Jon Fosse torna al romanzo con “Vaim”, opera che segna un ritorno alle origini dopo la “Settologia” e il Premio Nobel per la Letteratura del 2023. Non un “grande ritorno”, ma un nuovo ascolto del silenzio da cui nasce la sua lingua: ambientato nel villaggio di Vaim, il libro segue tre voci intrecciate intorno alla figura evanescente di Eline, donna amata, perduta e ritrovata solo nella memoria…

C’è un silenzio che precede ogni parola, e Jon Fosse lo abita come pochi altri.

Con Vaim (La nave di Teseo, traduzione di Margherita Podestà Heir), lo scrittore norvegese torna al romanzo dopo il Premio Nobel per la Letteratura del 2023, assegnatogli “per le sue opere innovative e la sua prosa che danno voce all’indicibile”. E lo fa senza concedere nulla alla retorica del “grande ritorno“.

Nessun clamore, nessuna posa da maestro consacrato: solo il ritmo ostinato di una lingua che continua a cercare, a scandagliare il fondo del silenzio. E forse è proprio in questa fedeltà all’essenziale che Fosse resta sé stesso: più che scrivere, sembra ascoltare ciò che il mare gli restituisce.

Nato a Haugesund nel 1959, cresciuto sulla costa occidentale della Norvegia, Fosse ha costruito nel corso di quarant’anni un corpus che scivola fra i generi, come la nebbia tra i fiordi: romanzi, testi teatrali, saggi e prose liriche.

Nelle sue opere Fosse ha fatto del linguaggio un organismo vivente

Autore schivo e appartato, definito “il Samuel Beckett del XXI secolo”, ha fatto del linguaggio un organismo vivente, un respiro che si interrompe e riprende, una preghiera laica sul limite dell’esistenza.

Una concezione che ha esemplificato in un’intervista al Guardian in occasione della vittoria del Nobel: “Scrivere, per me, è come entrare nello sconosciuto”.

Negli anni più recenti, grazie alla casa editrice La nave di Teseo, i suoi romanzi hanno trovato nuova risonanza anche in Italia, dopo le prime pubblicazioni Fandango: da Mattino e sera a L’altro nome, Io è un altro e Un nuovo nome, i tre volumi che compongono la monumentale Settologia, la sua impresa narrativa più ambiziosa. Sette libri scritti come un unico, ininterrotto flusso – senza punti, con frasi che respirano come onde – dove l’artista Asle medita sulla propria vita, sulla fede, sul dolore e sulla luce che filtra dalle tenebre dell’esistenza.

Vaim di Jon Fosse

 Vaim è un ritorno alle origini

Ma Vaim di Jon Fosse non è una semplice prosecuzione di quella ricerca: è un ritorno alle origini, un romanzo di memoria, un canto sommesso che sembra provenire dalle acque del villaggio natale. Questa esperienza di ritorno non è nostalgica per costume, bensì metodica: l’autore norvegese smonta la sua lingua fino all’essenziale e la lascia vibrare come una corda tesa sopra il vuoto.

Entriamo subito nella voce di Jatgeir – o Jat, nomignolo che porta con sé una piccola storia di smarrimento – e in quella voce si avverte, quasi palpabile, un attrito. Jatgeir è uomo fatto di abitudini e silenzi, capace di un’affezione tenace a una barca malconcia chiamata Eline: questa è descritta con la cura minuziosa di chi conosce ogni sostegno, ogni graffio rugginoso, ogni ticchettio del motore. Fosse trasforma l’oggetto in reliquia affettiva: Eline non è solo nome, è memoria di primo amore, un pezzo di vita che galleggia e spesso dice più degli uomini.

Altrettanto significativo è il fatto che il viaggio nasca da un motivo banale – utilizzare la barca Eline per andare in una città vicina a comprare ago e filo – un episodio grazie al quale Fosse mostra come l’ordinarietà possa aprire il varco al mito personale; basta un piccolo gesto perché ritorni la voce che chiama.

