Una passeggiata per le strade di Istanbul che poggia i piedi sulle orme lasciate da chi l’ha attraversata, amata e raccontata. Per il vostro prossimo viaggio nell’antica Costantinopoli (quando sarà di nuovo possibile) avrete una guida speciale a tenervi la mano. Spazio ai libri di autori come Elif Shafak, Orhan Pamuk, Aslı Erdoğan, Graham Greene e di altre scrittrici e scrittori

Immaginate il canto del muezzin che, attraversando strade ripide, arriva fino a voi. Immaginate il vociare di una folla che si fa sempre più forte, camminando lungo la strada principale della città. Immaginate il suono che fa la carne quando sfrigola un po’, sui fornelli. Immaginate il profumo di tè alla menta insieme a quello dell’incenso, delle olive e di dolci con troppo zucchero.

Immaginate il verso dei gabbiani e il fischio che le navi fanno quando lasciano il porto. Immaginate di camminare sempre in salita, o sempre in discesa. Immaginate i rumori dei mercati e il sibilo che fanno i panni stesi tra le finestre del quarto piano.

Immaginate una città dalle luci calde e dai profili bassi e curvi. Immaginate Istanbul. Se la conoscete pensatevi lì, a osservare Sultanahmet al tramonto. Se non l’avete mai vista, invece, iniziate da questo video che dentro ha tutto quello che dovreste immaginare per sentirvi al centro di una delle città più incredibili del mondo. 

Istanbul è il luogo degli opposti: è vicinanza e alterità; spiritualità e rumore; tradizione e voglia di rivoluzione; cura e decadenza. Protagonista di una storia lunga secoli, Istanbul è incrocio e punto d’incontro tra due continenti, adiacenti ma spesso molto lontani. Così, più o meno simbolicamente, è diventata anche luogo di viaggi e piccole rivoluzioni private, raccontati con la magia che può avere solo una città che ha dentro di sé i limiti del mondo.

Conoscere davvero Istanbul forse è impossibile, composta com’è da così tante anime diverse. Per vederla più da vicino, però, si possono usare gli sguardi di chi l’ha osservata per tanto tempo, scandagliandone ogni angolo e desiderandone ogni ombra.

Così abbiamo scritto per voi questa passeggiata che poggia i piedi sulle orme lasciate da chi l’ha attraversata, amata e raccontata. Per il vostro prossimo viaggio nell’antica Costantinopoli avrete una guida speciale a tenervi la mano. 

Prima tappa: la Stazione di Sirkeci 
Il treno per Istanbul, Graham Greene

Il Treno per Istanbul

“Va lontano?” “Fino al capolinea” rispose la ragazza, contemplando con un’espressione infelice, oltre le rotaie, le cataste di bagagli, le lampade accese nel vagone ristorante e le altre carrozze scure in attesa. “Vagone letto?” “No”. “Doveva prenderlo, il vagone letto” disse il commissario di bordo, “visto che fa un viaggio così lungo. Tre notti in treno non sono uno scherzo. Perché mai vuole andare a Costantinopoli? A sposarsi?” “No, che io sappia”. Rise un poco, nonostante la malinconia della partenza e il timore di tutto ciò che le era estraneo. “Ma non si può mai sapere, non le pare?” “Lavoro?” “Ballo. Varietà”.

Infiniti racconti sono stati ambientati sui vagoni dell’Orient Express che, da solo, basta per disegnare uno scenario da bestseller. La sua storia inizia nel 1883 con un viaggio di 77 ore che porta da Parigi a Costantinopoli, fino alla stazione di Sirkeci, ancora oggi chiamata Sirkeci Gar, come il francese “gare”, prosecuzione di quel lungo viaggio che ha smesso di ripartire nel 1977. La stazione di Sirkeci, oggi, si trova nel distretto di Fatih, la penisola storica di Istanbul, quella che ai tempi di Costantinopoli era compresa nelle mura teodosiane. È stata inaugurata nel 1890 sotto il sultano Abdul Aziz e per anni ha accolto viaggiatori ricchi e facoltosi provenienti da tutta Europa. Graham Greene nel suo Il treno per Istanbul (Sellerio Editore, traduzione di Alessandro Carrera) sceglie l’Orient Express per riviverne il fascino e lo popola di passeggeri che sono specchio dell’Europa di quel tempo, il 1932. Una ballerina, un medico, un uomo d’affari, una giornalista e un ladro in un giallo che, come la stessa Istanbul, ha dentro di sé un grande confine, che è quello tra le due guerre mondiali.  

