“La prima volta che ho visto la Palestina è stata dentro gli occhi di mia madre. Ho riconosciuto l’odore della mia terra nelle sue lacrime salate”. Su ilLibraio.it la riflessione di Alae Al Said, classe ’91, nata a Roma da genitori palestinesi, cresciuta con l’amore per la sua terra d’origine e con un forte senso di giustizia. L’autrice spiega com’è nato il suo romanzo, “Il ragazzo con la kefiah arancione”, con riferimenti alla sua adolescenza, al difficile presente e alle guerre dei decenni scorsi: “La pace in Palestina non esiste perché in quel luogo il diritto internazionale non è applicato, semplicemente. Se si applicasse la legge internazionale, sarebbe un’oasi di pace…”

La prima volta che ho visto la Palestina è stata dentro gli occhi di mia madre. Ho riconosciuto l’odore della mia terra nelle sue lacrime salate.

La sua frase è rimasta sempre la stessa negli anni: “La ghurba è la cosa più straziante che si possa provare nella vita”.

La ghurba è la lontananza dal luogo natio, il dolore – quasi fisico – che prova colui che viene allontanato dal luogo che considera ‘casa’. A mia madre in Italia l’ha portata l’amore o, meglio, la promessa di un amore fiorito con papà.

Quando ero più giovane provavo a consolarla, a dire qualcosa che potesse farla star bene, ora non dico niente. Perché ho capito che alcuni dolori non vogliono essere leniti ma solo ascoltati, accarezzati, capiti. E io la capisco. Capisco che la sensazione di ‘casa’ è difficile da replicare, che non basta vivere dentro una costruzione in mattoni per sentirsi al sicuro dal mondo e che il calore della propria famiglia d’origine non riesce a sostituirlo nessuno, neanche il fuoco acceso di centinaia di camini assieme.

 

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La seconda volta che ho visto la Palestina è stata con lei. Avevo sì e no sette anni. Mentre si avvicinava alla casa dei suoi genitori, situata in un villaggio di Tulkarem, mia madre mi stringeva forte la mano. E io sentivo il sudore della nostalgia farsi posto tra le pieghe del suo palmo, riuscivo ad avvertire il tremolio del suo corpo, delicato come le note che escono da un pianoforte. Vederla abbracciare e piangere tra le braccia dei suoi genitori mi ha scossa. Ricordo di aver pensato – forse non con questa consapevolezza con la quale oggi lo scrivo – : mia madre è anche una figlia. Non l’avevo mai vista in quelle vesti, non avevo mai conosciuto i miei nonni e così scoprii anche di essere una nipote, quanto è bello essere coccolati da chi ti ama ancor prima di conoscerti.

Dentro di me, la Palestina, negli anni ha preso forme e colori diversi. Se inizialmente era il bianco pallido del dolore di mia madre, e dopo il rosa tenue dell’amore dei nonni, col tempo è divenuta il rosso. Il rosso del sangue e dell’ingiustizia.

Ricordo che si colorò di quella sfumatura in un giorno preciso. Era il 30 settembre 2000. Seconda Intifada. Io avevo nove anni. E in tv vidi l’uccisione in diretta di Muhammad Al Dhurra. Come la vide tutto il mondo. Quel bambino aveva all’incirca la mia età, cercava protezione nel padre, come avrei fatto io, gridava, come avrei gridato io. Mi sono riconosciuta in lui. Nei suoi jeans chiari, nei suoi occhi scuri, nel colore della sua pelle. Attonita, ricordo di aver chiesto a mio padre: “Perché l’hanno ucciso?” e ricordo che lui mi rispose: “Lo capirai crescendo”. Non mi era piaciuta quella risposta perché papà sapeva rispondere a ogni cosa, ad ogni mia curiosità, ad ogni mio dubbio. Era un narratore, un filosofo, un cantastorie. Perché quella storia non me la voleva raccontare?

La cercai io, allora. Da quel giorno fino ad oggi. Ho sfogliato libri e libri di storia, ho guardato documentari, sono scesa in Palestina più e più volte, vedendo crescere negli anni muri, ingiustizie, carceri, colonie, desolazione. Ho visto la Storia susseguirsi di fronte ai miei occhi tramite Al jazeera, sempre sul campo. Il rosso del sangue e dell’ingiustizia, dopo un anno e mezzo di genocidio su Gaza si è fatto scuro, scurissimo. È quasi un nero.

