Su IlLibraio.it un estratto da “I Re di Roma – Destra e sinistra agli ordini di Mafia Capitale”

Una storia vera, ma così incredibile che sembra creata da un’immaginazione diabolica. Un ex terrorista finito in carcere più volte, legato alla Banda della Magliana e addestratosi in Libano durante la guerra civile. Da anni gira per Roma tranquillo con una benda sull’occhio perso durante una sparatoria. Lo chiamano “il cecato”. È lui che governa politici di destra e di sinistra. Per i magistrati è il capo, Massimo Carminati.

Un omicida. Ha inferto 34 coltellate alla sua vittima ma in cella è diventato detenuto “modello”. I suoi convegni in nome della legalità raccolgono il plauso di grandi nomi come Stefano Rodotà e Miriam Mafai. In realtà ha fregato tutti. Fuori dal carcere è diventato il businessman dell’organizzazione criminale. I magistrati lo chiamano “l’organizzatore”, Salvatore Buzzi.

Un funzionario pubblico, già braccio destro di Veltroni sindaco e poi uomo chiave del coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti asilo del ministero dell’Interno, che nasconde almeno tre false identità, le usa per coprire vari reati ma nessuno se ne accorge. E’ l’uomo di collegamento tra boss e politica, Luca Odevaine. E ancora neofascisti, ultras, soubrette, calciatori, attori…

Lirio Abbate, inviato de l’Espresso, e Marco Lillo, caporedattore inchieste de il Fatto Quotidiano, firmano per Chiarelettere il libro-inchiesta (che contiene numerosi documenti inediti) I Re di Roma – Destra e sinistra agli ordini di Mafia Capitale.

Chiarelettere

Leggi su IlLibraio.it un estratto
(pubblicato per gentile concessione di Chiarelettere)

Dove tutto ha inizio

Il primo contatto

La scena è ancora nitida davanti ai miei occhi. È il mese di marzo del 2012, l’inchiesta su «mafia Capitale» è lontana. L’incontro è fissato per le undici di mattina in una saletta del bar di un lussuoso albergo del centro. Arrivo puntuale. Non serve vagare troppo con lo sguardo: lui è già lì che aspetta. Mi fissa. Lo riconosco immediatamente, ci aveva presentati qualche giorno prima un amico in comune. Con un impercettibile gesto della mano mi fa segno di raggiungerlo. Siedo davanti a lui, le spalle al muro, mi sistemo in modo da avere una buona visuale per controllare l’ingresso e le due finestre. Ci separa solo un tavolino. Cominciamo a parlare. La prima domanda la fa lui, chiede quale motivo mi spinga a occuparmi di queste persone. Poi mi guarda fisso negli occhi, il suo viso si fa serio, irrigidisce i lineamenti del volto: «Questa è gente brutta, che fa male, a Roma lo sanno, lo sanno anche nelle redazioni dei giornali che questa gente non si deve neanche sfiorare. Perché si deve mettere nei guai?». Rimango qualche istante in silenzio a riflettere su quella domanda, poi ribatto nel modo più spontaneo: «È il mio lavoro». Lui accenna un sorriso: «Cosa vuole sapere esattamente?». Mentre mi rivela i segreti di alcuni clan, ho come l’impressione che si preoccupi di quello che potrebbe accadermi e, soprattutto, di ciò che potrebbe accadere a lui se lo scoprissero. Se scoprissero che è «lo spione», quello che racconta tutto al giornalista ma non agli sbirri, «perché di loro [degli sbirri] non mi fido» dice. «Di lei mi hanno raccontato cose che mi portano a fidarmi, e sono sicuro che non mi tradirà.» Non capisco se sia un complimento o un messaggio velato di minaccia. I mafiosi, quando parlano, lo fanno in modo sibillino e le loro affermazioni sono taglienti. Basta uno sguardo, però, per comprendere che nessuno di noi farà scherzi. Mi parla di alcune storie criminali di Roma, fa nomi, indica zone della città e, di tanto in tanto, mi fa domande. Ci studiamo a vicenda per tutto il tempo. Verso la fine dell’incontro si decide e mi svela l’identità del più pericoloso e rispettato boss che controlla il malaffare nella Capitale. Mi sorprende il modo in cui sussurra quel nome. Prima di pronunciarlo, lo mima coprendosi con la mano l’occhio sinistro: «Massimo Carminati». Nonostante il posto sicuro in cui ci troviamo, è chiaro che la «gola profonda» ha paura di lui. Per spiegare il motivo del suo terrore comincia a narrare le gesta criminali di quell’ex terrorista nero, i retroscena violenti che lo riguardano. Ascolto senza batter ciglio. Mi dice che Carminati non teme nessuno, che si sente protetto e immortale. Ne parla come se fosse un idolo. Ai miei occhi è solo un criminale. «Ha visto la morte in faccia e l’ha sconfitta» racconta riferendosi a quando Massimo Carminati perse l’occhio sinistro durante una fuga, al confine tra l’Italia e la Svizzera, per un colpo sparato a distanza ravvicinata da un poliziotto. Tra i criminali romani è diventato un leader, sebbene non sia il solo. Quando mi alzo dal tavolino e mi accingo a salutarlo mi fissa dritto negli occhi e dice: «Attento a Carminati, da questo momento guardati da lui, sempre». Nello stesso periodo mi guardavo già le spalle da un altro boss, Leoluca Bagarella, che dal carcere «mi pensava molto», come ripeteva alle udienze dei processi a suo carico. E si erano aggiunte anche le minacce di alcuni boss della ’ndrangheta ai quali avevano dato fastidio le mie inchieste giornalistiche. Adesso arrivava anche Massimo Carminati. La fonte mi sembra affidabile, decido di andare avanti nonostante i rischi: raccontare tutto ciò che ho scoperto sui boss che comandano a Roma sarebbe una grande inchiesta. Un’occasione unica per svelare il sistema criminale che controlla la città…

(continua in libreria)

(continua in libreria…)

 

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