Seconda Tappa: la Basilica di Santa Sofia
La balia, Petros Markaris

la balia petros markaris

“È strano, ma Santa Sofia sembra costruita in modo che uno guardi sempre verso il cielo e mai verso l’abisso. Invano tenti di ancorarlo al basso, alle cose terrene, perché quello sale verso l’alto, verso le colonne, gli archi del matroneo, le cupole e le finestre che illuminano scenograficamente, con il chiaroscuro, il nartece. Mi guardo intorno, per vedere se qualcuno ha gli occhi rivolti verso il basso: nessuno”.

A un chilometro dalla stazione di Sirkeci si trova la Basilica di Santa Sofia che dovreste riconoscere per immensità, folla di turisti e pareti color corallo un po’ sbiadite. Santa Sofia ha una storia tutta sua: prima Chiesa Ortodossa e sede del Patriarcato, poi Moschea e oggi di nuovo Basilica. È a Santa Sofia che inizia La balia (La Nave di Teseo, traduzione di Andrea Di Gregorio) di Petros Markaris, con una visita guidata che racconta di simboli arabi su Cristi Pantocratori e dà il via a un racconto che è giallo e commedia, portando avanti un’indagine che non è solo quella del commissario Charitos ma anche quella su temi umani come la vendetta e l’ingiustizia, in una cornice profumata e tiepida come quella di Istanbul.  

Terza Tappa: la Moschea Blu
Tre uomini in bicicletta, Paolo Rumiz 

“Sopra la Moschea Blu, illuminata di giallo, c’è un vortice soprannaturale di gabbiani, i sei minareti sono missili puntati contro il nero-blu compatto del novilunio. L’adrenalina cala sotto zero, subentra una quiete totale. Vogliamo dormire, ma non per riposare. È solo per sognare. Sognando, almeno, il viaggio continua”. 

Accanto alla Basilica di Santa Sofia si vede, per forza, la Moschea Blu, simbolo di Istanbul e tappa obbligatoria nei piani di ogni viaggiatore. “Blu” perché le pareti e la cupola sono rivestite da 21.043 piastrelle di ceramica turchese. Simbolo perché, tra le altre particolarità, ha sei minareti, seconda solo alla Moschea della Ka’ba, a La Mecca, che ne ha sette. Quei sei minareti sono stati la prima cosa che Paolo Rumiz e i suoi compagni di viaggio, Altan Francesco, 58, vignettista e Rigatti Emilio, 47, professore, hanno visto una volta arrivati a Istanbul dopo diciotto tappe, più di duemila chilometri e un mese di viaggio percorso tutto in bicicletta, da Trieste a Istanbul, appunto. Quegli stessi sei minareti sono l’immagine con cui Paolo Rumiz chiude il racconto di quell’ultima tappa, prima di andare a dormire e sognare di viaggiare ancora.

Quarta tappa: il Mar di Marmara
Una famiglia turca, Irfan Orga

Una famiglia turca

“Sono nato a Istanbul il 31 ottobre 1908, primogenito della mia famiglia. Al tempo della mia nascita mia madre aveva quindici anni, mio padre venti. La nostra casa era alle spalle della Moschea Blu e guardava sul Mar di Marmara”

