“Per tre anni, dal 2018 al 2021, non ho scritto neanche una parola”. Inizia così la riflessione di Greta Olivo, all’esordio con il romanzo “Spilli”: su ilLibraio.it l’autrice parla del suo contrastante rapporto con la scrittura, tra allontanamenti e riavvicinamenti, panico da pagina bianca e paura di deludere. E racconta com’è nato il suo primo libro, dopo aver messo da parte il progetto finale che aveva proposto al suo master: “Mi sono concentrata sulla ragazzina che ero stata, sul senso di perdita e la miopia grave che legava me e mio nonno…”
Per tre anni, dal 2018 al 2021, non ho scritto neanche una parola.
Ovviamente, come tutti credo, qualcosa dovevo scriverlo per forza. Nel mio caso, email che iniziavano con “Gentilissimo”, sinossi dei libri per l’agenzia letteraria in cui lavoravo, schede di lettura, messaggi whatsapp più o meno articolati, biglietti per il compleanno di qualche amico.
Ma niente che non mi venisse commissionato, che non avesse uno scopo preciso e tangibile, che fosse il frutto di una pura volontà creativa.
Ero felicissima.
Rinunciare a scrivere, e farlo dopo aver frequentato un costoso master di scrittura (pagato utilizzando l’eredità di mio nonno mentre era ancora vivo), mi faceva sentire in colpa, certo, ma sotto alla colpa sentivo pulsare anche un sottile e inconfessabile piacere.
Il master l’avevo iniziato con terrore e curiosità, ed era così che l’avevo proseguito e poi concluso: entusiasta per le lezioni e la scoperta di autrici che non avevo mai sentito nominare prima (Agota Kristof! Miriam Toews! Amelie Nothomb!), terrorizzata dall’ipotesi che qualcuno potesse dirmi che io a quel mondo non sarei mai davvero potuta appartenere. Scandagliavo l’ambiente circostante in cerca di indizi che provassero il mio timore e, come spesso succede per chi cerca ossessivamente una prova, non avevo tardato a trovarla. I miei compagni di corso dicevano di amare la scrittura, di non vedere l’ora di mettersi alla scrivania e iniziare a pigiare i tasti del computer, riempire i quaderni di frasi fitte. Ne traevano un piacere intenso, ma c’era di più, si divertivano a farlo, erano felici di passare ore del proprio tempo libero a inventare storie.
Ancor peggio, a farmi sentire fuori posto contribuivano le parole degli scrittori che amavo. Leggevo nelle loro interviste un ardore che sospettavo non mi appartenesse, un’identificazione totale con il gesto dello scrivere per cui provavo invidia, anelito, desiderio disperato.
Alle elementari a un certo punto la maestra ci aveva assegnato come compito quello di scrivere una storia che fosse lunga almeno quattro pagine di foglio protocollo. Mentre leggevo il mio tema ad alta voce davanti alla classe, una roba di avventurieri che giravano il mondo per nave, era successo che attorno a me si era fatto un silenzio attento, e in quel silenzio io avevo sentito un’euforia inedita, la voglia di non smettere più. Dopo, quando eravamo usciti per la ricreazione, due compagni erano venuti a chiedermi di scriverne ancora. Volevano sapere come continuava, cosa succedeva ai personaggi, se alla fine morivano oppure no.
Ci avevo provato, a casa. Mi ero seduta con la schiena dritta, la penna impugnata, i capelli tenuti indietro dal cerchietto, ma quasi subito avevo iniziato a guardare fuori dalla finestra, a distrarmi con le grida dei miei amici che giocavano nel giardino condominiale. Li avevo raggiunti poco dopo, e al racconto da continuare non avevo pensato più.
