Francesca Scotti crede nel valore dei libri “come talismani” e con il suo nuovo romanzo, “Ellissi”, decide di raccontare l’adolescenza attraverso due ragazzine che non mangiano più, per controllare il corpo, e opporsi alla crescita. In un’intervista a ilLibraio.it, l’autrice parla del rapporto con il corpo, dell’incidenza che hanno social network e media su di noi, di letteratura femminile e anche del Giappone, paese che ama molto

Francesca Scotti, autrice milanese che ha esordito con la raccolta di racconti Qualcosa di simile (Italic), per poi passare ai romanzi con L’origine della distanza (Terre di Mezzo Editore) e Il cuore inesperto (Elliot), è tornata in libreria con Ellissi (Bompiani), dedicato all’adolescenza e al rifiuto di crescere.


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Le due protagoniste, le quindicenni Erica e Vanessa, decidono di non mangiare più e che per questo motivo vengono mandate a Villa Flora, una struttura per curare i disturbi alimentari. Lì incontreranno altre persone che condividono il loro disturbo, tra cui Lorenza, una donna incinta, e un ragazzo, Diego.

Francesca Scotti

Francesca Scotti si è raccontata con ilLibraio.it e ha parlato del suo nuovo libro e del suo rapporto con la scrittura:

Perché ha deciso di affrontare il tema dei disturbi dell’alimentazione con un romanzo?
“Volevo descrivere il momento dell’adolescenza, a partire proprio dal cambiamento repentino del corpo, che spesso è anche spaventoso e traumatico. Il cibo – e il suo rifiuto – mi è subito sembrato uno strumento valido per raccontare la difficoltà della crescita. D’altronde è una via già molto battuta per comunicare, ed Erica e Vanessa decidono di trasmettere così un disagio. Mi farebbe piacere se il mio libro, nato per un pubblico adulto, potesse anche interessare dei lettori un po’ più giovani, che hanno passato da poco l’adolescenza o la stanno vivendo, perché credo nel valore dei libri come talismani”.

Ultimamente il tema del cibo e del suo rifiuto per esercitare controllo sul proprio corpo sta suscitando un certo interesse, per lo meno tra le autrici che vogliono raccontare storie di disagio femminile. Pensiamo, tra le altre opere, a La Vegetariana di Han Kang e a Il corpo che vorresti di Alexandra Kleeman…
“La Vegetariana esprime molto bene un’ottica orientale nei confronti del cibo e la protagonista decide di smettere di mangiare carne – e poi proprio di alimentarsi – in una ricerca del piacere e di se stessa che la porta a desiderare di essere un vegetale. Erica e Vanessa, invece, vorrebbero diventare libellule: nei momenti di difficoltà si vorrebbe essere ‘altro’ pur di non soffrire. In entrambi i romanzi, l’astensione dal cibo fa sentire le protagoniste onnipotenti”.

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Parlando di Oriente, lei trascorre lunghi periodi in Giappone: la cultura nipponica e la tradizione culinaria locale hanno in qualche modo influenzato l’opera, ma anche la sua concezione di alimentazione?
“In Giappone c’è un grande controllo sul cibo, che ha anche un valore estetico grandissimo. Tuttavia anche lì i pasti sono un momento di condivisione e comunicazione sociale. Per me è stato come affidarmi a uno sconosciuto ma, allo stesso tempo, trovare un terreno sicuro (anche per chi come me ha alcune intolleranze): nonostante la differenza linguistica, fisica e anche culturale con i giapponesi, ho usato la cucina come territorio di indagine”.

Le giovani protagoniste del suo romanzo spesso fanno riferimento alla fase della crisalide, un momento di passività e immobilità assoluto, attraverso cui le larve passano prima di diventare insetti con le ali. E infatti le due ragazzine si muovono in relazione ai desideri altrui, senza considerare i propri, anche nelle loro prime esperienze sessuali…
“Per loro il sesso non è legato al desiderio, diventano degli oggetti per guadagnare valore per l’altro. Non ci sono desideri che si incontrano, ma corpi che non vengono ascoltati. La loro paralisi nasce dalla paura, la passività è una scelta che va a contrapporsi con quello che accade per natura. Sono due ragazze che non vogliono crescere e diventare donne, ne sono spaventate”.

