Tra la Germania e la Turchia, “Tutti i nostri segreti” di Fatma Aydemir è un romanzo familiare che racconta i giorni appena successivi al decesso del patriarca attraverso le storie dei componenti della famiglia stessa. Uno alla volta, i figli e infine la madre rispondono alla morte del padre, cercando di risolvere in modo più o meno palese un rimosso che sembra essere da sempre parte della loro vita. Non sanno dare il nome a questa cosa, allora lo chiamano risentimento, mancanza di amore genitoriale, silenzio, depressione, riservatezza, costrizione…
“Non avere paura, Hüseyin, su, prendi fiato, fa’ un piccolo respiro, giusto l’aria che ti serve per riprendere il controllo di te stesso, per sussurrare le tue parole, le hai serbate tutta la vita per questo momento, e in realtà non vorresti dirle ancora, perché non vuoi darti per vinto proprio adesso […]”: si conclude in questo modo il primo capitolo di Tutti i nostri segreti, secondo romanzo di Fatma Aydemir (Fazi, traduzione italiana di Teresa Ciuffoletti), scrittrice berlinese, nata nell’ex Germania Ovest da una famiglia di origine turco-curda.
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Quando Hüseyin Yilmaz, patriarca della famiglia turco-curda, ha un malore nella sua casa a Istanbul nuova di zecca sembra un uomo che ha raggiunto una fase della sua vita compiuta. Sappiamo che ha lavorato tutta la vita, che si è trasferito in Germania dalla Turchia nel 1971 per avere un’esistenza migliore e dare qualcosa di meglio alla sua famiglia, ma è rimasto deluso dalla Germania: “Speravi in una nuova vita. Invece ti è toccata la solitudine“.
Ci rendiamo presto conto che comprare uno spazioso trilocale +1 al quarto piano, avere il suo nome sul campanello di un appartamento simboleggia per lui una sorta di pacificazione: quelle stanze che percorre nel capitolo di apertura del romanzo sono motivo di soddisfazione, ma anche di chiusura. Subito è evidente che non è solo una questione materiale, un successo personale e familiare che da quel momento in poi potrà rivendicare perché, quando viene colto improvvisamente dal malore, durante l’ultimo momento di lucidità, pronuncia parole che la vicina che lo soccorre non riesce a ricevere correttamente.
Non sappiamo cosa dice, non capiamo e come per i suoi familiari, ci rimane solo il vuoto brutale che il primo capitolo lascia. L’esplosione dell’evento scatenante qui non è solo una questione di trama – la famiglia avrebbe raggiunto Hüseyin lo stesso – ma anche una questione empatica, di correlazione tra lettore e personaggi. Siamo subito irrimediabilmente dentro la tensione familiare, presi dalla necessità di scoprire, uno per volta, cos’hanno da dire e recriminare (o rivendicare) i quattro figli e la moglie Emine, colei che, chiudendo il romanzo, chiude anche i nostri dubbi.
Si crea un vuoto, in modo brutale: il primo capitolo di questo romanzo ha l’unico obiettivo di lasciarci il segreto taciuto che è anche espresso palesemente da alcune parole non tradotte.
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In questo modo, a partire dal capitolo successivo, in ciascuno dei figli cerchiamo la verità, come se fosse tramandabile e invece scopriamo che ognuno di loro ha un non detto più o meno palese con i genitori. In alcuni casi in misura maggiore con il padre e in altri con la madre.
I maggiori, Sevda e Hakan, non riescono a raggiungere la famiglia in tempo per il funerale: hanno alcune disavventure con il viaggio, l’una in aereo e l’altro in macchina e dunque nel non partecipare al rito funebre per entrambi c’è un rimorso da curare, un senso di colpa che li accompagna. Ümit e Perihan, invece, accompagnano Emine dalla Germania a Istanbul, entrano nella nuova casa e esperiscono il vuoto lasciato dal padre.

Fatma Aydemir, foto di Bahar Kaygusuz
Sevda è colei che più degli altri fratelli racconta il lato oscuro della famiglia: l’intransigenza, l’attaccamento a valori tradizionali patriarcali. Questo punto di vista le è permesso dal fatto che per un certo periodo della sua vita è lontana dai genitori e quando si ricongiunge a loro in Germania ha già dodici anni. Sevda è la custode del tempo: nel suo andirivieni – torna in famiglia due volte e viene lasciata andare due volte – sceglie di non parlare con suo padre per cinque anni; dunque, quando si apre il romanzo è colei che più degli altri affronta una colpa che non può scendere a compromessi: non avrà mai una seconda opportunità per annullare il tempo che è passato. Come tutti, soffre di un peccato originale, per il quale prova dolore e vergogna, e che influisce sulla sua vita attuale e che nel racconto viene preso come il punto di svolta della sua vita.
“Sevda avrebbe preso la diffidenza che le bruciava dentro sin dall’incendio e l’avrebbe messa da parte. Non avrebbe spento la fiamma, questo non le era proprio possibile, ma l’avrebbe tenuta a bada. Avrebbe cercato di guardare alla sua vita fino a quel momento come a un inizio, l’inizio di qualcosa di nuovo.”
