Apple guarda con interesse al settore editoriale che, negli ultimi anni, si è caratterizzato per i complessi rapporti tra gli editori e le piattaforme digitali come Google e Facebook. L’azienda di Cupertino, infatti, ha fatto qualche passo: ha iniziato ad assumere professionisti con competenze editoriali, e soprattutto, ha acquisito Texture, un’applicazione definita “il Netflix del giornalismo” – L’approfondimento

A febbraio di quest’anno ha fatto parlare una lunga (e iper-documentata) inchiesta di Wired su Facebook. Nicholas Thompson e Fred Vogelstein hanno intervistato più di cinquanta persone e così ne hanno potuto raccontare gli ultimi due anni, caratterizzati dal ruolo che il social ha giocato nelle elezioni presidenziali statunitensi e, di conseguenza, dalla crisi di percezione dell’opinione pubblica nei confronti del gigante tecnologico.

Parallelamente, l’inchiesta delineava anche una crisi di percezione interna all’azienda. Facebook ha riconosciuto (meglio: si è rassegnata ad accettare) di non essere soltanto una piattaforma – dunque, solo una azienda tecnologica – ma, pur non producendo contenuti propri, anche un editore, con tutte le conseguenze del caso. Le sue scelte editoriali hanno effetti sulla vita pubblica, le sue scelte strategiche esiti diretti sull’industria dei media, suoi concorrenti.

Dalla la nascita del web 2.0 (quello dei social, dei contenuti prodotti dagli utenti), in maniera crescente, gli editori e i big tech hanno stretto un rapporto diretto, di dipendenza e di scontro. Le piattaforme usano i contenuti prodotti dagli editori (le news, per fare un esempio) e gli editori sono diventati sempre più dipendenti dalle piattaforme. Entrambi basano in larga misura i propri ricavi sulla pubblicità online, ma Google e Facebook controllano praticamente l’intero mercato. Il caso di Facebook, poi, è particolare: dal 2012, per contrastare Twitter, ha dato rilievo alle news diventando la principale fonte di referral per contenuti editoriali; a gennaio del 2018, in seguito agli scandali, ha modificato (ancora una volta) l’algoritmo privilegiando i contenuti privati a dispetto delle pagine (qualcuno sospetta che ci sia anche un interesse economico: ora per ottenere risultati soddisfacenti su Facebook occorre sponsorizzare i post) con la conseguenza che, per esempio, Slate, una testata americana, ha perso in pochi mesi l’87% del traffico da Facebook. Non a caso, negli ultimi mesi è cresciuta l’attenzione dei media online per la Seo, con il conseguente aumento medio del traffico proveniente da Google.

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(via Slate)

Tornando al social di Zuckerberg, l’influenza è tale che alcuni esperimenti sull’algoritmo in pochi paesi a ottobre del 2017 hanno mandato in crisi l’editoria locale. Come riportava Anna Momigliano su Rivista Studio, il comportamento di Facebook quando si muove è quello di un elefante che calpesta una formica. Naturalmente, gli editori hanno cercato delle contromisure: da un lato, molti hanno puntato a fonti di ricavo alternative (negli Usa, infatti, l’anno scorso c’è stato un boom dei paywall che non accenna a diminuire), dall’altro ci sono tentativi politici che mirano a cambiare le regole.

I più recenti, quelli della discussa normativa sul copyright dell’Unione Europea, si sono arenati e probabilmente dovranno essere ripensati entro settembre dopo le polemiche dei giorni scorsi. Facebook, in ogni caso, è in ottima compagnia: anche Google è al centro delle stesse problematiche: in Francia, per esempio, è sceso a patti con gli editori garantendo un fondo di 60 milioni di euro (che, a onor del vero, sono briciole); in Spagna, invece, nel 2015 è stata approvata una legge (in particolare l’articolo 32.2 della Ley de propriedad intelletual) che provava a tassare Google News a ogni citazione. Google ha mostrato il pugno duro e ha chiuso il suo servizio con effetti nefasti.

In questo contesto – qui estremamente riassunto – sta facendo i propri passi Apple, che per ora conduce la gara a chi diventerà la prima azienda a valere mille miliardi di dollari, in vantaggio rispetto a Google, Facebook, Microsoft e Tencent. L’azienda di Cupertino, infatti, non vende soltanto hardware elettronici ma, come riporta Techcrunch, l’anno scorso ha sottolineato che i ricavi derivanti dai servizi digitali (Apple Music, Apple Care, iBooks, Apple Pay, ecc.) hanno toccato i loro record. Il servizio dedicato alla musica cresce a dispetto delle flessioni dei suoi concorrenti, come Spotify, a cui ha sottratto parte del mercato. Potrebbe esserci la stessa dinamica nel settore editoriale?

