Carmela Scotti è al debutto nel romanzo con “L’imperfetta”, dopo esser stato finalista al premio Calvino. Su ilLibraio.it un capitolo

Carmela Scotti, nella foto, è al debutto nel romanzo con  L’imperfetta, in libreria per Garzanti dopo esser stato finalista al premio Calvino.

Il libro racconta la storia di una ragazza coraggiosa e troppo sola. Della sua voglia di vivere contro tutto e tutti. Di una stella che continua a brillare anche in un cielo coperto di nuvole.

Per Catena, la protagonista, la notte è sempre stata un rifugio speciale. Un rifugio tra le braccia di suo padre, per disegnare insieme le costellazioni incastonate nel cielo, imparare i nomi delle stelle più lontane e delle erbe curative, leggere libri colmi di storie fantastiche. Ma da quando suo padre non c’è più, Catena ha imparato che la notte può anche fare paura e può nascondere ombre oscure. L’ombra delle mani della madre che la obbligano al duro lavoro nei campi e le impediscono di leggere, quella degli occhi gelidi e inquieti dello zio che la inseguono negli angoli più remoti della casa. Le sue sorelle sembrano non vederla più, ormai è la figlia imperfetta e il ricordo del calore dell’amore di suo padre non basta a riscaldare il gelo nelle ossa.

Catena ha solo quindici anni quando decide che non vuole più avere paura. E l’ultima notte nella sua vecchia casa si colora del rosso della vendetta. Poi, la fuga nel bosco, dove cerca riparo con la sola compagnia dei suoi amati libri. È grazie a loro e agli insegnamenti del padre che Catena riesce a sopravvivere nella foresta. Ma nel suo rifugio, fatto di un cielo di foglie e di rami intrecciati, la ragazza non è ancora al sicuro. La stanno cercando e per salvarsi Catena deve ridisegnare la sua vita, la vita di una bambina che è dovuta crescere troppo in fretta, ma che può ancora amare di un amore forse imperfetto, ma forte come il vento…

Su ilLibraio.it un capitolo, per gentile concessione dell’editore

LA CAPANNA

Il bosco che attraversai nella fuga era di un verde diverso da quello a cui ero abituata, freddo e pesante, agitato dai suoni di mille animali. C’era un cielo fitto di foglie sopra la mia testa, rotto, ogni tanto, da lamenti di uccelli e strappi di sole.

Doveva essere mezzogiorno quando mi fermai. Non sapevo dove fossi né se qualcuno, a casa, avesse già chiuso gli occhi di mia madre. Era già cambiato il colore della sua pelle? Era diventata bianca e secca com’era successo a mio padre? Qualche ora dopo la sua morte, il corpo di mio padre si era fatto freddo come l’acqua del pozzo in inverno, e la pelle della fronte scivolava via al contatto delle dita in minuscole scaglie portate dal vento. Immaginai che tutto del suo corpo
potesse diventare leggero come polvere, salire verso il cielo e poi precipitare giù senza fretta, sui campi, sui tetti delle case, sulle teste nere e rotonde dei corvi.

Una capanna cancellò i ricordi del passato dagli occhi. Era una costruzione piccola, fatta di travi marce, lame di sole e molto silenzio. Assomigliava a me, quella capanna, era la mia faccia allo specchio, era lo specchio stesso, che conteneva tutto il mio cammino. All’interno, il sole a cascate lente
precipitava a terra; soffice atterrava, su piume morte ed escrementi, su una vecchia scarpa da cui uscì un topolino bianco che fuggì via con la coda dritta al cielo. Scelsi l’angolo sinistro della capanna come mio riparo perché, se la porta si fosse spalancata nel mezzo della notte, da quella posizione mi sarei potuta difendere, scappare a destra e a sinistra, o rinchiudermi incassando la testa, come la chiocciola nel suo guscio. Sdraiata in terra, ascoltai gli alberi piegarsi nello stesso momento e il cielo farsi pesante, colore della neve.

Rintanata in quel rifugio spaventoso e calmo, in quell’angolo di bosco senza voci, mangiai un pezzo di pane che avevo portato con me e lo mandai giù con l’acqua della borraccia. Sarebbe stata questa la mia vita, d’ora in poi? Scavata nel cibo e nel sonno, fino alla porta di una prigione o alla bocca affamata di un animale? Per molto tempo, durante quella giornata, mischiai le cose vere ai sogni, ascoltai i rumori senza capirne la provenienza, immaginai che l’intero bosco fosse solo una bugia.
Tutto quello che avevo era la somma di cose sconosciute.

Dov’ero? Chi aveva costruito quella capanna inchiodando un’asse dopo l’altra? Cosa avrei mangiato, una volta finita la pagnotta di grano e il poco cibo che avevo portato con me? La polvere delle travi in gola, le fette di sole a segare lo spazio, tutte le azioni che avevo compiuto, tutto il vero e il sognato, tutte queste cose infilate sotto la pelle, contorte e storte come le bocche di certi vecchi.

Tirai fuori dalla sacca uno dei libri di mio padre e lo tenni aperto sulle gambe, perché mi salvasse dai brutti pensieri. Arrivò la luna, e con lei il freddo piovuto dalle assi, insieme alla polvere del bosco. Mi resi conto che quella notte era diversa da tutte le altre, perché io ero sola sulla terra e, per la prima volta, la mia vita aveva assunto la forma della fuga. La mia prima notte da assassina la passai con le dita sulle stelle e la schiena sulla terra, e nessun senso di colpa sulle palpebre pesanti.

(continua in libreria…)

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