo autore: poche parole ma efficaci. Tuttavia lo comprai solo dopo qualche tempo.

Il mio insegnante, all’epoca studente di Lettere, aveva nello zaino una copia della Divina Commedia. Nel campo dove era internato la leg­geva ad alta voce la sera. Così aveva imparato a memoria le tre cantiche; la stessa cosa chiedeva a noi, seppur in misura minore: mandare a mente alcuni canti dell’Inferno. Eravamo subito dopo il Sessantotto e sull’im­parare a memoria era caduto il discredito.

In questo modo Primo Levi è entrato nel mio orizzonte di lettore insieme all’altro autore, Dante, così importante per lui, anche se allora non lo sapevo ancora. Il terzo autore che conobbi in quel periodo, sem­pre grazie al mio docente, fu Cesare Pavese; su suo consiglio comprai i volumi grigi di un’edizione di Einaudi. Pavese era allora di moda tra gli studenti liceali, mentre di Levi non si parlava molto. Dovevano perciò passare parecchi anni prima che cominciassi a occuparmi di lui.

L’edizione che acquistai era uscita nel 1974, numero due della collana «Nuovi Coralli»; recava in copertina, dentro un doppio quadrato azzur­ro e arancione, il dettaglio di una foto di alcuni deportati con l’abito a righe. Su questa copia ho poi studiato ventuno anni dopo riempiendola di segni a matita e penna.

Nel frattempo avevo cominciato a leggere le sue opere. Nel 1975 comprai Il sistema periodico e tre anni dopo La chiave a stella. Il primo non lo capii subito, mentre il secondo mi parve più interessante. Era­vamo in un’epoca in cui la discussione intorno al lavoro alienato aveva raggiunto anche gli studenti della scuola media superiore. Abitavo in una città di provincia, che tuttavia aveva diverse fabbriche metalmecca­niche, un forte Partito comunista e una realtà culturale molto viva. Di lavoro allora si discuteva parecchio.

La frequentazione di Levi è andata avanti così da semplice lettore, per parecchi anni, attraverso l’uscita dei libri, le discussioni sui giornali, gli scambi d’idee con amici. A poco a poco era diventato un autore con­sueto. Avevo letto anche La tregua e i libri di racconti, ma la sua figura era rimasta sullo sfondo, superata da scrittori in quegli anni in apparen­za più vivi e contemporanei: Calvino, Sciascia, Pasolini. Erano loro che occupavano la scena letteraria insieme a Moravia, Morante, Volponi. Levi sembrava, o almeno così credevo, un autore necessario, ma non decisivo. Meno immediato, nonostante il tema del Lager. Non avevo infatti vissuto i drammi della deportazione e della guerra, essendo nato nove anni dopo la fine del conflitto appartenevo a una generazione che lo aveva dietro le spalle; si guardava al Vietnam. Anche il tema dell’an­tifascismo si coniugava in quel periodo più con le lotte studentesche e operaie che non con il ricordo dei campi di sterminio. Levi non era facile da capire, almeno per un ragazzo come me.

Certo la lettura del suo primo libro era stata un colpo molto for­te, ma Levi non era uno dei protagonisti della discussione quotidiana dell’epoca. Non era entrato nel dibattito sull’aborto, sulle libertà civili, la politica, la società dei consumi, la mutazione antropologica. La sua voce sembrava arrivare con meno forza di altre.

Sono stati due libri successivi a orientarmi decisamente verso di lui. Alla metà degli anni Ottanta, dopo essermi laureato, avevo cominciato a cambiare il mio orizzonte d’interessi. Il primo è stato L’altrui mestiere, tro­vato sullo scaffale di un amico, che lo aveva letto e chiosato con attenzio­ne. L’ebbi in prestito e non glielo restituii più. Mi catturò subito. Conte­neva temi e questioni inaspettati dell’autore del libro sul Lager: articoli di linguistica, antropologia, sociologia, etologia; scritti in forma accattivante e comprensibile, e con grande competenza. Testi che entravano in modo non deliberato nel dibattito allora acceso sulla complessità.

Avevo cominciato a occuparmi di Italo Calvino, del rapporto tra let­teratura e scienza, e tra il mondo visivo (arte, percezione, colore, for­ma) e letteratura. Con quel libro di Levi in mano scoprivo un orizzonte che non conoscevo, un territorio che mi attraeva. A colpirmi erano la passione e la curiosità per il mondo intorno a noi, una microstoria del contemporaneo, in un autore che avevo incontrato come accusatore del fascismo e del nazismo. L’altrui mestiere aveva spostato il mio interesse verso di lui in una forma diversa.