Nel romanzo c’è un personaggio maschile, Diego, ospite di Villa Flora. Anche i ragazzi sono colpiti dai disturbi dell’alimentazione, ma non se ne parla spesso. Come mai ha deciso di raccontare anche questo aspetto nel suo romanzo?
“Mi interessava raccontare quello che accade agli adolescenti, il percorso che li porta a crescere. Il rifiuto del corpo è un’esperienza anche maschile, che spesso ha a che fare con l’identità di genere. Ci troviamo in un periodo in cui si è sollecitati a ricercare la bellezza e in cui anche gli uomini sono parte di questo fenomeno: esistono prodotti di cosmetica maschili  e sentono anche loro le imposizione mode. In Giappone è un fatto ormai consolidato: ci sono perfino centri estetici per l’epilazione permanente della barba”.

Anche la sovraesposizione sui social influisce sulla percezione che si ha del proprio corpo, in particolare per quanto riguarda gli adolescenti?
“Sicuramente il mondo dei social è abbastanza inquietante, per tutte le età. Mi sembra ci sia un paradosso di fondo, perché si vanno a perdere il pudore e la privacy  per scelta, pur sapendo quali sono i rischi della sovraesposizione. Il giudizio pubblico può essere feroce: non  a caso i famosi spesso si avvalgono di un social media manager. E poi, il limare e cambiare quasi i propri connotati con filtri e strumenti per l’editing delle fotografie è abbastanza estraniante: alla fine quello che mostri non sei tu. Immagino che questo generi una sorta di dolore. Infine, bisogna ricordare che il tempo che si perde sui social non lo si recupera più”.


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Parliamo ora dello stile di Ellissi: pulito, semplice, senza drammatizzazioni nonostante il tema. Come si relaziona alle storie e come le scrive?
“Lavoro tanto di sottrazione, in genere scrivo delle ‘gettate’ che poi limo. Faccio affidamento a degli snodi importanti, sto attenta a non eccedere in poeticità e poi rileggo tanto, anche ad alta voce. E mi faccio aiutare da lettori che leggono per me: ascoltare una voce diversa dalla mia mi aiuta a sentire meglio come funziona la storia. Infine diffido delle parti troppo belle, poetiche: anche se mi dispiace, le butto. Quando si racconta una storia, ci si deve mettere al suo servizio”.

Da lettrice, invece, quali sono le opere e gli autori che ha apprezzato di più?
“Sono una lettrice onnivora: scrivo da solo cinque anni, ma  leggo da quando ho imparato come si fa. Ultimamente ho apprezzato La Vegetariana, di cui abbiamo già parlato. Come autrici, invece, sento molto vicine Elizabeth Strout e Alice Munro. Leggo anche molta letteratura per adolescenti e libri per bambini”.

Ha citato autrici donne e ‘letteratura di genere’, opere che da alcuni lettori, ma non solo, sono identificate come letteratura ‘minore’. Cosa pensa di queste distinzioni?
“Secondo me tutta la letteratura ha una funzione benefica, l’importante è che l’intenzione dell’opera sia palese. Ci sono libri nati con lo scopo di divertire che sono di ottima qualità. Personalmente non pratico questo snobismo e anzi non vedo niente di male nel decidere di leggere quello di cui si ha voglia, a prescindere dal genere letterario”.

Per quanto riguarda, invece, il tema delle scrittrici donne e delle loro opere, le è mai capitato di sentirsi meno stimata di un collega o di venire etichettata come un’autrice che scrive storie ‘al femminile’?
“Non ho vissuto sulla mia pelle la prima esperienza citata, ma è difficile che un mio libro venga preso per un’opera scritta da un uomo. Mi capita di sentirmi chiedere se c’è un valore diverso tra un libro di un uomo e quello di una donna, della cosiddetta letteratura femminile. Per me prima di tutto bisogna definire il valore della buona letteratura”.


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