Nel suo nuovo libro, “Il cielo sopra Gaza non ha colori”, Morena Pedriali Errani racconta i drammi della guerra, della perdita e dell’occupazione attraverso gli occhi di una bambina, Layla, alla disperata ricerca della sorellina dopo i bombardamenti di ottobre 2023 – Su ilLibraio.it un estratto

Al centro del nuovo libro di Morena Pedriali Errani, già autrice di Prima che chiudiate gli occhi (Giulio Perrone editore, 2023), troviamo le vicende che hanno colpito – e stanno colpendo – la Palestina: la guerra, l’occupazione e la perdita sono raccontate attraverso il punto di vista di una bambina, alla disperata ricerca della sorellina.

Il cielo sopra Gaza non ha colori, in uscita per Giulio Perrone editore (che festeggia i 2o anni di attività), segue Nur e Layla, due gemelle rimaste sole dopo la morte dei genitori: il padre dopo l’offensiva israeliana del luglio 2014, la madre dopo i fatti del 7 ottobre 2023.

È in questo contesto che le due cercano riparo e rifugio nell’ospedale di Al-Awda, ma neanche un luogo come quello è sicuro. L’ospedale viene infatti bombardato, e nell’ennesima fuga Layla perde la sorellina, cieca dalla nascita e presa dai soldati.

Pedrani Errani, attivista circense e attivista per le minoranze romanì, propone una riflessione attuale che muove dalle circostanze tragiche della guerra e della sofferenza civile, e racconta una storia in cui non manca lo spazio per la speranza, vera e propria forza che spinge Layla a ritrovare la sorella. Il romanzo, come abbiamo anticipato, potrebbe essere proposto al Premio Strega 2025.

Il cielo sopra Gaza copertina

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

«Che succede?». Ti bacio la fronte. «La sete, ma sto meglio».

Infilo il tuo braccio sotto la mia ascella, ti stringo le dita. «Sto meglio». Camminiamo da ore, tu sembri danzare sui tizzoni, io trascino goffa un piede dietro l’altro tra pezzi di metallo, resti di macchine, teste decapitate di bambole sparse. Non so dove andare, seguo il flusso di facce che, come noi, stringono taniche e bottiglie semibruciate, spostano gli occhi come felci al vento, cercando un’oasi che qui non esiste. Un uomo beve da una pozzanghera, un altro si stringe lo stomaco e vomita poco lontano. Qualcuno stende il tappeto sulle pietre e prega, in silenzio. Senti pezzi di surah recitati e li reciti anche tu, sussurrando, io sospiro perché il mio inganno, stavolta, non ha funzionato.

Si sta facendo buio, l’acqua è finita ieri mattina ma tu non devi saperlo, ti dico che oltre le case c’è il mare e che noi ci stiamo per andare, mi chiedi che colore ha. «Lo stesso del cielo», dico e penso: “Non ce l’ha”. Un giorno ce ne andremo, giusto per vedere se il resto del mondo esiste e se esistono i suoi occhi, tu scuoti la testa: «Dobbiamo rimanere qua».

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Chiedo a un anziano dove trovare acqua, lui mi fissa e sorride, indica un punto e penso sia a caso ma ho bisogno di seguirlo, ti trascino.

Una nenia in lontananza fraziona i nostri passi, li pesa dolce. Forse è mamma, ci aspetta come sempre nell’androne delle scale. Io sono lenta, mi perdo a guardare i volti delle persone, mi piace studiarli. Tu sei più svelta, conosci la strada a memoria anche se non l’hai mai vista, imbocchi le scale fino al nostro appartamento e apri la porta, la spalanchi. Mamma ride, scopre i denti come colombe e per un po’ dimentichiamo dove sia papà, che suono ha fatto la sua cassa toracica sotto i cingoli del carrarmato, tanti anni fa. Forse secoli, forse un secondo appena e lui, come il bambino delle olive, non è mai esistito.

La nenia però non ha parole e si fa sottile, assordante. Mamma, ancora cinque minuti, ti prego. Non mi piace la luce che entra dalla finestra la mattina, uno schizzo appena sghembo che non scalda, preferisco la notte, quando sono sola e Nur vede le cose nei suoi sogni, lontano dalla mia voce, non ha bisogno di me. Ma di mattina la mamma canta, mormora una filastrocca sottovoce. Guarda un vaso vuoto, la sua pancia di vetro tagliata dal sole, forse ricorda una vita che di lì è passata e poi ha chiuso per sempre la porta, senza salutare. Questa ninnananna però non sa di pane bruciato e olio di oliva, nemmeno del latte artificiale che beviamo quando abbiamo fortuna. Ha un gusto secco, non l’hai ancora mangiata e già ti scava le gengive, lascia un sapore metallico in bocca. L’anziano di poco fa alza lo sguardo al cielo, tira fuori il Tasbih da una tasca della giacca, alza il mento, chiude gli occhi. Non si muove.
«Ashhadu ana ilaha illallah wa ashhadu…».

Morena Pedriali Errani

L’autrice, Morena Pedriali Errani

È venuta per noi, sì lo sento, ma non è la mamma. Anche lei non esiste, come le scale e la porta, anche lei è passata cantando di fianco al vaso di vetro. Non è stata che una bugia di gelsomini e tibie, il vaso è saltato in aria, la luce è arrivata di notte e ci ha bruciato. Ritorno al mio corpo, mi scuoto. Vedo persone correre veloci, alcune si tengono per mano.

«Layla, che succede?».

Le urla non hanno parole, così come la nenia, non sanno di pane. Corriamo via.

Non so dire da dove arrivi, né dove stia andando, so chi sta cercando. Noi. Manca poco perché ci sfiori e d’un tratto ti spingo verso altre macerie, sento a malapena la mia voce urlare: «Sta’ giù!».

L’harop si schianta a un centinaio di metri da noi, vedo le sagome dei corpi che consuma, i resti che divora nella frazione di un secondo.

L’anziano è il primo a sparire, dai suoi occhi una lacrima sola fa in tempo a gelare prima del buio, la più antica lacrima del mondo e dentro ci ballano rami di ulivo, piume di cigno, una chiave arrugginita che gli seppelliranno accanto, senza più porta. Forse aveva figli o forse no, tutti perduti, una moglie che lo aspetta, più nessuno perché, quando nasciamo, in Palestina, contiamo sempre gli attimi che ci separano dai martiri, le rughe come strade di polvere sulle foto di chi non c’è più. È un vizio che abbiamo, non dimenticare.

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I martiri, diceva papà, sono i morti che non muoiono e quando li avvolge il lenzuolo non dormono, aspettano il mattino. Nella notte ci accompagnano, stanno sulle nostre spalle come un respiro leggero, intarsiato con l’oro delle stelle che non il cielo ma loro e solo loro portano su Gaza.

I martiri hanno una fiamma sopra il petto, sono pettirossi di fuochi fatui che ci scaldano le ossa: un giorno torneranno, illumineranno ogni cosa. Un giorno ci riporteranno a casa.

Ogni palestinese ucciso all’ombra dei papaveri un giorno tornerà e sfilerà tra i palazzi liberati come l’acqua con cui irrigheremo i campi senza più confini, senza muri né checkpoint. I primi saranno i martiri bambini, diceva papà. A loro è aperta la porta di ogni paradiso. Io li guardo spesso, appesi alle costellazioni e mi manca il fiato.

Ti copro le orecchie, è incredibile quanto buio arriva dopo la luce. Per un attimo penso di essere diventata anch’io come te. «Non è niente, Nur, sono fuochi d’artificio».

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