Nel libro memoiristico “Nuotando nell’aria” Cristiano Godano racconta la sua trentennale esperienza nei Marlene Kuntz a partire dai primi tre, celebri, album del gruppo: “Catartica”, “Il vile”, e “Ho ucciso paranoia”. Intervistato da ilLibraio.it, il cantante e autore parla del ruolo dei testi nelle canzoni della band, del rapporto con le nuove generazioni e di quello tra musica e impegno politico: “Quando fai un’affermazione di natura etico-sociale-politica nelle tue pagine social sulla tua pagina si scaraventano una manciata di hater con la famosa frase: ‘Pensa a suonare che ti viene meglio’. A me sembra sia un’intimidazione molto efficace e che questo ‘Pensa a suonare che ti viene meglio’, oppure ‘Vi buttate in politica perché non vi segue più nessuno’, stia effettivamente mettendo in difficoltà la categoria dei musicisti, che preferisce non schierarsi. Probabilmente c’è anche la paura di perdere parte del pubblico…”

Cristiano Godano (nella foto di Leonardo Rinaldesi, ndr) è conosciuto soprattutto per la sua carriera trentennale nei Marlene Kuntz, gruppo alternative rock attivo dalla fine degli anni Ottanta e diventato di culto tra gli anni Novanta e i primi Duemila. La storia musicale dei Marlene è fatta di evoluzioni e cambi di rotta (e in trent’anni non potrebbe essere altrimenti), e lo stesso vale per quella artistica di Godano.

Autore non solo di testi di canzoni, pubblica nel 2008 la raccolta di racconti I vivi con Rizzoli e torna in libreria in queste settimane con Nuotando nell’aria (La nave di Teseo), in cui segue canzone per canzone la genesi dei primi tre album dei Marlene Kuntz (Catartica, Il vile, e Ho ucciso paranoia).

Nuotando nell’aria, che prende il nome da uno dei più celebri brani del gruppo, è un libro particolare, di forte stampo memoiristico e narrativo. Segue infatti parallelamente la storia umana e musicale dei Marlene Kuntz e del venti-trentenne Cristiano e, con una prosa distintamente narrativa, alterna ricordi personali e considerazioni sul mondo della musica italiana a riflessioni socio-politiche su un’attualità vissuta dall’autore con particolare urgenza. ilLibraio.it l’ha incontrato.

Nuotando nell'aria di Cristiano Godano

Nuotando nell’aria è un lungo scavo nella memoria, in cui gli avvenimenti del suo passato sono raccontati con immagini vivide. Com’è stato tornare ai suoi venti-trent’anni?
È stato divertente, stimolante e coinvolgente. Non ho avuto epifanie dolorose o imbarazzanti, e non ho riscoperto parti di me che avevo dimenticato. Anzi: evidentemente in tutti questi anni mi sono ‘tenuto d’occhio’, perché non ho dovuto fare degli sforzi importanti per riempire di dettagli il libro. È stata un’operazione che mi ha sorpreso nella sua spontaneità.

Nell’Introduzione scrive: “come se non fosse sempre stato un tratto caratteristico dei musicisti rock avere a cuore quel tipo di temi che ora i tendenzialmente sovranisti rubricano alla ignobile categoria dei buonismi”. Come avverte oggi la sua persona politica? È cambiato qualcosa rispetto al passato?
Sì. Mi è capitato di chiedermi se non sia da mettere in connessione con la mia età: se invecchiando si diventi un po’ più sensibili e ci si accorga di più di alcune cose. Su questo non ho una risposta esatta, però mi sembra di vivere in un contesto autoritario che prima non c’era, e che per me è abbastanza da incubo. Come Marlene Kuntz, in ambito artistico abbiamo sempre rivendicato la nostra fiera indipendenza rispetto alle intromissioni nell’ambito politico. Ho una visione dell’arte puramente e prettamente ‘artistica’: quando fruisco di un’opera d’arte, che siano libri, cinema, o musica, quello che colpisce la mia attenzione è sempre qualcosa che è connesso al movimento creativo dell’autore, i dettagli insomma. Certi dettagli, se hai la pazienza di scovarli, inebriano, danno un’emozione molto forte, e a me non hanno mai emozionato le considerazioni politiche, o etico-sociali. Però, a causa di questa attualità da incubo, sentiamo un’urgenza etica: ogni mattina leggiamo i giornali (facciamo parte di quella categoria in via d’estinzione che compra i giornali tutti i giorni) e nell’80% dei casi c’è sempre qualcosa di allarmante. Sentiamo la necessità di comunicare questo allarme con l’esterno: non è possibile continuare a stare zitti, e noi non stiamo zitti, perché sappiamo di avere una nostra piccola cassa di risonanza e di avere la possibilità di contribuire a una riflessione collettiva.