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La Palestina è una voragine buia dentro di me. Non trovo ancora una risposta a quella domanda, “perché l’hanno ucciso?”, “perché ci uccidono come scarafaggi e il mondo lascia fare?”. Solo una cosa ho compreso, papà mi disse “lo capirai crescendo” perché lui era ancora alla ricerca di quella risposta. Perché nessun palestinese comprende appieno come mai settantasei anni di colonizzazione e massacri siano potuti passare sulla sua nostra pelle nell’indifferenza del mondo. Nessuno.

Se è impossibile trovare una risposta, allora farò in modo che la domanda se la pongano più persone al mondo possibili, questa fu la mia decisione. Far conoscere la Storia del mio popolo era, ed è, una mia responsabilità. Me la sono caricata sulle spalle, me l’ha caricata come peso sulle ossa Muhammad Al Dhurra.

Parlo e scrivo di Palestina da sempre. Di fronte alle menzogne che spiegavano alcuni professori tra i banchi di scuola, provavo a controbattere, a dire la mia. Non mi piaceva la parola “terroristi” spesso associata accanto a “palestinesi”, non mi piaceva sfogliare i libri di geografia e non trovare la scritta “Palestina” in nessuna mappa.

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Dove era il posto per me e per il mio popolo? Non mi piaceva quando alcuni professori mi incalzavano “ma voi la pace non la volete proprio?”, mi innervosivo. La pace in Palestina non esiste perché in quel luogo il diritto internazionale non è applicato, semplicemente. Se si applicasse la legge internazionale la Palestina sarebbe un’oasi di pace, un posto in cui convivono come in nessun altro luogo al mondo religioni e culture così diverse tra loro. Ho deciso anche di studiarlo, il diritto internazionale. Per capirlo, per avere degli strumenti reali con cui portare avanti la mia personale lotta di liberazione.

E più di tutto, ho scritto. Scrivo da sempre. È una passione che ho ereditato da papà. Mi piacciono le parole scritte. Mi piace cercare quella giusta, perfetta, che possa condensare un’immagine, un’emozione. Compravo diari su diari quando ero piccola e li riempivo di poesie, di frasi che mi crescevano dentro e che fiorivano in parole. Sognavo di riuscire a scrivere un libro, un giorno. Di diventare una scrittrice. Ma quando vedevo i libri negli scaffali delle biblioteche mi sembrava una cosa impossibile. Mi chiedevo come si potesse avere la pazienza e l’ispirazione di scrivere così tante pagine, una dopo l’altra.

Poi, nel 2014 dopo l’operazione ‘Margine Protettivo’ su Gaza, dopo l’ennesimo dolore, la mia penna cominciò a scrivere, da sola. Dentro di me riaffiorò un ricordo, una storia che mio padre mi aveva raccontato sulla sua infanzia a Nablus. Una scatoletta di sardine usata come una macchinina, un gioco tra bambini. Da quel suo ricordo nacque, nel 2019, Sabun, il mio primo romanzo. Dopo quello, pensavo non sarei più stata in grado di scrivere nulla.

Ma un anno dopo, nuovamente, le mie dita, senza chiedermi il permesso cominciarono a battere sui tasti. C’era un’esperienza forte, incredibilmente dolorosa che avevo vissuto da adolescente e che avevo seppellito dentro di me. Ma in quel momento, bussava violentemente alle pareti della mia pelle. Voleva uscire, farsi raccontare. Perché? Forse perché avevo appena messo al mondo la mia prima figlia e cominciavano dentro di me, inconsciamente, ad agitarsi paure per il suo futuro. Da quell’esperienza di bullismo vissuta tra i banchi di scuola alle medie è nato il personaggio di Loai. E Ahmad, il suo amico, è una figura che prende ispirazione da una persona, che all’epoca dei fatti mi è stata vicina. Forte e strampalata come lui. Scrivendo della mia esperienza, a mano a mano, la mia penna ha intrecciato alla mia storia quella di mia madre. Lei ha vissuto la guerra dei sei giorni e mi aveva raccontato della breve illusione e poi della paura, dell’angoscia di quelle giornate e di come, dopo quella guerra, la Palestina cambiò per sempre.

