Si vince e si perde ovunque, non solo in Italia. Ma in Italia, più spesso che altrove, chi è vinto non accetta la sconfitta. Un saggio racconta sconfitte, congiure e tradimenti in politica, da De Gasperi a Renzi – Su ilLibraio.it un capitolo da “Bisogna saper perdere”

Si vince e si perde ovunque, non solo in Italia. Ma in Italia, più spesso che altrove, chi è vinto non accetta la sconfitta. Bisogna saper perdere racconta il declino, l’uscita di scena ma anche l’horror vacui di alcuni degli uomini più potenti del nostro Paese. Politici che sono stati alla guida di un partito, o che hanno governato l’Italia per anni. Che hanno avuto a disposizione soldi e voti. Che hanno regalato sogni e speranze, e attirato invidie e diffidenze. E che prima o poi, inevitabilmente, hanno fatto i conti con il fallimento di un progetto o la fine di una carriera.

I giornalisti  Filippo Maria Battaglia, già autore di Lei non sa chi ero io! La nascita della casta in Italia (2014) e Stai zitta e va’ in cucina. Breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo (2015) e Paolo Volterra, nel saggio Bisogna saper perdere – Sconfitte, congiure e tradimenti in politica  da De Gasperi a Renzi (Bollati Boringhieri) raccontano il declino, l’uscita di scena – ma anche l’horror vacui – di alcuni degli uomini più potenti del nostro Paese.

Il libro rivela i dubbi di Umberto II e Mario Segni, il risentimento di Parri e Prodi, l’amarezza di De Gasperi, il cinismo di Togliatti, gli insuccessi di Nenni e Fini, le fughe e la pervicacia di Fanfani e De Mita, la rabbia di Craxi, l’ostinazione di Berlusconi, fi no all’irruzione di Renzi. C’è chi, ieri come oggi, grida al «colpo di Stato», chi invoca i «brogli», chi si scaglia contro le congiure, chi prepara rivalse e vendette, chi ostacola con ogni mezzo la sua successione e chi ostenta distacco, finge l’addio, ma prova a mantenere il controllo su poltrone e programmi. Perché, a volte, saper perdere conta molto più di vincere. E soprattutto perché la sconfitta svela meglio di qualsiasi vittoria la natura degli uomini e la maturità di una democrazia.

 

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, un capitolo del libro:

La solitudine del numero uno. La sconfitta contro-corrente di De Gasperi

«Bianca», «bianca», «bianca». Lo stillicidio dura lo spazio di una manciata di minuti, il tempo appena di accorgersi di che cosa sta accadendo. Quando, dal tavolo della presidenza, una voce nasale legge il risultato finale del voto, Alcide De Gasperi resta immobile. Sono passate le 23 di lunedì 28 settembre 1953. Sette anni dopo l’ultima volta, lo statista trentino è stato appena rieletto segretario della Democrazia cristiana. Nessuno tra i 71 che votano quella sera al Consiglio nazionale del partito ha avuto il coraggio di proporre un altro nome. Ventidue, però, hanno riconsegnato la scheda senza scrivere nulla. Per il fondatore della Dc, otto volte presidente del Consiglio, già considerato da mezza Italia come un padre della Patria, è uno smacco bruciante. «Adesso non pretenderete che faccia il segretario», sibila, pallido e sudatissimo, ai più giovani che hanno insistito per la sua candidatura e che ora lo attorniano chiedendo di ripensarci, rinviando all’indomani la decisione.