I Marlene Kuntz cominciato a suonare in un milieu indipendente, in cui l’alternativa al mainstream era anche – ma non necessariamente – politica. Oggi è ancora possibile trovare questo tipo di ‘antagonismo culturale’?
Secondo me non c’è molto. Quello che registro è un allarmante silenzio da parte dei miei colleghi e non riesco bene a giustificarlo e ad accettarlo. Mi sembra emblematica quella frase dell’Introduzione a cui accennava prima: quando fai un’affermazione di natura etico-sociale-politica nelle tue pagine social vieni immediatamente intercettato dagli algoritmi e sulla tua pagina si scaraventano una manciata di hater con la famosa frase: ‘Pensa a suonare che ti viene meglio’. A me sembra sia un’intimidazione molto efficace e che questo ‘Pensa a suonare che ti viene meglio’, oppure ‘Vi buttate in politica perché non vi segue più nessuno’, stia effettivamente mettendo in difficoltà la categoria dei musicisti, che preferisce non schierarsi. Probabilmente c’è anche la paura di perdere parte del pubblico.

E a voi non fa paura?
Non è che i Marlene Kuntz siano così incoscienti da non aver paura di perdere il pubblico, però non si può neanche avere un pubblico composto in buona percentuale da persone che non sanno più tenere a mente i valori fondamentali, al di là delle appartenenze politiche. Anche perché, per quanto io provenga da un’area di riferimento che è a sinistra, ritengo che in un contesto democratico sia sana l’alternanza politica. Però è in atto una drammatica perdita di valori: l’empatia, la compassione, il principio di accoglienza. Il problema dell’immigrazione è enorme, e non si risolve certo con due chiacchiere liquidatorie sui social, andrebbe affrontato in altro modo, chiaramente non con intenti propagandistici.

Per esempio?
Non ho una soluzione in tasca, però è evidente che non possiamo dimenticarci che non è possibile lasciare marcire su una nave, sotto il sole o al gelo, delle persone che arrivano dopo un viaggio terribile, dopo aver passato mesi in Libia in veri e propri campi di concentramento. Quando vediamo cose analoghe a quelle che succedono in Libia in film come Schindler’s List stiamo male: eppure ci stiamo disinteressando dello stesso tipo di angherie per cui poi ci chiediamo come sia stato possibile che la società civile sia stata in silenzio durante il regime nazista. Oggi siamo anche noi zitti e in silenzio. E non possiamo, in un contesto europeo dove da settant’anni viviamo in pace, dimenticarci di queste cose: è grave, preoccupante.

Tornando al libro, lei ha scritto anche una raccolta di racconti per Rizzoli, I vivi, e molti passi di Nuotando nell’aria sono estremamente narrativi. Nella sua esperienza culturale, a che esigenza risponde la narrativa rispetto alla scrittura musicale?
In trent’anni di appartenenza al mondo della musica, percorso che rivendico con orgoglio, alla fine è successa una cosa curiosa, di cui ho preso atto progressivamente nel corso degli ultimi anni: sono andato a cercare delle consapevolezze (e come più volte sottolineo nel libro la ‘consapevolezza’ per me è un valore importante) più in ambito letterario che in quello musicale. Per quanto riguarda scrittura e letteratura ho molte cose da dire, mentre ne ho meno dal punto di vista tecnico-musicale. Con questo intendo dire che so spiegare bene un testo di canzone, so spiegare bene il processo creativo, so spiegare cosa voglia dire mettere insieme delle parole, ma non so narrare altrettanto bene la musica dal punto di vista delle note, degli accordi, dell’armonia, della melodia. Lo so fare, certo, ma in una maniera molto rock’n’roll. Evidentemente ho una grossa fascinazione nei confronti della letteratura, e la prosa mi permette di esprimermi in maniera più compiuta rispetto a un testo per canzone. La scrittura di un testo per canzone appartiene all’ambito della poesia (per quanto siano due cose diverse, anche noi musicisti scriviamo in versi, facciamo una scelta molto minuziosa e particolareggiata delle parole, che devono essere veramente le più precise possibile) ed è un processo un po’ diverso rispetto a quando si scrive in prosa e ci si può permettere di lasciarsi un po’ più andare.

