“La Russia è un paese che cambia di aspetto, è stata autocratica, poi rivoluzionaria e adesso vive degli eccessi di capitalismo, ma la sua anima non cambia mai”: Jan Brokken, scrittore olandese diventato celebre con il reportage “Anime baltiche”, racconta a ilLibraio.it i suoi ultimi libri “Bagliori a San Pietroburgo” e “Il giardino dei cosacchi” e il suo rapporto con Dostoevskij e la cultura russa – L’intervista

Jan Brokken, scrittore e giornalista olandese pubblicato in Italia da Iperborea, è conosciuto e apprezzato nel nostro paese per il reportage narrativo Anime Baltiche, ambientato tra Estonia, Lettonia e Lituania; tuttavia uno dei suoi interessi maggiori è la cultura russa, come si può facilmente scoprire accostandosi al resto della sua opera. Il primo romanzo dell’autore pubblicato da Iperborea, infatti, è Nella casa del pianista, in cui Brokken racconta l’avventura esistenziale e artistica del suo amico fraterno Youri Egorov, musicista costretto per la sua omosessualità a fuggire da Kazan ad Amsterdam. A questi due testi seguono Il giardino dei cosacchi, romanzo sugli anni in Siberia di Dostoevskij, e Bagliori a San Pietroburgo, reportage pubblicato nell’estate 2017, per struttura simile ad Anime Baltiche, in cui l’autore perdendosi fra le strade della città degli Zar racconta i suoi artisti, musicisti e scrittori.

Con Il giardino dei cosacchi, Jan Brokken affronta l’amicizia tra Dostoevskij e il barone Alexander von Wrangel, con cui lo scrittore ha condiviso l’ultimo periodo siberiano, quello della coscrizione obbligatoria a seguito dei quattro durissimi anni in un campo di prigionia. Nel romanzo si trovano però già in nuce alcuni argomenti che Brokken svilupperà più approfonditamente in Bagliori a San Pietroburgo, come il difficile rapporto tra intellettuali e potere, che sempre ha caratterizzato la storia russa, e la riflessione su cosa sia, in effetti, la vera anima della Russia.

Abbiamo incontrato Jan Brokken a Milano per parlare con lui di Russia, letteratura, e di questi due libri, così profondamente intrecciati nelle tematiche.

Nella lettura di Bagliori a San Pietroburgo la prima cosa che si percepisce è un amore molto personale per la cultura russa, un sentito autobiografismo. Com’è nato questo interesse?
“Per circa vent’anni della mia vita, tra i dieci e i trenta, sono stato molto malato. Si trattava di una malattia allergica molto grave, al punto che per un certo periodo non ero neanche più in grado di vedere, riuscivo solamente a percepire la differenza tra luce e oscurità. È stato allora che mia madre, che aveva origini russe, ha cominciato a leggermi dei libri per alleviare la mia noia: il primo è stato La figlia del capitano, di Puškin, e poi i racconti di Čechov, Anna Karenina e Guerra e pace di Tolstoj, e il Il dottor Živago [di Boris Pasternak N.d.A.]”.

Bagliori a San Pietroburgo di Jan Brokken

In Bagliori a San Pietroburgo lei descrive due viaggi: uno avvenuto nel 1975 e uno più recente che aveva come scopo la raccolta di informazioni per scrivere il suo romanzo su Dostoevskij, Il giardino dei cosacchi. Com’è nata l’idea di scrivere una sorta di reportage narrativo e personale su San Pietroburgo?
“In modo del tutto naturale. Non sono partito con l’idea di scrivere un libro su San Pietroburgo, ero lì, appunto, per le ricerche su Dostoevskij, ma nel frattempo ho cominciato ad annotare delle cose, delle impressioni. Per esempio, ho assistito a questa scena: era un sabato pomeriggio di febbraio e in un parco avevo visto delle coppie anziane che danzavano tango e cha cha cha con addosso dei mantelli di lana, e guardandoli ho pensato a un racconto di Nina Berberova e ho preso degli appunti a proposito. Poi sono tornato a casa e, quando è uscito il Giardino dei cosacchi, ho cominciato a mettere in ordine questi appunti, diciamo che ho scritto all’incirca centoventi pagine. E in quel periodo l’editor con cui lavoro di solito mi ha chiesto se stessi lavorando a qualcosa e così glieli ho fatti leggere. Lui generalmente è molto lento, devo sempre aspettare tra le due e le sei settimane, ma quella volta mi ha chiamato dopo tre giorni e mi ha detto: ‘Spero che andrai avanti a mettere a posto questi appunti’. E così ho cominciato a scrivere il libro”. 