Apple News, l’app dedicata alle notizie è stata rilasciata nel 2015, attualmente è disponibile soltanto negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Australia. Da novembre dell’anno scorso è stato notato un picco negli annunci lavorativi di Apple per la ricerca di posizioni giornalistiche che, secondo gli analisti, segnala il suo maggior interesse nei contenuti editoriali. Le posizioni aperte infatti includevano ruoli come un “Politics Editor”, un “Business Editor”, un editor che si occupasse di Usa da Londra, degli Art director; praticamente Apple cercava intere newsroom.

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(grab via Joshua Fruhlinger)

In questo si è differenziata da Facebook. I giornalisti assunti da Facebook, da cui sono partiti i leak interni che hanno portato all’inchiesta di Wired erano stati assunti allo scopo di addestrare, attraverso le loro scelte, gli algoritmi che li avrebbero sostituiti, con i pessimi risultati che hanno portato Zuckerberg a essere interrogato dal congresso statunitense. Tim Cook, per distinguersi, ha recentemente dichiarato che le notizie stavano diventando un po’ pazze e per coprire le elezioni di metà mandato americane del prossimo autunno attraverso Apple news ha preferito affidarsi a dei curatori in carne ed ossa, con competenze giornalistiche. Cosa che mette la sua azienda in buona luce sia nei confronti dell’opinione pubblica, ancora colpita dalla vicenda troll russi, sia nei confronti di chi a vario titolo produce contenuti, che non stravede di fronte alla possibilità di essere sostituita dagli algoritmi.

Ma non è l’unico modo attraverso il quale Apple potrebbe capitalizzare le opportunità date dal contesto recente. La notizia più importante e densa di possibili conseguenze è un’altra: Apple a marzo di quest’anno ha dato la notizia di aver acquisito Texture, un’applicazione di Next Issue Media LLC, di proprietà di alcuni dei gruppi editoriali più importanti al mondo (Condé Nast, Hearsth, Meredith, Rogers Media, KKR). Texture è stata definita come il Netflix del giornalismo. Infatti, attraverso il pagamento di una sottoscrizione mensile, permette l’accesso illimitato a moltissime riviste (più di 200) tra cui alcune delle più lette al mondo, come l’Atlantic, Esquire, Bloomberg Businessweek, Forbes, National Geographic. Non è chiaro cosa succederà a Texture, ma secondo un report di Bloomberg entro un anno Apple lo integrerà lanciando il proprio servizio di abbonamento, con modalità simili a quelle di Apple Music. Eddy Cue, che si occupa dei Software Internet e dei Servizi di Apple, ha dichiarato che l’azienda è impegnata nei confronti del giornalismo di qualità, da fonti fidate, e a permettere alle riviste di continuare a poter produrre storie di alta qualità per gli utenti.

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(via Bloomberg)

Una sottoscrizione che comprende diverse fonti non è un’assoluta novità e se ne parla da anni. Texture infatti è stata lanciata nel 2012 e un servizio simile, Blendle (non si paga al mese, ma ad articolo) nel 2013. Ma i tempi sembrano più maturi, per tutta una serie ragioni connesse tra di loro. Gli editori faticano sempre di più a sostenersi economicamente e il modello basato sulla pubblicità sembra funzionare sempre meno, a causa delle quote di mercato di Google e Facebook. Il boom dei paywall poi, per l’utente ha delle fragilità: più si diffonde, più incontrerà un problema ovvio: quanti abbonamenti è disposto a sottoscrivere un singolo cliente?

Apple farebbe gli interessi di entrambi: darebbe una nuova fonte di ricavi agli editori, in rotta con il sistema attuale, e farebbe risparmiare i lettori. Non solo; bisogna aggiungere che il contesto, soprattutto in America, ha aumentato sia la domanda di contenuti di qualità sia il numero dei lettori (è l’effetto Trump), e che Apple è tra le poche aziende che hanno un’infrastruttura economica capace di competere con Google e Facebook. Non soltanto per la sua grandezza, ma anche per i suoi metodi. La sua forza – nel bene e nel male – è stata sempre la capacità di riuscire a rendere più comodo per l’utente l’utilizzo di tutto il suo ecosistema di prodotti, rendendo difficile, o scomodo, rivolgersi alla concorrenza.

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È difficile ipotizzare che con questo sistema chi produce contenuti online possa trovare l’equilibrio strutturale che l’intera industria rincorre da anni (e infatti il primo provvedimento di Apple dopo avere acquisito Texture è stato tagliare il personale del 20%), ma è più probabile rispetto al passato che un modello simile possa funzionare, creando qualche problema al sistema attuale e nuove opportunità. Di certo, però, anche Apple sta facendo dei passi (da elefante?), per diventare, come Facebook, anche un editore.

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