“Oggi so bene che farsi domande sulla morte è inevitabile, e umano: e so che si comincia presto. Sono domande da filosofi, quelle sulla morte, e sono domande da bambini. Sono domande a cui non si sfugge, perché la possibilità concreta, vicinissima, della morte, è il contraltare lapalissiano della consapevolezza di vivere”. Su ilLibraio.it le riflessione della scrittrice e filosofa Ilaria Gaspari, che cita, tra gli altri, Ingeborg Bachmann, Montaigne, Socrate, Platone ed Epicuro, e che nascono dall’emozione suscitata dalla scomparsa di Michela Murgia: “Una morte che ha colpito me, come molte, moltissime altre persone; la morte di un’autrice che nel nostro mondo algofobico ha raccontato l’avvicinarsi della fine, l’ha mostrato con una libertà spudorata di cui, credo, avevamo tutti bisogno…”
Sono seduta nella sezione bambini della biblioteca di un paesino così piccolo che pare quasi un’isola, più che un paesino. Sono tutta sola, in biblioteca, perché è una mattina d’estate e fuori le cicale fanno un gran baccano. Persino il bibliotecario si è spostato con la sua seggiolina sul ballatoio, fuori. Ha fatto bene. C’è un sole che spacca le pietre, il cielo è blu e oltre la finestra luccica un lago che un tempo era il cratere di un vulcano; sono qui da sola, in mezzo a libri su lupi blu e topini curiosi, e penso alla morte.
Ci pensavo già, alla morte, quando avevo l’età dei bambini per cui vengono pubblicati questi libri spiritosi e pieni di arguzie, che danno alle cose che succedono una forma comprensibile e persino gioconda? Non me lo ricordo; non se lo ricorderanno, fra trent’anni, i bambini che oggi giocano e strillano di gioia a mollo nell’acqua del lago; ricordo però un senso di vertigine che mi assaliva, ogni tanto, quando mi attraversava un pensiero fuori rotta: dov’ero, prima di esistere? Dove andava a finire, chi non c’era più?
Non riuscivo nemmeno a formularle come domande; erano brividi. Mi parlavano, allora, di una stella, una stellina in cielo in cui immaginavo passassero lunghe giornate identiche bambine e bambini in attesa di nascere – giornate a guardare giù, a seguire le vite dei futuri genitori; immaginavo che fosse la stellina, il luogo del ritorno, per chi di vivere si era stancato. Ero piccola e pensavo che si morisse solo per stanchezza; forse, era l’unica versione che mi pareva all’epoca accettabile.
Questi libri sui topini e i lupi blu, mi chiedo, sono in grado di attutirne quel genere di vertigini? Sono in grado di assorbire la pesantezza di un’angoscia così greve, quando colpisce?
Certo che lo sono. Come tutto quello che facciamo per vivere, per tenerci vivi, e per cercare di distrarci da quel pensiero fuori rotta – quello che mi atterriva nell’infanzia, e mi atterrisce ancora: cosa saremo, cosa sarà di noi?
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Quando ci sarà la morte noi non ci saremo, mi ripeto da quando per la prima volta ho sentito raccontare di Epicuro e del suo ragionamento pensato per essere farmaco, cura e soluzione alla paura; ma mi basta, mi può bastare? No, che non mi basta; anche se, certo, un po’ di conforto me lo offre. Le cicale continuano a cantare. Non ci saremo noi – ma dove saremo, allora? Me lo domando oggi, che il pensiero lo formulo per intero, non come quando avevo l’età dei bambini che con l’autunno torneranno a sfogliare libri in questa stessa stanza.
Oggi so bene che farsi domande sulla morte è inevitabile, e umano: e so che si comincia presto. Sono domande da filosofi, quelle sulla morte, e sono domande da bambini. Sono domande a cui non si sfugge, perché la possibilità concreta, vicinissima, della morte, è il contraltare lapalissiano della consapevolezza di vivere.
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Nel cuore della nostra coscienza di viventi, che si rifrange in miliardi di minuscole percezioni, nell’aria della mattina presto, che per qualcuno è troppo fresca e per qualcun altro un soffio delizioso di nuovo; nel profumo di un fiore che per qualcuno è gioia e per qualcun altro promessa di allergia; nell’abbaiare di un cane, che a qualcuno fa paura e a qualcun altro annuncia la festa dell’incontro, si annida un destino identico, che, come sciorina una saggezza antica in mille proverbi, livella ogni esistenza.