A proposito di testi per canzone, che rapporto hanno i Marlene Kuntz con la tradizione cantautoriale italiana?
Il più connesso forse sono io, per quello che ho appena detto su letteratura e scrittura. Riccardo nasce come metallaro e Luca come post-punkettaro, ma entrambi non hanno un grosso rapporto con la scrittura, e chiaramente se si parla di cantautori non si può prescindere dall’aspetto letterario, anche perché a volte le canzoni dei cantautori sono musicalmente meno interessanti di certe composizioni rock. Io sono cresciuto con i cantautori italiani, a quindici, sedici, diciassette anni; poi, quando mi sono spostato verso il rock, le mie fascinazioni si sono orientate verso alcune grandi figure internazionali: Neil Young, è uno dei miei idoli di sempre, lo inserisco nel mio ‘presepe personale’, così come Nick Cave, che è a tutti gli effetti un cantautore, sui generis ma un cantautore, e lo stesso grande fascino su di me lo ha esercitato Leonard Cohen, o lo stesso Bob Dylan.

Nella composizione/creazione dei brani dei Marlene Kuntz che rapporto c’è tra quello che potremmo definire il significante della musica e il significato dei testi?
Sono molto attratto dalla dimensione e dalla voluttà estetica del verso. Per me il significante è bello nella sua forma e spesso cerco di avere (anche per una semplice soddisfazione personale) il colpo d’occhio sulle mie composizioni, perché ogni composizione è un processo. La canzone nasce per essere cantata, non per essere letta, però ammetto che a me piace che il mio testo sia bello anche da leggere, e questo è un piccolo cedimento alla vanità che deriva dal fatto che io credo molto alla funzione visiva della poesia. La poesia, da un bel po’ di tempo a questa parte, nasce per esser letta, e io non riesco molto a prescindere da questa cosa: immagino che il mio ascoltatore mi venga comunque a leggere, anche se i miei sono testi di canzoni, non poesie.

E pensa che oggi il rock – nelle sue varie declinazioni – abbia ancora un linguaggio musicale e semantico comprensibile agli adolescenti (o più in generale ai giovani)?
Potenzialmente la risposta è sicuramente più no che sì. Non me ne faccio un grosso problema, ma non perché sono snob o menefreghista, semplicemente perché mi è impossibile pensare di adottare un linguaggio semanticamente più agile per venire incontro alle nuove generazioni. Questo mi preclude anche un potenziale pubblico, però è più forte l’urgenza artistica. So di essere complicato, so di utilizzare un linguaggio che non è quello di oggi, però capitano spesso situazioni in cui mi rendo conto che la reazione dell’ascoltatore giovane – quando ho modo di esperirla – non è tanto straniamento quanto propensione a rizzare le antenne: c’è un potere insito nelle mie parole che riesce in qualche modo a scardinare qualche meccanismo. È come se ci fosse una persuasività occulta, sotto traccia, che ha speranza di essere intercettata. Anche se, ripeto, sono consapevole che non sto parlando con facilità a una categoria di giovani ben precisa… in ogni caso anche fra i miei coetanei c’era molta gente che non avrebbe avuto nessuna voglia di affrontare i miei testi, che richiedono un po’ di pazienza. Quindi, escludendo quelli che a prescindere non mi vorrebbero comunque affrontare, le mie canzoni hanno un potenziale persuasivo tra i giovani che hanno già un’attitudine positiva e costruttiva nei confronti della musica.

Un’ultima domanda: come mai ha scelto Nuotando nell’aria – tra tutte le canzoni di cui parla – per dare titolo al libro?
Perché sono consapevole che è una canzone molto evocativa e di successo dei Marlene Kuntz. E poi, per fare un’affermazione di puro marketing, l’immagine è molto bella di per sé, quindi è un titolo che può essere accattivante all’istante. In più, nel libro sottolineo spesso quante volte i miei testi proiettino me o i miei protagonisti per aria. C’è una strana e curiosa connessione con la dimensione aerea dell’esistenza (e a un certo punto ricordo anche le Lezioni americane di Calvino, quella sulla leggerezza, dove si dice che una delle caratteristiche del poeta è quella di volare per aria, sganciandosi dalla contingenza terrena). E in questo mio esercizio di memoria, andando a ripercorrere il me stesso trent’anni fa, mi sono reso conto che era un aspetto che mi connotava molto. Infine ironizzo sul fatto che ho paura degli aerei: non mi piace volare, ovviamente lo faccio, ma prima mi imbottisco di un sonnifero che mi faccia dimenticare le mie sofferenze. Chiaramente questa è un’ironia, ma in ogni caso Nuotando nell’aria oltre a essere un titolo che può funzionare è anche un titolo che racconta una parte di me.

Fotografia header: foto di Leonardo Rinaldesi

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