E così era andata con il master, circa dodici anni più tardi. Avevo presentato un progetto finale, l’inizio di un romanzo su mio nonno cieco e la sua badante, di cui poi non avevo più voluto sapere nulla. Stavolta avevo anche un alibi inattaccabile: c’era bisogno che iniziassi a lavorare, a mantenermi da sola. Che poi stessi riuscendo a farlo nell’ambiente per cui avevo studiato, quel mondo editoriale così difficile da penetrare, mi aveva fatto tirare un sospiro di sollievo. Non mi ero accontentata, quindi, ma era semplicemente andata come doveva andare. Avrei per sempre evitato il panico da pagina bianca, la paura di deludere, quel senso di sconfitta che mi prendeva ogni volta in cui dovevo affrontare una scena, il dialogo tra due personaggi, la descrizione di una stanza, la sensazione di sentirmi troppo piccola per quell’amore così grande.
Avevo lasciato prima di essere lasciata, e scommetto che avrei potuto continuare così anche più di tre anni, mettendo tra me e quella velleità ulteriore spazio e tempo e ore passate in ufficio, se non fosse iniziato a succedere che, di soppiatto come entrano i gatti in una stanza, la scrittura aveva iniziato a infilarsi nel mio sonno.
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Tutte le notti sognavo di avere una storia in mente, di aprire il computer e cominciare a lavorare, e quando poi la mattina mi svegliavo e mi trascinavo in macchina, cercavo con tutte le forze di ricordare che storia fosse. Mi stava sulla punta della lingua ma dopo un po’ spariva, al suo posto solo quella sensazione di euforia e il silenzio attento che mi sembrava si fosse fatto intorno, di nuovo.
Ricordai che il mio tema alle elementari era ispirato (ovvero copiato in gran parte) alle avventure verso Itaca di Odisseo, per cui da piccola provavo una passione bruciante. Aspettavo che mia madre andasse a dormire per accendere la mia lucina tascabile e leggere sotto le coperte. Dicevo a tutti che da grande volevo fare l’attrice, ma non era vero.
Così ho deciso di lasciar stare mio nonno e la badante, l’inizio del romanzo che avevo proposto al master, e mi sono concentrata sulla ragazzina che ero stata, sul senso di perdita e la miopia grave che legava me e mio nonno.
Ho aperto il computer e ho guardato fuori dalla finestra. Per un po’ mi sono distratta con le notifiche di whatsapp e con le email a cui rispondere, ho sbuffato varie volte, pensato che avrei voluto alzarmi e uscire in giardino, se ne avessi avuto uno.
Poi ho intravisto Livia, piccola e appuntita come uno spillo, e ho iniziato a lavorare.
L’AUTRICE E IL LIBRO – Greta Olivo vive e lavora a Roma, dove è nata nel 1993. Spilli (Einaudi) è il suo romanzo d’esordio, e parla di Livia e dei suoi ultimi giorni da persona vedente, nel tentativo di trattenere la luce. Una luce preziosa, fondamentale per affrontare una vita costellata di linee d’ombra. Alcune si superano quasi senza accorgersene, altre invece rimangono lì per sempre, invalicabili, a ricordare la paura.
E se c’è un’età in cui la paura spinge più forte, piena di desiderio, rivoluzioni e soglie da attraversare, è l’adolescenza. Questo vale anche per Livia, che vuole arrivare prima alle gare di atletica, occupare il liceo, andare alle feste, uscire con i ragazzi più grandi: insomma, vuole essere identica alle sue coetanee, e soprattutto vuole essere vista. Ma la sera, quando ogni cosa sprofonda nel buio, a non vedere più niente è proprio lei…
Un punto debole che più che un’opportunità per crescere sembra un vero e proprio ostacolo invalicabile. Per prepararla a ciò che le succederà – e che le sta già succedendo – suo padre ha un’idea coraggiosa: ci sarà pure qualcuno che possa mostrarle i passi di questa danza nuova. Emilio è il tutor del centro che l’accoglie, e a un’occhiata distratta sembra vederci benissimo. Sarà lui a insegnarle a vivere senza guardare. Facendole capire che ogni ora è preziosa, la aiuta a muoversi in quel buio e ad ascoltare i suoni, ma soprattutto le scrolla di dosso la paura. Da qualche parte c’è sempre un punto di luce: basta trovarlo, prendere un bel respiro e fare il primo passo per raggiungerlo.
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Fotografia header: Greta Olivo, nella foto di Pierluca Esposito