De Gasperi si asciuga la fronte, si alza, fa una lieve smorfia nervosa e, alla fine, annuisce. Poi, aggrottato, esce in silenzio dalla stanza, scende la scala di Palazzo Cenci-Bolognetti, al civico 46 di piazza del Gesù, ed entra nell’auto scortato da Amintore Fanfani e Mariano Rumor, i due principali fautori di una mossa nata con l’idea di tenere unito il partito. Dopo un tratto percorso in un silenzio tesissimo, l’ex presidente del Consiglio chiede i nomi di chi ha scelto di non votarlo. Rumor, seduto di sbieco sullo strapuntino, la prende larga, in perfetto stile dc: «Se proprio vuol sapere chi ha votato certamente per lei – dice – sono questi». Accende la lampadina laterale dell’auto, estrae dalla tasca un foglietto spiegazzato e sciorina un lungo elenco. De Gasperi ascolta i nomi uno a uno, sino all’ultimo. Aspetta di sentire quelli della vecchia guardia, con cui ha condiviso la militanza nel Partito popolare di don Sturzo, l’opposizione al fascismo, e che per otto anni lo hanno appoggiato fedelmente come capo del governo. Ma nella lista, quei nomi, in gran parte non ci sono. I vecchi hanno posto l’ultimo, disperato veto all’alleanza stretta tra lo statista e i più giovani, gli ex ragazzi della sinistra del partito, un tempo vicini a Giuseppe Dossetti. Più che un avvertimento, è un grido di dolore risentito, bofonchiato a mezza bocca dal gruppo degli ex popolari che per anni lo hanno sostenuto e ora si ribellano a quel nuovo patto. Fra le ventidue schede bianche c’è anche quella di Attilio Piccioni, l’ex delfino ormai spodestato, che non ha il coraggio, o forse semplicemente nutre troppo rispetto, per affondare il colpo contro un leader finora indiscusso, eppure avvertito sempre più distante e distratto, ormai troppo vicino ai nuovi «cavalli di razza» che sgomitano per prendere le redini del partito.

Da più di un anno, Fanfani, il «fratello» di Dossetti, è diventato il delfino designato, l’interlocutore privilegiato con cui passeggiare in Transatlantico davanti ai giornalisti. De Gasperi ha deciso di stringervi un’alleanza di ferro, presentando con lui e coi suoi una lista unica e lanciando messaggi inequivocabili. È un’intesa che il leader spera possa riportare unità in un partito ormai diviso in correnti, logorato da una sfibrante rivalità tra giovani e anziani, destabilizzato dalle ingerenze vaticane e scosso dagli ultimi risultati elettorali. Ma resta un’utopia: le ventidue astensioni lo dimostrano.

L’auto sui cui viaggiano i tre, nel frattempo, è arrivata a Castel Gandolfo davanti alla residenza di De Gasperi. Dopo l’ultimo nome scandito da Rumor, l’ex presidente del Consiglio non ha più aperto bocca. Ora scende dalla macchina, fissa lo sguardo nel vuoto e, congedandosi, commenta secco: «Se è così, allora sono due anni che non ho capito nulla». Quindi entra nella villa, regalatagli dal partito proprio due anni prima, per il suo settantesimo compleanno.

«Spero di non morire troppo presto…», aveva mormorato in quell’occasione a mezza bocca, lui che una casa di proprietà non l’aveva mai avuta, felice e forse un po’ impensierito da un dono che sembrava un invito al buen retiro. Era il 3 aprile 1951, il leader dc stava guidando il suo sesto esecutivo, l’ultimo nel quale sarebbe riuscito a scegliere con autonomia i suoi uomini. Mesi prima, l’ala sinistra della dc, la più radicale, raccolta attorno a Dossetti e ai suoi «professorini», tra cui Fanfani, aveva iniziato un’opposizione strisciante e cocciuta, che nella legislatura delle riforme (agraria, tributaria, scolastica) aveva rischiato di trasformare ogni progetto di legge in un’imboscata. Provocando in più di un’occasione la reazione stizzita di un solitamente compassato presidente del Consiglio. «È vero che ogni governo ha bisogno di un certo stimolo, se volete di un pungolo – aveva sbottato nel Congresso veneziano del 1949 – ma ad una condizione: che a un certo momento quelli che stanno pungolando scendano dal carro, si mettano anch’essi alla stanga e dimostrino di saper tirare». Solo una delle frecciate alla minoranza dc, criticata per la «mentalità munita di allucinazioni e presunte divinazioni suggestive», e soprattutto per la richiesta di «posti» e sinecure.

Il punto di rottura si era sfiorato però qualche tempo dopo, nel luglio del 1951, due anni prima della grandinata di schede bianche che aveva accompagnato la rielezione dello statista segretario di partito.