Oggi, aver scritto della guerra del ’67 mi sembra essenziale. Una tappa storica imprescindibile da conoscere per capire l’attuale assetto della cartina mediorientale. La Striscia di Gaza è stata occupata proprio durante quella guerra, così Gerusalemme e la Cisgiordania. Ho voluto spiegare una per una le sei giornate.

Oltre ai racconti di mia madre, un libro in particolare, quello di Rinaldo Ugolini, La guerra dei sei giorni in diretta, mi ha aiutata molto.  L’autore del libro, a Francoforte sul Meno in quel giugno terribile, si impegnò in un compito singolare: registrare su un magnetofono i vari giornali radio che trasmettevano notizie e commenti del conflitto e collezionare come documenti preziosi i quotidiani di lingua tedesca, francese e inglese, europei e statunitensi. Un lavoro di ricerca preziosissimo. Quel libro fu pubblicato da una società editrice “Il Ponte Vecchio”. E come potevo sapere, che anni dopo il mio libro sarebbe stato pubblicato da una casa editrice che porta il nome di un altro ponte di Firenze, “Ponte alle Grazie”.

Non credo nel caso, ma solo nel destino che in modo affascinante tesse fili, unisce ponti e compone tra loro minuscoli, invisibili pezzi. Ringrazio la casa editrice per aver accolto questa storia, per il suo coraggio e impegno nel narrare di questa epocale ingiustizia. Ora questa storia non è più mia, ma di tutti voi. Ho provato dolore scrivendola e forse ho anche trovato la risposta a quella famosa domanda che cercavo: forse il mondo è pieno di bulli e pieno di ragazzini che si voltano dall’altra parte mentre il compagno debole viene picchiato dal più forte.

Può essere questa la risposta? Forse. Troppi “forse” in queste frasi, mi rendo conto. Ma quando parlo e scrivo di Palestina lo faccio col cuore e quando si parla col cuore, si sa, ci si sente sempre zoppi, fragili, insicuri. Perché, quando i battiti di quel muscolo accelerano, la testa rallenta, si sente in “forse”, si sente a un passo dalla follia.

Copertina di "Il ragazzo con la kefiah arancione" libri ultime uscite marzo 2025

L’AUTRICEAlae Al Said, classe ’91, nata a Roma da genitori palestinesi, è cresciuta con l’amore per la sua terra d’origine e con un forte senso di giustizia. Si è laureata in Scienze internazionali a Milano e nel 2019 ha pubblicato Sabun, il suo primo romanzo (edito da Zambon). Ora esce in libreria per Ponte alle Grazie Il ragazzo con la kefiah arancione: la storia porta ad Al Khalil, in Cisgiordania, negli anni ’90. Loai Qasrawi parla con un giornalista americano venuto per ascoltare la storia della sua fabbrica di kefiah, quando una domanda imprevista fa riemergere il ricordo di una kefiah arancione.

E così si torna al 1961… Loai è un ragazzino dai capelli rossi. Piccolo, timido, studioso e con quei capelli fiammeggianti, è la vittima perfetta per i bulli della scuola. Il sostegno familiare non può bastare: il padre, indaffarato nell’azienda di famiglia, è distante; la madre e il fratello vorrebbero aiutarlo, ma non sanno come… L’incontro con Ahmad, ragazzo povero ma forte e sicuro di sé, gli offre una via di fuga e un modo per accettarsi: insieme condividono sogni di riscatto, è la nascita di un’amicizia.

Si arriva nel giugno 1967: una breve illusione, e la discesa in un incubo. È la guerra dei Sei giorni, l’occupazione. La prepotenza e la violenza che si abbattono su Loai e sull’intero suo popolo paiono una versione parossistica e mostruosa del bullismo subito un tempo. Loai ha di nuovo Ahmad al suo fianco, ma la lezione di resistenza ha ora connotati ben più tragici

Il romanzo narra una storia di amicizia, tradimento, resistenza, perdono, in una terra martoriata: e le vicende private dei protagonisti del libro, che esce in un momento storico molto particolare, si intrecciano alle vicende di un popolo che nella capacità di resistere ha mostrato la sua forza, rivendicando tenacemente il diritto alla propria terra.

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