L’altro libro che piombò con una forza deflagrante nel mio universo di lettore fu I sommersi e i salvati. Arrivò come un uragano a spazzare via le ultime idee e luoghi comuni che pure si erano incrostati nell’arco degli anni nella lettura di Levi. Libro durissimo, e insieme ricco di sot­tigliezze e riflessioni, mi scosse più dei precedenti. Tuttavia ancora non mi era chiaro chi fosse Primo Levi, che tipo di scrittore, o intellettuale. L’anno seguente il suo suicidio fu un altro duro colpo. Perché l’aveva fatto? Il Lager lo aveva infine vinto?

Cominciai a rileggerlo; una rilettura che in modo discontinuo durò oltre un decennio, con riprese e abbandoni, perché intanto andavo scri­vendo di altri autori e altri libri, e persino qualche volume di narrativa. Non so dire quando è stato il momento preciso in cui è maturata l’in­tenzione di studiarlo a fondo, d’accostarmi alla sua opera con un atteg­giamento che non era più solo quello del lettore ammirato.

Probabilmente fu grazie al lavoro avviato con la rivista «Riga», all’inizio degli anni Novanta, che cominciai a pensare a qualcosa di più articolato sulla sua opera letteraria, oltre che sulla figura del testimone. La ragione fu proprio quella: Levi non era solo il testimone dello ster­minio ebraico, tema centrale nella lettura di quel periodo, ma anche e soprattutto uno scrittore unico e straordinario.

All’inizio degli anni Ottanta erano andate in crisi le ideologie po­litiche dominanti nei venti anni precedenti. Per molti, e anche per me, quello era stato un momento liberatorio dalle idee acquisite e so­prattutto dal conformismo, anche di sinistra, che aveva dominato in vari modi e con differenti formule nel corso dei miei anni universitari – compresa l’estrema sinistra e la deriva terrorista che ne era seguita. Nasceva allora in contemporanea una nuova attenzione alla cultura ebraica, quella della diaspora, come elemento in cui riconoscere la nostra stessa situazione di esodo, d’uscita dall’Egitto ideologico del Novecento, per approdare a nuove visioni del mondo nella letteratura e nella cultura in generale.

Tutto questo mi aveva consentito di guardare a Levi come a un intel­lettuale e scrittore diverso dagli altri, davvero unico. Il suo essere rima­sto, nonostante tutto, in disparte nel corso dei decenni appena trascorsi diventava ora un elemento prezioso. Così la lettura delle sue opere da quel momento si orientò su un versante differente. Scoprivo in lui, per molti tratti uno scrittore dell’Ottocento, le tracce di un inatteso post­modernismo, che pure gli era estraneo e distante. Mi colpivano il suo uso della parodia, il rifacimento, la citazione, il continuo riutilizzo della letteratura del passato, con chiavi sempre diverse; e questo non solo nel­le opere letterarie meno note, come i racconti fantascientifici, ma anche nelle opere maggiori e persino nei libri testimoniali.

Perciò cominciai a pensare a un numero speciale di «Riga» dedicato a lui e alla sua opera. Ne parlai con amici e collaboratori della rivista che realizzavo insieme a Elio Grazioli, e trovai subito risposte positive, e soprattutto un atteggiamento simile al mio. Era quasi una sincronia: un’intera generazione di lettori, diventati scrittori e saggisti, era tornata a interrogarsi su Levi e sul suo percorso di scrittore con quesiti e sensi­bilità del tutto nuove.

Di lì a breve misi insieme un gruppo di possibili autori del volume. Nel contempo frequentavo Torino e la casa editrice Einaudi, dove stavo per pubblicare un libro dedicato a Calvino. Nel corso di un biennio nelle giornate torinesi cominciai a parlare del mio progetto leviano con Paolo Fossati, uno dei redattori storici dell’Einaudi. Fu lui a mettermi in contatto con Ernesto Ferrero, a chiedermi di spiegare le mie idee su Levi, autore di cui Ferrero era stato, nei suoi ultimi anni, uno degli editor.