In realtà, se devo dire il vero, io non credo che la morte livelli proprio nulla; non credo che annulli le differenze fra una vita e l’altra, che perdurano nella vita che resta, quella che sopravvive e prende forma nei ricordi di chi resta, nei racconti intessuti di vero e di inventato – inventato, che è diverso dal falso – che creano ritratti forse infedeli, ma proprio per questo rivelatori: del segno di un affetto o della tenacia di un fastidio, di quello che in vita nessuno di noi potrà scoprire – e chissà, poi se qualcuno, potendo, oserebbe davvero sbirciare in questo destino inevitabile e spaventoso: cosa rimarrà, di noi, quando non potremo più sorvegliare l’amore degli altri, quando non saremo lì a spiarlo, a cercare di conquistarcelo, a instradarlo in una direzione o nell’altra? Quando non avremo scelta, se non quella di affidarci, senza supervisione, alla memoria di sguardi che non potremo controllare. Quando la paura di non essere amati, che ci accomuna tutti, non avremo più modo di schermarla con le azioni.
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Ma anche se la morte non ci rende identici, come non lo fa la vita, ci mette pur sempre nelle condizioni di confrontarci tutti quanti con la medesima angoscia di dissoluzione, con lo stesso segno soverchiante di impotenza. La paura di non essere amati in fondo è una faccia di una paura ancora più vasta, dell’orrore arcaico di scomparire. Ma come insegna il poeta, è dove alligna il rischio che prepariamo la nostra via per salvarci. E così nella notte più scura dei tempi, quando la sopravvivenza per gli esseri umani era un gioco d’azzardo, qualcuno, al riparo di una grotta, incominciò a lasciare segni sulle pareti di pietra: l’impronta di una mano, il disegno di una scena di caccia. I primissimi tentativi di addomesticare la prospettiva della morte, lasciando una traccia.
L’atto di scrivere, e di leggere, in fondo ha a che fare con questo sforzo specifico, di accettare che la propria vita sia compresa entro i limiti del tempo, e di provare a forzare quei limiti nell’unico modo concesso. Lasciando un’impronta, un segno intelligibile. Cantando quel limite, come si canta in un coro: unendo la propria voce a migliaia, a milioni di altre voci, che il limite l’hanno intuito, conosciuto, sfidato a loro volta. Sapendo in fondo che vincere è impossibile; la storia del pensiero e della scrittura, del lògos che sfida la paura della dissoluzione, è la storia di un coro di voci di vinti.
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Ma non per questo, sono voci da ignorare, o da sottovalutare, anzi: proprio la sconfitta inevitabile le rende tanto preziose. Perché mostrano, anche di fronte al destino più inevitabile e più innominabile, l’estendersi dell’azione; il segno possibile dello stile, inteso come scelta, come maniera di porsi di fronte, e contro la brutalità dell’evento, del dato di fatto, dell’inesprimibile. Che dall’azione, dalla scelta, dallo stile, di certo non viene addomesticato, eppure ne subisce e incorpora l’impronta.
Una delle voci più impressionanti della letteratura del Novecento, quella della scrittrice Ingeborg Bachmann, al culmine della propria fioritura poetica si intonò su un progetto di quadrilogia romanzesca intitolandola Todesarten, ovvero: modi di morire, ma in senso più proprio: stili di morte, come contrappunto all’espressione stili di vita (Lebens-arten), che il calco tedesco ripercorre.
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Il piano fu pensato e ripensato, ridotto a una trilogia, e comunque mai portato a compimento, a causa della morte dell’autrice, in un clamoroso atto mancato: incendiata la vestaglia dalla brace di una delle tante sigarette che ogni giorno fumava, fu protetta dal dolore che l’avrebbe salvata, se l’avesse avvertito, dai barbiturici che la ottundevano nella notte. Avverando nella tragedia il verso della poetessa cinquecentesca Gaspara Stampa (viver ardendo e non sentire il male) che in vita aveva tanto amato da usarlo in esergo a più di una poesia. Che anche il morire richieda un modo, uno stile – in tedesco, con etimologia significativa, Art – è una verità sconvolgente e difficile da accettare, eppure in qualche maniera, consolante. Perché è come se aprisse uno spiraglio nell’inguardabile, e in questo spiraglio si insinuasse, come una lama di luce, la possibilità di una postura etica, che somiglia a quel che la vita ci richiede più di quanto siamo abituati a pensare quando ci obblighiamo a ignorare la morte, a farne un tabù indicibile e invisibile, come la nostra società algofobica, per paura del dolore, per rifiuto di quel che ci riconduce al limite dell’inevitabile, dell’inamovibile, dell’invisibile, ci spinge sottilmente a fare.