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A Hakan, invece, tocca la custodia del fallimento: rappresenta le aspettative dei genitori sui figli, del padre sul primo figlio maschio, la tolleranza della madre nei confronti dei suoi sbagli, delle sue mancanze. Durante il viaggio verso Istanbul ripercorre diversi momenti della sua vita, del rapporto con il padre e con gli altri fratelli e come già accade nel capitolo di Sevda, in quello di Hakan traspare un senso di inadeguatezza profondo, per non essere riuscito ad arrivare in tempo e per aver tradito una volta di più la fiducia dei genitori. Hakan e Sevda sono i figli che ricevono la pressione di arrivare per primi, sono quelli che hanno fatto diventare un uomo e una donna dei genitori e per questo si caricano un fardello in più. Non parlano, non dicono le cose come stanno, obbediscono ai genitori quando rimangono in silenzio.
“A suo padre poi gliel’ha raccontato, ma appena un decimo di quello che è successo, gliel’ha raccontato e non è servito a nulla, perché gli sbirri hanno sempre ragione, gli sbirri hanno sempre il coltello dalla parte del manico, loro sono il potere e al potere si obbedisce.”
A Perihan e Ümit, infine, tocca la custodia del destino. Non lo sanno, ma sono specchio dei fratelli e conseguenza diretta delle scelte dei genitori. Sono i testimoni inconsapevoli di un passato che diventa sempre più soffocante per tutti, genitori compresi, e il fatto che l’una scappi dalla famiglia per studiare a Francoforte e l’altro mediti di farlo al più presto li lega allo stesso futuro: avere più successo dei fratelli e dei genitori, cambiare le basi valoriali stesse della famiglia. Aggiornano anche il modo di comunicare. Sono più schietti e diretti e mettono la famiglia di fronte a nuovi modi di concepire le relazioni.
“In famiglia Peri lo conosce meglio di tutti, anche se Hakan ha sempre dormito in camera con lui, e Sevda gli cambiava i pannolini e lo imboccava quando era piccolo. Eppure solo Peri riesce a vederlo veramente. Peri intuisce quello che sta passando, anche lei ne ha passate tante, Peri sa tenere un segreto senza che lui debba rivelarglielo.”
Perihan, infatti, è un personaggio che mette luce nelle ombre, toglie l’ipocrisia, ragiona solo in virtù dell’autenticità e il suo capitolo, collocato a metà libro, ci indica anche una strada alternativa. Ogni tanto riannoda i fili, in alcuni casi spiega i non detti, in altri infine mette l’ipocrisia delle relazioni familiari sotto i riflettori.
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“Perché in fondo cos’è un padre, se non uno dei punti fermi che delimitano lo spazio in cui si cresce e da cui prima o poi bisogna evadere […] Che poi quant’è ipocrita sentire la mancanza di qualcuno che per anni non hai degnato di un sol pensiero?”
Tutti i nostri segreti di Fatma Aydemir è un romanzo familiare che racconta i giorni appena successivi al decesso del patriarca attraverso le storie dei componenti della famiglia stessa. Uno alla volta i figli e infine la madre rispondono alla morte del padre, cercando di risolvere in modo più o meno palese un rimosso che sembra essere da sempre parte della loro vita. Non sanno dare il nome a questa cosa, allora lo chiamano risentimento, mancanza di amore genitoriale, silenzio, depressione della madre, riservatezza, costrizione.
Ogni capitolo affronta un viaggio, una vita e lo fa con un tono e un colore differente, che aderisce perfettamente al personaggio protagonista e per ogni figlio sappiamo cose riguardanti i due genitori, finché tocca a Emine, l’ultima a cui è dedicato spazio, che invece rivela la verità finale, e lo fa in una confessione-rivelazione alla persona che sembra meno amare fra tutte. Emine è stanca, rassegnata (“Perché i tuoi figli non fanno che parlare della felicità? Anche Perihan. Perché pretendono sempre che uno sia felice? Non si può essere normali e basta? Non è sufficiente?”); è l’altra faccia di Hüseyin, perché decide sempre, fino alla fine, di obbedire e rendere la sua vita una continua ricerca di guarire il rimorso che la perseguita. Emine è la custode della testimonianza, perché la verità ultima era in mano solo di Hüseyin, e lei stessa si ritrova a scoprirla e dunque tocca a lei raccontarla.
Tutti i nostri segreti suggerisce, per ogni personaggio, un’appartenenza alla famiglia in quanto tenutario di una colpa. Per i genitori è il segreto, per i figli le scelte di vita che compiono via via e che minano i valori della famiglia stessa, le attese nei loro confronti e ciò che ciascuno cerca è il perdono. Nessuno sa fino in fondo qual è il segreto e da dove nasce la colpa, fino alla fine, quando è la confessione vera e propria la scelta che Emine compie per dar seguito a quello che Hüseyin comincia.
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Fotografia header: Fatma Aydemir, foto di Bahar Kaygusuz