In quella estate, in diversi chiedono di rivedere posti e incarichi nell’esecutivo, il sesto, guidato dal leader dc. Vogliono la testa del ministro del Tesoro Giuseppe Pella. De Gasperi è stanco, nervoso, sfibrato dalle polemiche interne. Decide di dimettersi, e ottiene l’incarico per un nuovo governo. Pensa di avere maggiore libertà di azione, ma non è così. Si ritrova di nuovo bloccato dai veti incrociati delle correnti, in balìa – annota nei suoi quaderni con matite rossa e blu – di «vanità», «egoismi», «interessi» e «povertà d’animo» di amici e rivali. Non risparmia quasi nessuno. «L’aspetto più penoso di una crisi è il lato umano, – scrive a caldo al giornalista Mario Missiroli – il non poter tenere conto di legittime attese, il dover passare sopra ad amicizie antiche, il dover prendere atto di risentimenti». «Facile gridare: spicciati, sii rapido, risoluto, duro. Non si lavora con pietre ma cogli uomini». E poi, aggiunge, «bisogna capire che siamo ancora alla incompiuta saldatura di due generazioni, all’urtarsi di scuole diverse, nelle quali ha agito in diverso senso, più che non si creda, la mentalità fascista».

I vecchi contro i giovani, certo, ma anche molto di più di una spaccatura generazionale. Il partito, che vorrebbe saldamente al servizio della maggioranza e del governo, ormai gli sfugge di mano. «La Dc – confida – deve essere soprattutto uno strumento organizzativo», da schierare coeso e compatto a sostegno di una leadership. Contro le correnti servono regole certe, i dissensi vanno risolti a maggioranza, «dopodiché ogni interferenza deve venir meno».

La tensione a piazza del Gesù tocca il suo zenit qualche mese dopo. Per le elezioni amministrative del 1952, la Curia chiede ai dc di stringere nella Capitale un’alleanza con monarchici e missini. L’obiettivo è evitare che vincano i «cosacchi», che per quel voto hanno deciso di schierare come candidato un uomo al di sopra di ogni sospetto, il prefascista Francesco Saverio Nitti. De Gasperi è fortemente contrario, il Vaticano insiste, persuade il fondatore del Ppi don Luigi Sturzo, antifascista di vecchia data, a farsi garante del progetto. È una lunga battaglia di nervi, fatta di riunioni, incontri, minacce velate e ultimatum brutali. A fianco della Santa Sede, l’Azione cattolica di Luigi Gedda, per il Vaticano ormai la «sola forza efficiente capace di sostituire il partito e fronteggiare il comunismo».

De Gasperi è scosso, si oppone, media, resiste, ma dice pure: «Se mi verrà imposto, spezzerò la mia vita e la mia opera politica, ma non potrò non chinare il capo». Alla fine, la spunta. L’alleanza salta, il Campidoglio è conquistato dai dc. Ma le perdite, umane e politiche, sono salatissime. Poco dopo il voto il leader dc chiede un’udienza privata a Pio XII. Ricorre il trentesimo anniversario del matrimonio, e la figlia Lucia prende i voti. Il Papa gliela rifiuta. «Come cristiano accetto l’umiliazione, benché non sappia come giustificarla – replica un risentito e addolorato De Gasperi – Come presidente del Consiglio italiano e ministro degli Esteri, la dignità e l’autorità che rappresento e dalla quale non mi posso spogliare anche nei rapporti privati, m’impone di esprimere lo stupore per il rifiuto così eccezionale e di riservarmi di provocare dalla Segreteria di Stato un chiarimento».

Le conseguenze più destabilizzanti, però, sono politiche. Gli alleati laici iniziano a diffidare, si allontanano: le pressioni vaticane prima del voto, accusano, sono state una «svolta catastrofica». E all’interno dello stesso Scudocrociato, che pure sembrava avesse affrontato piuttosto compatto l’urto delle ingerenze pontificie, il quadro si sfarina sempre di più, complice una preoccupante emorragia di voti e la netta avanzata delle destre. Stretto da un partito sempre più diviso in correnti, da alleanze sempre più incerte, e con un governo sempre più debole e ricattato, De Gasperi decide di reagire. A piazza del Gesù stringe un patto con la nuova generazione, ormai più libera e spregiudicata dopo l’uscita di scena del suo nume Dossetti. A Montecitorio presenta una riforma elettorale, per dare maggiore stabilità al governo, sottraendolo ai ricatti di alleati e notabili. L’opposizione la battezza subito come una «truffa»: prevede che la lista (o l’insieme di liste) che ottiene la metà più uno dei voti prenda alla Camera il 65% dei seggi. Tra storture, violazioni regolamentari e colpi di mano, la legge passa, giusto in tempo per le politiche del 1953.

© 2016 Bollati Boringhieri editore, Torino

 

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