Da questo semplice avvenimento, scaturisce imponente la scrittura senza sosta di Vaim, ancora una volta “fluviale“. Ma qui il fiume scorre con un’ambientazione più strettamente materica: mare, legno, sale e reti; le virgole fungono da respiri fugaci, le frasi si allungano senza il conforto del punto per far sì che il pensiero rimanga in sospensione.

La struttura del romanzo è tripartita

La struttura del romanzo, invece, come spesso accade con Fosse, è tripartita: qui la divisione assume la forma quasi teatrale di tre atti di un unico canto che si dispiega nel tempo e nella memoria. Dopo la voce di Jatgeir, che apre il libro con la sua deriva solitaria tra le acque di Vaim, la narrazione passa a Elias, amico di lunga data e figura di confine: testimone silenzioso, ombra discreta e spesso ignorata. Elias è colui che resta a terra mentre gli altri partono, e proprio per questo il suo sguardo diventa una lente sul vuoto che rimane quando qualcuno scompare. Il suo racconto è fatto di attese, di un linguaggio che si sfilaccia nel tentativo di dare un senso a ciò che non può essere compreso. È la voce del “non detto” che abita i margini.

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Nel terzo atto il punto di vista si sposta nuovamente, questa volta su Frank, compagno di Eline, la donna a cui Jatgeir aveva dedicato la barca e che, con il suo nome inciso sul legno, diventa per tutto il romanzo una presenza fantasma, un nodo che lega e confonde i destini dei tre. Frank è colui che resta dopo la tempesta, l’uomo che cerca di capire cosa sia realmente accaduto: se la fuga di Eline sia stata scelta o richiamo, desiderio o condanna. La sua sezione, più quieta e meditativa, chiude il cerchio narrativo ma non lo risolve.

Fosse, come sempre, preferisce l’eco alla risposta.

Così, Vaim di Jon Fosse diventa un piccolo teatro di voci isolate che parlano la stessa lingua del mare: frasi che si rincorrono, ricordi che si confondono, presenze che riaffiorano e scompaiono. Nulla viene detto fino in fondo, ma tutto vibra di un’intensità trattenuta, come se il vero significato delle cose potesse essere colto solo nel loro riflesso sull’acqua.

Tematicamente, il romanzo prosegue l’indagine fossea sulla perdita e sul desiderio ma lo fa in maniera più austera: la speranza di un futuro condiviso appare sempre più sottile e il tono del protagonista si fa spesso rassegnato fino all’amaro. “Sì, la speranza di incontrare una donna, sì, con cui condividere la vita, come si dice, ma ora sono così vecchio che quella speranza è scomparsa, sono solo e resterò solo, sì, così stanno le cose e così saranno” non è solo confessione: è consapevolezza della finitudine.

Un uroboro che si morde la coda…

Una consapevolezza destinata però a infrangersi, rompersi narrativamente grazie alla reiterazione stilistica e strutturale, che rende il romanzo un uroboro che si morde la coda e che dà vita a uno svolgersi e ripiegarsi potenzialmente infinito.

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Ciò detto, con Vaim Jon Fosse non propone soluzioni, ma configura un’esperienza di lettura: un attraversamento lento e insistente dove la parola è l’unica zattera possibile. Chi cerca un romanzo che spieghi troverà poche risposte; chi accetta di unirsi al canto sommesso – a quel mare di domande che ricorda – sarà premiato da pagine in cui la lingua, lavorando al limite dell’esprimibile, riesce a toccare ciò che conta: il rimpianto, la tenacia dell’attesa, la forma in cui il ricordo si ripete per non estinguersi del tutto.

E quando l’ultima pagina si chiude, resta soltanto il suono del mare – o forse della scrittura stessa – che continua a mormorare sottovoce: sì, tutto passa, ma nulla scompare davvero.

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Fotografia header: Vaim di Jon Fosse, nella foto di Tom A. Kolstad

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