Montaigne ha scritto, con il solito mirabile tocco per la sintesi indimenticabile, con il suo istinto schietto e sconcertante per la semplicità, che filosofare è imparare a morire; e l’ha scritto pensando, e citando, il più incredibile testo sulla morte che sia mai stato scritto, ovvero il Fedone di Platone, il dialogo in cui Socrate, in carcere, beve la cicuta, dopo aver consolato gli amici che lo piangono, dopo aver rifiutato di sottrarsi al destino, così ingiusto, impostogli dai suoi concittadini ciechi. Il dialogo in cui Socrate, barbuto folletto del pensiero, capace per forza d’animo di sopportare fatiche che piegherebbero chiunque, insensibile al caldo e al freddo quando è concentrato a inseguire l’invisibile filo delle sue ricerche, Socrate tutto lògos, tutto parole e ragionamenti e domande maieutiche, nella sua cella, circondato dagli amici, è un corpo che si irrigidisce nell’effetto letale della cicuta, e mentre il veleno lo intossica e la vita lo abbandona, continua a parlare, a insegnare, a mostrare ai suoi discepoli che la morte non nega la vita. E a guardarlo, scoppia in lacrime persino il boia, omaccione rotto alla più tremenda violenza, brutale esecutore di condanne, abituato certo a un’indifferenza di autoconservazione, che in quel singolo momento di verità si squarcia.
Socrate che muore da filosofo, essendo filosofo, e lascia nelle testimonianze dei discepoli il ricordo di questo momento, di questa Todes-art impossibile da spiegare, da trasformare in teoria, e che difatti Platone, il suo allievo devoto, non spiega ma racconta, trasformandola in un pezzo di drammaturgia indimenticabile. Anche Epicuro, del resto, nelle testimonianze dei discepoli e amici della sua scuola-giardino, lascerà il ricordo di una morte simile; morirà di mal di pietre, per dolorosissimi calcoli renali – il male di Montaigne, anche, per una strana ironia della storia della filosofia – vecchio per l’epoca, a settant’anni, trascorrendo fino all’ultimo momento, dopo essersi preso cura dei figli degli amici di cui era tutore, a chiacchierare bevendo vino, in una vasca d’acqua calda, accogliendo con serenità filosofica il suo destino.
Ognuno di noi ha una sua soglia di sopportazione del dolore, ognuno ha i suoi fantasmi e le sue paure, ognuno è vinto da qualcosa. Le morti filosofiche non sono un modello, né un obbligo etico da emulare; sono, però, importanti, io credo, da tenere presenti davanti agli occhi, perché confortano nei vivi la consapevolezza che anche sul passaggio che più ci ripugna, ci pesa, ci terrorizza guardare, noi possiamo gettare lo sguardo; senza rimuoverlo, senza ignorare.
Senza lasciarci paralizzare da una paura che ci illude di sgombrare il campo da quello che ci turba, e ci perturba, e invece lo rende un pensiero più segreto, più tenace e più spaventoso, e proietta anche sulla vita che precede la morte, e che verso la morte corre – la vita di chi ha una malattia che non permette guarigione, e che si porta dietro un immenso tema di bioetica, quello dell’eutanasia, la morte dolce che sfida l’offesa dello sfinimento prolungato, di cui la politica dovrebbe farsi carico – l’ombra di uno stigma terrificante, fatale, di un isolamento innaturale; del tabù della malattia e del corpo morente, che impone la solitudine anche a chi quel corpo lo ama, ed è destinato a sopravvivergli.
Sono pensieri che mi occupano in questi giorni di tarda estate, in un contrasto accecante, ma solo apparente, con il cielo blu e il sole sul lago; sono pensieri che mi spaventavano, ma che mi era necessario attraversare. E la ragione per cui sono stata costretta ad attraversarli è una morte che ha colpito me, come molte, moltissime altre persone che non la conoscevano; la morte di Michela Murgia, che nel nostro mondo algofobico ha raccontato l’avvicinarsi della fine, l’ha mostrato con una libertà spudorata di cui, credo, avevamo tutti bisogno.
Per essere liberi davvero, nel sentire la vita fino all’ultimo, dobbiamo sentirci liberi di scegliere, se pensare o no alla morte; non costringerci a rimuoverla dal campo dei pensieri e delle azioni, come un’inquilina indesiderata, come la pazza in soffitta che al primo momento di silenzio comincia a strepitare, e noi inermi non abbiamo parole per contrastare le sue grida.
L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Dal 2015 collaboratrice de ilLibraio.it, scrive per diverse testate e collabora con radio, tv e scuole di scrittura. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni. Nel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust. Per la collana digitale Quanti di Einaudi ha inoltre pubblicato il saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza.
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