Irfan Orga è stato un pilota di caccia, figlio di una famiglia dell’alta borghesia turca che, dopo la Grande Guerra e la caduta dell’Impero Ottomano, ha perso tutto. Il suo Una famiglia turca (Passigli, traduzione di Luca Merlini) è contenitore di questa storia tanto che, come scrive la quarta di copertina, “protagonisti del racconto, oltre alla famiglia dello scrittore, sono la stessa Istanbul e tutta la variegata società di notabili, piccoli borghesi e popolani che la abitano”. Dalle finestre della propria casa d’infanzia Irfan Orga osservava una Istanbul accarezzata dalle acque del Mar di Marmara, calme come quelle di un lago, pizzicato com’è tra i più grandi Egeo e Nero. Dalle coste della città, a poca distanza dalla Moschea Blu, partono fischiando battelli che attraversano il Mar di Marmara e portano in piccoli ritagli di mondo che sembra impossibile si trovino a così poca distanza dalla stessa Istanbul. Un piccolo azzardo divertente è quello di prendere un battello qualunque, senza conoscerne la destinazione, godersi il viaggio e scoprire dove porta. Ma, a voler essere un po’ più organizzati, due destinazioni piene di colori sono le Isole dei Principi e Kadıköy. Le prime sono un arcipelago di nove isole usate, nel periodo bizantino e sotto i sultani ottomani, per confinare ed esiliare membri scomodi dell’alta nobiltà. Kadıköy, invece, è un piccolo comune che risponde alla città di Istanbul e ne disegna un lato vivacissimo e caleidoscopico, pieno com’è di gallerie d’arte, ristorantini, circoli, botteghe, birrerie e un incredibile mercato alimentare

Quinta tappa: il palazzo Topkapi
Il cielo di maiolica blu, Federica Giuliani

Il cielo di maiolica blu

“Rivedere oggi le foto di allora, di quando ero bambina, mi fa rendere conto di quanto si sia evoluta negli anni la Turchia. La zona della città che mi risulta più cambiata è quella che ospita il Topkapi Sarayi. In senso positivo naturalmente. […] Dal Mar di Marmara è possibile ammirare l’imponente serie di dieci fumaioli conici, che si stagliano contro il cielo”

Topkapi è il luogo in cui, in passato, accadevano le favole e gli intrighi che noi oggi ci raccontiamo quando immaginiamo l’Oriente e i sultani. Federica Giuliani, giornalista e figlia di viaggiatori senza freni, nel suo Il cielo di maiolica blu (goWare) racconta il palazzo Topkapi con uno sguardo doppio: quello di una bambina incredula che lo vede per la prima volta, immenso; e poi quello di una donna che, anni dopo, ritorna e si accorge di ciò che è cambiato. Così racconta del tesoro imperiale, così brillante di diamanti, zaffiri, oro e smeraldi nei suoi ricordi, e chiuso in una teca di vetro dentro una stanza buia oggi. Federica Giuliani racconta anche delle leggende che attraversano le stanze del palazzo e chi lo abitava. “Il sultano, ogni venerdì sera, si recava in una Moschea della città per pregare insieme al popolo. Spesso andava in quella all’interno del Gran Bazar, la più vicina al palazzo, entrando dalla porta principale denominata “sublime”. Giù di là, poi, dalla parte opposta rispetto al mare, le concubine si aggiravano nelle stanze dell’harem, termine che in arabo significa “proibito”. 

Sesta tappa: il Gran Bazar
Costantinopoli, Edmondo De Amicis 

Costantinopoli De Amicis

“Dopo aver visto di volo tutta Costantinopoli, percorrendo le due rive del Corno d’Oro, è tempo di entrare nel cuore di Stambul, d’andar a vedere quella fiera universale e perpetua, quella città nascosta, oscura, piena di meraviglie, tesori e di memorie, che si distende dalla collina di NuriOsmanié e quella del Seraschiere, e si chiama il Grande Bazar” 

Ora immaginate un centro commerciale, ma costruito a metà 1400: 61 strade coperte, 4000 negozi, quattro porte d’accesso e infiniti venditori di tappeti, gioielli, spezie, tessuti, frutta secca e pelletteria. Le porte sono quelle dei venditori di libri usati, dei venditori di berretti, quella dei gioiellieri e quella dei venditori di tessuti per donne. Oltre di loro un caos di voci, profumi, colori e storia. In origine i venditori stavano seduti su divani di legno al lato della strada: gioiellieri vicino ai gioiellieri, speziali vicino agli speziali e così via, tanto da dare il nome del proprio mestiere alla strada in cui si trovavano le loro postazioni. Ciascuno occupava un minuscolo spazio, circa due metri di larghezza e uno di profondità, e faceva accomodare proprio di fronte a sé possibili clienti, offrendo loro un caffè turco per dare il via alla trattativa. Oggi un po’ di cose sono cambiate: sono comparsi piccoli ristoranti, gli spazi dei commercianti si sono allargati diventando veri e propri negozi, mescolati tra loro. L’atmosfera e il fascino, però, rimangono gli stessi che hanno ispirato le pagine di Costantinopoli (Einaudi) di Edmondo De Amicis e quelle di Théophile Gautier. 