Che cambiamenti ha visto in San Pietroburgo dagli anni Settanta a oggi?
“Nel 1975 ho ritrovato del tutto la Pietroburgo del Diciannovesimo Secolo. Per fare un esempio: una volta sono andato a vedere una rappresentazione del Lago dei cigni al Teatro Mariinskij, che in quegli anni si chiamava Kirov, e nonostante si fosse in periodo comunista, in sala si respirava la stessa atmosfera del Diciannovesimo Secolo. Invece adesso si assiste a scene profondamente influenzate dalla cultura capitalista, donne che arrivano indossando mantelli di pelliccia e scarpe con tacchi alti così, anche la Prospettiva Nevskij è diventata terribile, e penso che questa non sia la vera Russia”.

Quindi la città non riflette più lo spirito degli artisti di cui parla In bagliori a San Pietroburgo?
“No, c’è un capitalismo volgare. Lo descrivo nel libro quando racconto di quando sono andato alla Cattedrale di Isacco ad ascoltare i Vespri di Rachmaninov, e intorno a me c’erano queste donne tutte con il cellulare in mano, che filmavano il concerto o addirittura stavano al telefono a parlare dei loro problemi amorosi. Ma d’altro canto, quando ho avuto problemi a trovare i biglietti, ho ricevuto aiuto dalla ragazza che lavorava alla reception del mio hotel, che ha telefonato ovunque pur di trovarmi dei posti. Ci è riuscita e quando l’ho ringraziata mi ha detto: ‘Sono io che la devo ringraziare, per il suo interesse per il nostro compositore e la nostra musica’. E questa è una cosa molto russa. Insomma, la vera Russia c’è sempre: la Russia è un paese che cambia di aspetto, è stata autocratica, poi rivoluzionaria e adesso vive degli eccessi di capitalismo, ma la sua anima non cambia mai”. 

Molti degli autori e degli artisti di cui parla in Bagliori a San Pietroburgo sono dei perseguitati politici che hanno dovuto lasciare il paese. E tuttavia continuano a distanza ad amare la stessa Russia che li ha cacciati. Com’è possibile questa scissione così netta tra Stato e anima del paese, che sembra essere rimasto lo stesso sia sotto gli Zar, sia sotto Stalin, sia oggi con Putin?
“Questa cosa succede perché in Russia non c’è mai stata la democrazia, non c’è mai stata una stampa libera o una televisione libera. Ma a questo c’è anche sempre stata una controparte: ci sono sempre stati degli scrittori e dei giornalisti con delle grandi qualità. Per esempio Svetlana Aleksievič, che ha vinto il Premio Nobel, e il cui libro più importante, Il tempo di seconda mano, è tanto grande quanto i libri di Dostoevskij. Insomma in Russia l’opposizione al potere è sempre avvenuta attraverso la poesia, la letteratura, la musica, il teatro e così via”.

Il giardino dei cosacchi romanzo su Dostoevskij

In Bagliori a San Pietroburgo si percepisce sempre, di sottofondo, un discorso politico. Parla di letteratura, di arte, di musica e di cinema, ma la politica fa sempre capolino sullo sfondo. Ogni esperienza artistica, nella Russia dell’Ottocento come in quella odierna, è un’esperienza politica?
“Sicuramente. Ma per compiere questa lotta gli artisti devono costantemente andare a fondo delle cose. Non possono raccontare le cose in modo superficiale, e direi che è stato così a partire da Dostoevskij. Dostoevskij è stato esiliato in Siberia per dieci anni, e prima condannato a morte per le sue idee [lo scrittore viene graziato dallo zar Nicola I un attimo prima della fucilazione, quando già si trovava davanti al plotone d’esecuzione N.d.A.]. Quando è stato condannato aveva ventotto anni e pubblicato [tra le altre cose N.d.A.] Povera gente e Le notti bianche, che avevano avuto molto successo. Lo hanno arrestato perché faceva parte di un gruppo di nobili politicizzati che si ritrovavano per discutere del futuro della Russia. E anni dopo si trovava ancora in Siberia, senza avere il diritto di pubblicare i suoi libri. È incredibile come abbia potuto resistere e, dopo aver passato tutto questo, trovare ancora la forza di scrivere capolavori come Delitto e Castigo, I fratelli Karamazov, o L’idiota. E io penso sia per questo che in Russia la cultura ha una forza molto maggiore che in altri paesi: è la voce del popolo, senza letteratura la Russia non ha voce. Chi incarna la Russia? Putin? Brèžnev? Stalin? Nicola II? No. Puškin, Anna Achmatova, Dostoevskij, Tolstoj, Čechov. Questa è la Russia, un popolo che può venire umiliato dal sistema ma continuare a credere nella sua letteratura e nella sua musica”.

