David Foster Wallace è uno dei più importanti scrittori contemporanei: il suo capolavoro “Infinite Jest” lo ha reso celebre nel mondo. La depressione di cui ha sofferto e gli studi sul postmoderno hanno condizionato profondamente i suoi romanzi e i suoi saggi – L’approfondimento (con un dubbio finale…)

Ci sono due grandi fraintendimenti, a proposito di David Foster Wallace. Il primo è riferirsi al suo suicidio, avvenuto il 12 settembre 2008, come orizzonte inevitabile della sua esperienza umana e artistica. Il secondo riguarda la sua eredità di scrittore, esposta a troppo semplici etichette: il postmoderno, per un genere che in realtà evolve di opera in opera, e l’arguzia, come elemento principale di testi molto più complessi e – per la verità – feroci (ad eccezione, per fortuna, del suo mastodontico capolavoro del 1996, Infinite Jest, la cui mole non può fisicamente sopportare etichette troppo strette).

Infinite Jest di David Foster Wallace

Il giovane DFW: antidepressivi e filosofia analitica

Nato nel 1962, David Wallace – Foster è il cognome della madre, che aggiungerà solo in seguito – è significativamente influenzato dagli interessi culturali dei genitori, entrambi professori. Si appassiona infatti ben presto alle stesse materie di ricerca paterne e persegue una carriera universitaria che riesce a essere proficua e veloce nonostante un ricovero in una clinica psichiatrica e la forte depressione di cui lo scrittore ha sempre sofferto.

Tuttavia pensare che fossero gli antidepressivi a dare a Wallace la carica dirompente delle sue riflessioni teoriche e dei suoi scritti non è esatto. Nella mente di David Foster Wallace nozioni di filosofia analitica, matematica e letteratura si incastravano alla perfezione e andavano a formare complesse cattedrali di pensiero. Si potrebbe dire allora che gli antidepressivi, forse, più che influire attivamente sulla scrittura di Wallace, bloccassero le forze interiori che gli avrebbero impedito di scrivere: non doping, ma una sorta di diga mentale.

Il romanzo La scopa del sistema

Basti pensare che il suo acclamato romanzo d’esordio, La scopa del sistema, è stato pubblicato nel 1987 quando Wallace aveva appena venticinque anni. Il romanzo è imperniato sulla filosofia di Wittgenstein, materia di studio del padre di Wallace, e presenta – quello sì –  profonde influenze postmoderne che nel corso delle opere successive andranno via via scemando.

David Foster Wallace: un genio d’altri tempi

Si può a ragione sostenere che David Foster Wallace fosse un genio. Non un genio nel senso abusato a cui ci ha abituato internet, bensì un genio in un senso più classico e quasi “antico” del termine. David Foster Wallace era un genio come poteva esserlo il già citato Wittgenstein, un’agitata meteora che fa e disfa pensieri e in cui la profondità morale si unisce a una solidissima impalcatura teorica.

Le sue interviste – e per nostra fortuna se ne possono trovare molte su internet – sono strabilianti, anche da un punto di vista comunicativo. Sempre in bilico tra il disagio di chi vorrebbe essere altrove e l’agio di chi padroneggia alla perfezione un argomento, Wallace risponde un attimo dopo la conclusione della domanda, senza esitare mai, in modo fluviale e precisissimo. Parla di sociologia, di letteratura e di matematica (argomento che conosceva a fondo, come dimostrato nel saggio sull’infinito Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito, del 2003), con una semplicità estrema, sia nella scelta della sintassi sia nella costruzione delle frasi.

La ragazza dai capelli strani, di Wallace

Una parabola letteraria e umana

Che si leggano raccolte di racconti come La ragazza dai capelli strani, del 1990, o i saggi di Considera l’aragosta, del 2006, e Portatile, antologia appena uscita con Einaudi Stile Libero, l’elemento che accomuna narrativa e saggistica è sempre uno: la continua, quasi ossessiva, attenzione verso l’altro. Sono le necessità e i bisogni dell’essere umano che interessano Wallace, un autore che scrive con la mente e il corpo costantemente rivolti alla relazione umana, al rapporto tra sé e gli altri e a quello degli altri tra di loro. Nonostante fosse agorafobico, David Foster Wallace viene mandato come inviato, grazie al suo acuto e spudorato talento descrittivo, a partite di tennis e fiere di paese, in situazioni caotiche popolate da un’umanità variegata capace dei migliori e dei peggiori impulsi.

Una cosa divertente che non farò mai più, D.F. Wallace

Una cosa divertente che non farò mai più, reportage del 1997 da una nave da crociera, è un concentrato di ironia kafkiana e grottesca, filtrata attraverso la riflessione sullo scorrere del tempo e sull’ineluttabilità della morte. Un racconto allucinato della definitiva vittoria del capitalismo che per certi versi ripropone nella non-fiction le stesse tematiche della distopia di Infinite Jest.

L’occhio da Cassandra di David Foster Wallace si è spento agli albori di Facebook e Twitter, prima di Instagram e Snapchat. A quasi dieci anni dalla sua morte, non si può fare a meno di chiedersi a quali nuove ricerche stilistiche sarebbe approdato, a quali nuovi realismi, e come avrebbe raccontato, se avesse potuto continuare a scrivere, questa società liquida e postumana.

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