Settima Tappa: il Ponte di Galata
La bastarda di Istanbul, Elif Shafak

La bastarda di Istanbul

“Passando davanti alle dozzine di pescatori rugosi allineati in silenzio lungo l’antico ponte di Galata, ognuno con un ombrello in una mano e la canna nell’altra, Zeliha invidiò la loro capacità di rimanere immobili per ore ad aspettare un pesce che non abboccava mai, e se anche abboccava si rivelava talmente piccolo da servire al massimo come esca per un pesce più grosso che mai avrebbe abboccato”.

Il Ponte di Galata collega Sultanahmet – il centro storico con le Moschee, il Topkapi e il Gran Bazar – e Karaköy, il quartiere moderno di Istanbul, fatto di grandi negozi, mezzi di trasporto efficientissimi e vita notturna. I pescatori che lo popolano sono una certezza, presenze su cui poter contare quotidianamente. Loro stanno lì, a pescare nelle acque del Corno d’Oro; le barche sotto e le automobili dietro. Pescano i pesci che si mangiano nei balik-ekmek, panini col pesce tipici di Istanbul, preparati in chioschetti a forma di barca galleggianti sulle acque del Bosforo e venduti a poche lire: un pesce cotto alla griglia, un panino croccante, molta, moltissima cipolla e succo di limone. Per chi vive in città i pescatori del Ponte di Galata sono un ricordo da ritrovare anche ad anni di distanza. Armanoush, la protagonista de La bastarda di Istanbul (BUR Biblioteca Universale Rizzoli, traduzione di Laura Prandino), deve aver provato questo senso di pace quando, dopo anni di assenza, torna nella sua città natale, Istanbul appunto, e li vede lì sul Ponte di Galata a darle la forza che le serve per ricercare le proprie origini armene e farle dialogare con l’identità turca.

Ottava tappa: la Torre di Galata
Rosso Istanbul, Ferzan Özpetek

Rosso Istanbul

“Quando mia madre aveva circa 90 anni è entrata in coma. Quando ha iniziato a riprendersi c’era un ragazzo che veniva a casa per aiutarla e lei ha scambiato la sua gentilezza per amore, quindi voleva vestirsi bene. Mia madre è sempre stata una donna sobria, invece in quel periodo mi chiedeva di comprarle una tuta rossa e io le chiedevo: “Che tipo di rosso?” – Lei rispondeva: “Rosso Istanbul, quello che si vede nel cielo”

Sotto la Torre di Galata, a pochi passi in salita dal Ponte, c’è un chioschetto che vende la limonata. Sopra, nel cielo rosso di Istanbul, gabbiani che volano in cerchio intorno al tetto appuntito. Dentro, una storia iniziata nel 1348 per mano di coloni genovesi, con l’intento di fortificare le mura a protezione della loro cittadella. Özpetek, davanti a quella torre, ci ha comprato una casa e l’ha utilizzata come set per il suo film Rosso Istanbul, tratto dall’omonimo libro (Mondadori). Un’intera scena è girata proprio sulla sua terrazza, con una vista incredibile sulla Torre di Galata illuminata, in uno scorcio che incrocia l’eleganza e la vita bohémienne di Parigi e il fascino di un mondo lontano che forse non conosceremo mai per davvero.

Nona tappa: il Museo dell’Innocenza
Il Museo dell’Innocenza, Orhan Pamuk

Il museo dell'innocenza

“Kemal, anche noi vorremmo tanto vederti. Ti aspettiamo il 19 maggio a cena. Con affetto e cordialità. Füsun.
Indirizzo: vicolo Dalgiç, 24, Çurkuma”.
Mancavano più di due giorni all’appuntamento: istintivamente mi venne da andare subito all’indirizzo di Çurkuma, ma mi trattenni dal farlo. Pensai che, se volevo sposare Füsun, legarla a me in modo indissolubile, non avrei dovuto mostrarmi eccessivamente emozionato”

