Dopo il successo internazionale di “Cronorifugio”, Georgi Gospodinov torna con un’opera intima e struggente: “Il giardiniere e la morte” è un romanzo che medita sul tempo, sul lutto e sull’eredità della memoria. Attraverso la figura del padre morente, lo scrittore bulgaro costruisce un giardino letterario dove l’infanzia e la morte si sfiorano, dove la parola si fa cura e il ricordo diventa forma di resistenza all’oblio. Un libro che non racconta solo una perdita personale, ma affonda le radici nella storia collettiva, nella Bulgaria “povera e dignitosa”, nei miti e nell’amore che resta…
Se fosse un giardino, Il giardiniere e la morte di Georgi Gospodinov – edito da Voland, con la traduzione di Giuseppe Dell’Agata – sarebbe un orto fuori stagione, dal gusto dolceamaro e malinconico, con radici ed erbe che non smettono di risalire alla superficie.
Questo romanzo, che attinge a piene mani dal vissuto dell’autore bulgaro classe ’68, è un campo coltivato a memoria: i ricordi dello scrittore, fertili e meravigliosamente disordinati, si muovono a tentoni, alimentando una memoria tanto personale quanto collettiva.
Georgi Gospodinov, dopo il successo internazionale di Cronorifugio (romanzo vincitore del Booker Prize nel 2023), torna con un’opera più intima, più verticale; a differenza dell’ultimo romanzo, Il giardiniere e la morte è infatti un viaggio nel tempo privato che si espande fino a lambire il mito e l’universale.
La trama – se si può parlare di trama in un libro che assomiglia più a una meditazione ininterrotta che a una narrazione classica – è tanto semplice quanto spietata: un figlio (nel quale rintracciamo immediatamente lo stesso Gospodinov, seppur non sia precisato esplicitamente nel testo) accompagna il padre morente nel suo lento congedo dalla vita. Lo scrittore bulgaro, da maestro delle parole qual è, trasforma questo doloroso atto d’amore in una riflessione stratificata sul tempo, sulla perdita, sulla paternità come assenza, come eco che ci precede e ci sopravvive.
“Mio padre riusciva a trasformare ogni posto in un giardino, ogni abitazione in una casa” leggiamo nelle primissime pagine.
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E così fa il figlio con la scrittura: trasforma il dolore in paesaggio, il lutto in linguaggio. Gospodinov cerca di dare una connotazione concreta e tangibile alla morte, di definirla anche in quegli aspetti che sono tutto tranne che poetici. Non c’è un’estetica del morire, sembra suggerirci l’autore bulgaro, per malattie come il cancro del padre (per la precisione, il secondo tumore in poco meno di vent’anni), “montagna disincantata” che smentisce ogni epica. Ma nonostante ciò, può esserci bellezza nella lotta, nel ricordo, nella tenace volontà di continuare a vedere il padre vivo prima e anche dopo, nella memoria e nei sogni.
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Nel romanzo ricorrono soventi delle riflessioni volte a interrogarsi sull’idea di fine, sempre in bilico tra il reale e il metafisico, tra l’esperienza carnale e l’evocazione poetica. “Di cosa parliamo quando parliamo di morte?” si chiede Gospodinov, facendo volutamente eco al celebre racconto di Raymond Carver.
Parliamo forse della vita che resta, di quella bambina (figlia e nipote) a cui l’uomo vuole lasciare un ricordo, un segno della sua esistenza. Come se ricordare qualcuno fosse davvero un modo per salvarlo dal nulla, dall’oblio.
Gaustìn – figura immaginifica a metà tra alter ego e “grillo parlante” di Gospodinov – ritorna frequentemente in queste pagine come coscienza riflessiva, spirito guida, “filosofo senza cattedra” che ricorda a lettrici e lettori come nel passato il tempo non va in un’unica direzione. “Parlo dell’infanzia per non parlare della morte. Solo là, nell’infanzia, siamo praticamente immortali. Il più delle volte” racconta proprio Gaustìn in un estratto clandestino.
E in effetti, ne Il giardiniere e la morte, passato e presente si intrecciano come rami nel vento: si torna bambini quando si piangono i propri genitori, si diventa adulti nel momento in cui ci si accorge di non avere più nessuno che ci ricordi da piccoli.
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Georgi Gospodinov alla cerimonia di premiazione del Booker Prize 2023 con Time Shelter (in italiano Cronorifugio)
Il padre diventa agli occhi del figlio un simbolo poliedrico: non solo il genitore reale, ma anche l’archetipo perduto, il pezzo del puzzle mancante del socialismo, della religione e del mito. Dall’errante Ulisse all’evanescente genitorialità del Cristianesimo, in Gospodinov l’assenza della figura paterna è ciò che ha fondato viaggi e storie, e che in occasione della morte del proprio padre crea lo spazio per il ritorno, per il ricordo, per la narrazione.
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La lingua, nella traduzione di Giuseppe Dell’Agata, è sobria e poetica, densa di immagini che si depositano come polline sulla pelle. Come in ogni romanzo di Gospodinov emerge una Bulgaria viva, corpo e respiro del racconto: “povera e dignitosa”, come i protagonisti invisibili della storia. Qua e là, quasi in punta di piedi, ci parlano anche figure ricorrenti dei testi del bulgaro come mosche silenziose che si poggiano sulle pagine o gravi e timidi minotauri in cerca di redenzione…
Fino alla chiosa finale, non punto fermo ma flebile scintilla che illumina un’infinità di ulteriori interrogativi: “La morte è un ciliegio che matura senza di te“.
E forse Il giardiniere e la morte è proprio questo: un romanzo che fiorisce a nostra insaputa, che ci insegna a coltivare la perdita, a parlare dell’infanzia (con i suoi giochi ingenui, con il suo tempo sospeso, talvolta impalpabile) per non parlare della fine.
Georgi Gospodinov scrive come si piange: con pudore, con bellezza, con la segreta speranza che qualcuno ci stia ascoltando – o ricordando.
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Fotografia header: Il giardiniere e la morte di Georgi Gospodinov (nella foto Getty)