L’ultimo caso? Tim Cook di Apple alla Bocconi. Manager, attori, politici, scrittori: non ce n’è uno che si astenga dal pontificare dal pulpito, sia esso il palco di una conferenza o la scranna di un’aula universitaria. Non solo: negli Usa i Commencement speeches (comizi di fine corso tenuti da eminenti personalità) vanno così forte che sono quasi diventati un genere letterario. Su ilLibraio.it un viaggio-invettiva tra i casi più noti (da David Foster Wallace a Kurt Vonnegut, passando per Steve Jobs, Bill Gates e Bono Vox…). Spazio anche a un professore che va controcorrente, lo sferzante David McCullough. Un caso raro, perché quasi sempre a farla da padrone nei “predicozzi” sono retorica esistenziale e paternalismo. Non c’è da stupirsi, allora, che quasi un secolo fa c’era già chi tuonava contro “profeti e demagoghi” in cattedra. Era Max Weber…
Tutti in cattedra! Manager, attori, politici, scrittori: non ce n’è uno che si astenga dal pontificare dal pulpito, sia esso il palco di una conferenza o la scranna di un’aula universitaria. È quanto hanno appena fatto, ad esempio, Satya Nadella di Microsoft e Tim Cook di Apple, arringando gli astanti con esortazioni simili, pur essendo essi rivali: il primo ha invitato i giovani a «partire dal proprio paese per cambiare il mondo intero»; il secondo ha detto loro: «Spingete, andate oltre, portate più in là le frontiere». A ben vedere, sono un po’ gli stessi, frusti, vecchi slogan del Far West, venduti per nuovi e per buoni, così come la baggianata del “Think different” ha rifilato a tutti un prodotto di massa spacciandolo per elitario: a forza di pensieri diversamente abili, il club esclusivo non è mai stato tanto affollato, ma se è affollato non è più esclusivo, direbbe la logica binaria.
Tuttavia, di logica binaria nessuno parla mai, specie nei sermoni, e la retorica esistenziale la fa da padrona anche tra gli uomini di scienza: non fa eccezione il filosofo e matematico David Foster Wallace (scrittore e saggista di culto, suicida nel 2008, ndr), che è forse il capostipite della recente moda editoriale di pubblicare i Commencement speeches, i comizi di fine corso tenuti da eminenti personalità della cultura (ma anche della politica, dello spettacolo e dell’imprenditoria) e rivolti a diplomandi o laureandi. A sciropparsi i predicozzi sono sempre i giovani, mentre «i vecchi amano dare buoni precetti per consolarsi di non essere più in grado di dare cattivi esempi» (©La Rochefoucauld, non De André).
In libreria sono uscite di recente due raccolte di pensosi discorsi: Quando siete felici, fateci caso di Kurt Vonnegut (Minimum fax) e Ragazzi, non siete speciali! di David McCullough Jr. (Garzanti).
Il primo affastella consigli umoristici e/o paternalistici, da «mangiate tanta crusca» a «vi voglio bene; non dimenticate da dove venite; fate l’amore, vi fa bene», anche se il più riuscito resta: «Tornando a casa, guidate con prudenza!».
Il secondo, più prosaicamente e più onestamente, rubrica alcune «verità che non sappiamo più dire ai nostri figli», denunciando pure i falsi presupposti su cui si regge l’attuale sistema scolastico: «Troppi genitori vedono la scuola con il pensiero rivolto al futuro anziché al presente; la intendono solo come passaggio propedeutico a ciò che verrà dopo, come un mezzo per accedere a un altro mezzo e a un altro ancora». Così, paradossalmente, «il prestigio del prestigioso college non conta tanto per ciò che imparerete in quegli anni, quanto per le opportunità che vi metterà a disposizione dopo il conseguimento della laurea». A differenza della maggioranza degli oratori, che culla e blandisce gli acerbi uditori, McCullough argomenta in modo sferzante, come un pedagogo d’antan che stigmatizza se stesso e i colleghi prima dei mala tempora: «L’insegnante non è più solo un docente: è anche un istitutore, un terapeuta, un guru, un assistente sociale, un critico severo, un ministro senza portafoglio e un poliziotto di ronda. E per paura di apparire esclusivi o di intaccare l’autostima di un allievo, i docenti minimizzano i rischi pretendendo di meno, fissando obiettivi agevoli e profondendosi in elogi sperticati quando il ragazzo li raggiunge».
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Agli antipodi del j’accuse c’è il fool, il matto, il giullare di corte, il ruffiano del re: il suo motto più celebre è «Stay hungry. Stay foolish», citazione mutuata da The whole Earth catalog di Steward Brand e sparata in mondovisione da Steve Jobs nel suo Commencement speech a Stanford 10 anni fa, ancora oggi cliccato e osannato benché i consigli fossero poco educativi e molto adulatori: «Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete… questo approccio non mi ha mai lasciato a terra, e ha fatto la differenza nella mia vita».
Secondo la classifica del Time, il primo posto nel pantheon dei presenzialisti da università non spetta però a Jobs, ma al succitato David Foster Wallace, che in quello stesso anno, il 2005, tenne un discorso al Kenyon College, discorso edito, insieme con altri racconti, anche in Italia per i tipi di Einaudi. Per la raccolta fu scelto proprio il numinoso titolo dell’orazione: Questa è l’acqua.
In quell’occasione Wallace ebbe comunque l’umiltà di esplicitare «un altro dei grandi luoghi comuni (che) finisce per rivelarsi vero: la vostra educazione è realmente un lavoro che dura tutta la vita. E comincia ora». Stando alla top ten del Time, seguono lo scrittore e l’informatico Conan O’Brien, Russell Baker, Winston Churchill, George Marshall, John F. Kennedy, Bradley Whitford, Barbara Kingsolver e Stephen Colbert.
In America i Commencement speeches vanno forte, quasi quasi sono diventati un genere letterario: c’è pure un sito, Apps.npr.org/commencement, che costantemente monitora e pubblica i discorsi migliori. Quest’anno è entrato in classifica Denzel Washington, con il sibillino quote: «You will never see a U-Haul behind a hearse», «Non vedrete mai un U-Haul (marca di furgoni, pickup) dietro un carro funebre».
L’elenco è lunghissimo e va da Schwarzenegger alla Huffington, dal Dalai Lama a Obama, da Bill Gates a Bono Vox, da Marchionne a Sting, da Scorsese a Brodskij, che, nella melassa american style, porta un po’ di pepe dal Vecchio Continente: «Il mondo in cui state per entrare e vivere non ha una buona reputazione». Ci sono persino i consigli spirituali di Madre Teresa, che invita ad amare i poveri, e le banali chiacchiere di Chuck Norris, guidato nientemeno che dallo Spirito Santo.
Non c’è da stupirsi allora che, quasi un secolo fa, c’era chi tuonava contro «profeti e demagoghi» in cattedra, una moda diffusasi soprattutto «in America, dove queste cose si possono vedere nella loro più grezza ordinarietà». Era il 1919 e Max Weber si batteva per la Scienza come professione, insegnata da un «maestro» e non da un «capo, un profeta o un redentore… Se questi (il messia, ndr) non è fra noi o se il suo annuncio non è più creduto, non varrà certo a farlo scendere su questa terra il fatto che migliaia di professori tentino di rubargli il mestiere nelle loro aule, come piccoli profeti privilegiati o pagati dallo stato». Nessuno è profeta in patria, e in cattedra è ridicolo, se non peggio.