Orhan Pamuk è uno degli scrittori che hanno speso in assoluto più parole per Istanbul, con una precisione e una profondità difficili da credere. Ma, oltre ad aver scritto infinite pagine, Orhan Pamuk ha donato anche qualcosa in più alla sua città, ovvero un museo, all’angolo tra Çukurcuma Sk e Sk Dalgiç, nella stessa casa rossa in cui vive la Füsun del suo libro. La storia de Il Museo dell’Innocenza (Einaudi, traduzione di Barbara La Rosa Salim) è un’invenzione dell’autore ma leggendola e visitando il museo si ha l’impressione di viverla sulla propria pelle. Kemal, un giovane e ricco futuro sposo, si innamora follemente di un’altra donna, Füsun, e la sua vita diventa un’incessante ricerca di lei e un costante tentativo di calmare le proprie pulsioni e obbedire ai “giusti” piani. Così, tra i suoi sentimenti incontrollabili, Keman raccoglie ogni pezzo della sua relazione con Füsun, ogni piccolo ricordo di lei: mozziconi di sigaretta, biglietti del cinema, tazzine. Quei ricordi diventano teche nel Museo dell’Innocenza e raccontano la forza dell’amore e il coraggio che serve per farsi trasportare.

Decima tappa: tramonto vista Sultanamet
Poesie d’amore, Nazim Hikmet 

Poesie d'amore

“Ti amo come se sorvolassi il mare per la prima volta in aereo. Ti amo come qualche cosa che si muove in me quando il crepuscolo scende su Istanbul poco a poco. Ti amo come se dicessi Dio sia lodato son vivo”

Se esiste un giusto modo per salutare Istanbul, o per salutare ogni giornata che sta per finire, è quello di sedersi al tramonto sul pavimento in legno di Kardesim sk, la passeggiata lungo le acque del Corno d’Oro proprio di fronte a Sultanahmet, sulle coste di Karaköy. Questa volta immaginate il cielo farsi rosa e i gabbiani volare rumorosi davanti a quello spettacolo; immaginate le luci dei minareti accendersi di blu e quelle del centro storico di un giallo caldo; immaginate le barche incrociare di tanto in tanto il vostro sguardo e i muezzin che iniziano a cantare il loro richiamo alla preghiera della sera; immaginate i giovani che si raccolgono accanto a voi dopo una lunga giornata e i ristorantini che iniziano a trafficare con stoviglie e padelle. La fine delle giornate, a Istanbul, ha l’aria di un inizio. Lo stesso che Nazim Hikmet ha scelto per raccontare l’amore, lui che di dialoghi sui sentimenti ne ha fatti tanti in lettere che spediva alla moglie dal carcere di Bursa, dov’era prigioniero per accuse di propaganda comunista e complotto contro il governo. Per questo è riuscito a scegliere una della immagini che, più di tutte, riescono a sintetizzare l’amore, quella del “crepuscolo che scende su Istanbul poco a poco”.

Ad accompagnare l’intero viaggio
Neppure il silenzio è più tuo, Aslı Erdoğan

Neppure il silenzio è più tuo

“15 luglio, notte, di fronte alla caserma militare di Harbiye, poco più avanti, alla sede della radio, si protrae da ore uno spaventoso combattimento, le ambulanze trasportano feriti in continuazione, ci sono morti”

Istanbul, e la Turchia in generale, è fatta di opposti, l’abbiamo detto. E questi opposti si incontrano anche nell’enorme voglia di aprirsi al mondo da una parte, e nella forte repressione esercitata dal governo sul popolo dall’altra. Aspetti che vanno conosciuti per comprendere meglio un Paese così complesso e multiforme. Il 15 luglio del 2016, per esempio, un colpo di stato ha tentato di rovesciare il Presidente Recep Tayyip Erdoğan e assumere il potere, fallendo. Il dibattito sul tentato golpe è aperto ancora oggi. La cosa certa, però, sono le voci di chi, dopo quel 15 luglio, ha scelto di parlare per farsi sentire nonostante la paura, le minacce e la violenza. La voce di Aslı Erdoğan è una di quelle, prima donna a spezzare il silenzio assordante che aveva intorno. Voce che le è costata 136 giorni nella prigione di Bakırköy ma che ha dato al mondo un capolavoro di denuncia e coraggio come Neppure il silenzio è più tuo (Garzanti, traduzione di Giulia Ansaldo), “nella speranza che quest’opera possa davvero sgretolare il silenzio, almeno là dove le sue parole hanno ancora diritto di cittadinanza”.

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