Per quanto riguarda, invece, Il giardino dei cosacchi, si tratta di una storia vera: quella del periodo trascorso da Dostoevskij in Siberia. Non è però una biografia ma un romanzo molto coinvolgente, in cui sia Dostoevskij sia il suo amico (e io narrante) Alexander von Wrangel vengono raccontati con passione. Mi può parlare di questo legame molto forte tra biografia e invenzione romanzesca?
“Non si tratta propriamente di un romanzo. La famiglia von Wrangel mi ha dato le copie delle lettere di Alexander von Wrangel dirette a Dostoevskij e un memoir scritto sempre da lui in età avanzata, in cui ricordava gli anni in Siberia con lo scrittore. Questo, e l’aver ottenuto anche le lettere scritte da Dostoevskij stesso, mi ha dato la possibilità di scegliere di guardare Dostoevskij con gli occhi di Alexander von Wrangel. Scrivere questo romanzo è stata un’avventura molto grande: ho viaggiato nel diciannovesimo secolo, nella vita di questi due uomini, nel loro modo di pensare. E inoltre mi sembra presenti un punto di vista completamente nuovo su Dostoevskij, e non per merito mio, ma grazie alle parole di Alexander von Wrangel, che oltre a essere un brav’uomo era anche un buon amico”.

Quindi, forse, se Dostoevskij è riuscito a sopravvivere all’esilio in Siberia è anche merito di Alexander Von Wrangel: se non si fossero incontrati magari non avremmo mai potuto leggere i grandi capolavori successivi di Dostoevskij.
“Sì, credo di sì. Non perché von Wrangel stimolasse Dostoevskij a scrivere, ma perché lo ha salvato, gli ha dato la possibilità di rimettersi a scrivere. Gli ha dato anche la possibilità di essere di nuovo davvero un essere umano: quando si sono conosciuti, Dostoevskij veniva dal campo di prigionia, era completamente selvaggio, aveva vissuto talmente a lungo tra criminali da non riuscire più a parlare ed esprimersi normalmente. Alexander von Wrangel era molto maturo per la sua età: aveva solo ventun anni quando è arrivato in Siberia, e Dostoevskij ne aveva dodici più di lui. Era un giovane amico che credeva davvero nei rapporti umani: Dostoevskij è stato salvato dall’amicizia. Si parla sempre dell’amore, ma l’amore è molto più complicato, perché è fisico e irrazionale, mentre l’amicizia è un sentimento estremamente importante, e certamente anche più razionale. A questo proposito è interessante la loro attitudine nei confronti delle donne. In questo periodo stiamo parlando molto dei rapporti tra uomini e donne e sia Dostoevskij sia Alexander von Wrangel, in Siberia, si innamorano di due donne sposate e con figli, e il loro modo di fare nei confronti di queste donne era sempre rispettoso. Dostoevskij era interessato prima di tutto alla mente di una donna, alla sua psicologia, vedeva come prima cosa la persona, non il corpo. E questa è una cosa molto moderna. Penso che Dostoevskij sia stato il primo femminista della letteratura”.

Se dovesse consigliare un libro o un autore russo a un lettore che non ha mai letto letteratura russa, cosa suggerirebbe?
Sicuramente consiglierei di iniziare dall’Idiota di Dostoevskij, ma per quanto mi riguarda da ragazzo avevo trovato Guerra e pace un romanzo straordinario. Tolstoj è stato capace non soltanto di raccontare la storia di un generale durante le guerre napoleoniche, ma anche una ragazzina di sedici anni che si innamora per la prima volta, Nataša. Se si vuole imparare qualcosa in fatto di sentimenti e di amore bisogna leggere questo libro. E poi certo, se si legge un racconto di Čechov non si può non innamorarsi della Russia e della bontà d’animo del suo popolo. I russi possono odiare in modo devastante, ma anche amare in modo altrettanto grande. Non ci sono confini nei sentimenti dei russi: tutto è enorme.

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