Avevo raccolto nel frattempo scritti sparsi, interviste, saggi, racconti, un materiale che non era entrato in nessuno dei libri di Levi, che mi aiutava a capire quali erano state le linee di forza del suo lavoro e anche il suo laboratorio di scrittura. La scoperta, fatta qualche anno addietro, della diversità tra l’edizione del 1947 e quella del 1958 di Se questo è un uomo era stata fondamentale. Levi, il testimone per eccellenza, era, almeno dal punto di vista letterario, un autore sconosciuto persino agli studiosi di letteratura. Mi rendevo conto, sfogliando vecchie riviste e giornali, che non era stato riconosciuto come scrittore se non molto tar­di, all’inizio degli anni Ottanta, nonostante la sua crescente popolarità di autore, i premi letterari vinti e il ruolo di testimone dello sterminio e dei Lager.

Spesso gli autori vengono studiati e letti fuori dalla cornice storica in cui sono vissuti e hanno operato; quando questo accade significa che hanno raggiunto la statura di «classici», che si leggono senza nulla per­dere anche fuori dal loro tempo e che trasmettono valori e idee, oltre che piacere, alle generazioni successive. Levi era arrivato a quel punto, ma proprio perché la sua opera era nel tempo e per il tempo, mi era di­ventato chiaro che non poteva che essere studiato dentro la sua epoca. Cercavo però di capire come ne era «uscito» proponendosi come uno scrittore per tutti.

Discutevo di questo con i collaboratori del numero di «Riga» a lui dedicato, e scoprivo man mano lati in ombra della sua opera. Mario

Porro, l’amico cui avevo sottratto L’altrui mestiere, l’aveva studiato nei suoi rapporti con la scienza e la tecnica; Stefano Bartezzaghi mi mostra­va invece un Levi giocatore con le parole di cui non mi ero, nonostante le tante letture, quasi accorto. Come spesso capita in queste relazioni intellettuali, non saprei dire quanto mi derivi da loro o quanto io abbia influenzato la loro lettura. La cultura procede per osmosi, e così è stato anche in questo caso.

L’ho fatta lunga per arrivare a raccontare come sono giunto a occu­parmi della nuova edizione delle Opere di Levi uscita nel 1997 su spinta di Fossati e Ferrero, dopo aver lavorato con il gruppo dei collaboratori di «Riga»: Robert Gordon, giovane studioso inglese, Alberto Cavaglion, preziosa guida torinese, già ben addentro ai testi leviani, poi Paola Vala­brega, Domenico Scarpa e Gian Paolo Biasin, che ne aveva scritto sulla sponda americana, lui di una generazione più vecchia della mia.

Dal laboratorio delle Opere, che è durato circa un anno, sono scatu­riti una serie di altri studi e saggi, e poi la pubblicazione di altri libri di Levi nelle edizioni economiche, in particolare Conversazioni e interviste, libro molto importante per me nella ricostruzione delle idee e del suo lavoro negli anni che vanno dal 1963 al 1987.

Sono vent’anni di una lunga fedeltà, se così la posso chiamare, in cui il mio rapporto con questo autore ha conosciuto alti e bassi, slanci e al­lontanamenti, perché Primo Levi, al di là della vulgata che lo semplifica e lo riduce sovente a un santino, è uno scrittore complesso e impervio, che contiene molteplici aspetti spesso non immediatamente visibili. Mi è capitato in varie occasioni di paragonarlo a un poliedro dalle molte facce, per cui, mentre se ne mette in luce una, ne restano in ombra altre, e non meno importanti. Se si prova a elencare in modo sommario solo alcune di queste facce, bisogna parlare di lui come di un testimone e insieme di uno scrittore, del chimico e del linguista, dell’etologo e dell’antropologo; poi ci sono le facce del diarista e dello scrittore au­tobiografico, del narratore orale, dello scrittore politico, dello scrittore ebraico, dell’autore italiano e di quello piemontese; e ancora ci sono: il poeta, l’autore di racconti e quello di romanzi e di aforismi.

Non si finisce mai di trovare nuove facce del suo poliedro, anche perché, per estendere la metafora, a differenza di altri autori bidimen­sionali Levi è uno scrittore a tre, o forse persino a quattro dimensioni. Tutto questo si coniuga con una figura di uomo dall’aspetto quasi di­messo, uno che non si erge mai a profeta o a leader, che non provoca, non alza la voce, ma ripete con il suo tono moderato, e con gesti peda­gogici, da buon maestro di scuola del tempo che fu, verità importanti

(continua in libreria…)

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