Su ilLibraio.it intervista a tutto campo all’attore Edward Norton (La 25ª ora, Fight Club, Grand Budapest Hotel, Birdman) per parlare di cinema & letteratura, e della sua passione per la scrittura (ma anche di serie tv e progetti futuri): “Ho sempre scritto molto: le mie impressioni, le mie idee sui personaggi che sto interpretando e spesso questa passione sfocia nella collaborazione alla sceneggiatura”. Quanto alle letture preferite, il divo cita Carver (“Adoro il suo modo di costruire i personaggi”), oltre a Garcia Marquez, Hemingway, Conrad, Salinger, Tom Wolf… Ma, a differenza di colleghi come Tom Hanks, James Franco e Viggo Mortesen, non ha intenzione di scrivere un romanzo: “Penso che parlerei continuamente del fatto che è incompiuto…”

Davanti a uno specchio mentre inveisce contro la sua città, una New York reduce dall’11 settembre; quando si inginocchia al centro della strada con le svastiche tatuate sul petto e viene arrestato; in tenuta d’ufficio mentre tenta di dissuadere Brad Pitt dal prenderlo a pugni e ancora in versione lampadata e slip intanto che si accinge, con piglio tutt’altro che minaccioso, a fare a botte col collega Michael Keaton. Sono davvero tante le scene di culto che hanno come protagonista l’attore statunitense Edward Norton, classe 1969. Una filmografia, la sua, segnata dalla collaborazione con grandi registi e da interpretazioni che gli hanno valso diverse nomination agli Oscar (finora incredibilmente mai ottenuto) e Golden Globe (al suo esordio con Schegge di paura al fianco di Richard Gere): Larry Flynt di Miloš Forman, Tutti dicono I love you di Woody Allen e poi American History XLa 25ª ora, Fight Club, The Score con due mostri sacri come Robert De Niro e Marlon Brando, la collaborazione con Wes Anderson in Moonrise Kingdom e Grand Budapest Hotel fino alla consacrazione con Birdman.

Laureato a Yale, affascinato dal Giappone dove ha iniziato a lavorare nella fondazione filantropica del nonno, figlio di un avvocato ambientalista e di un’insegnante di letteratura inglese, affianca fin da subito alla passione per la recitazione quella per la scrittura. E non è un caso che la maggior parte dei personaggi che ha interpretato siano tratti da romanzi destinati, insieme ai film, a diventare veri e propri cult.

Attore istrionico e raffinato, alieno dallo star system al limite dello snobismo, ha ricevuto lo scorso agosto il Premio Moët et Chandon al Festival del Film di Locarno, dove è stato accolto con grande calore e si è concesso al pubblico, pur centellinando foto e autografi, senza risparmiarsi, regalando a fan e addetti ai lavori un’immagine inedita e mai banale del suo mestiere di attore, aneddoti curiosi inclusi.

Norton durante la premiazione al Festival di Locarno

Mentre conversa, gamba destra sempre in movimento, dosa le parole, ironizza e ascoltandolo si può notare quell’impercettibile difetto di pronuncia che, portato agli estremi, ha contraddistinto il personaggio del chierichetto balbuziente di Schegge di paura – che nello script non prevedeva questa caratteristica – mostrando fin da subito la sua straordinaria bravura.

Per ilLibraio.it ha ripercorso la sua carriera seguendo il fil rouge dei romanzi da cui sono scaturite le pellicole che ha interpretato, inclusa quella che sta girando come regista, tratta da Motherless Brooklyn di Jonathan Lethem. E poi del suo amore per gli autori contemporanei e per la narrativa americana del Novecento, in cui spicca il Carver di Birdman, e la sua familiarità con la scrittura, tra adattamenti, sceneggiature e zibaldoni da attore.

Ma non chiedetegli di pubblicare un suo romanzo: «Meglio di no, mi sembrerebbe sempre incompiuto».

Come è nata la sua passione per la scrittura?
“Ho iniziato a New York a teatro. Scrivevo molto allora: testi teatrali, copioni televisivi, sceneggiature. Volevo diventare un attore, ma cercando di approcciare quest’arte da diverse angolazioni. Non pensavo sarebbe diventato un lavoro. Forse ho iniziato a scrivere perché temevo di non farcela come attore. Volevo fare qualcosa e ho provato varie possibilità per trovare la mia strada”.

La strada dell’attore ha prevalso, ma ha continuato a scrivere?
“Sì, ho sempre scritto e ancora oggi scrivo molto: le mie impressioni, le mie idee sui personaggi che sto interpretando e spesso questa passione sfocia nella collaborazione alla sceneggiatura”.

E in tal senso ha avuto mentori d’eccezione fin dai suoi esordi, come il grande regista Miloš Forman.
“Miloš Forman è uno dei miei idoli, ero affascinato dalla sua metodologia di lavoro e dai risultati ottenuti. Miloš è stato molto generoso con me, è stato un mentore, mi ha coinvolto nella scrittura e mi ha permesso di stare seduto con lui in sala di montaggio per veder crescere il film (Larry Flynt – Oltre lo scandalo del 1996, ndr) giorno dopo giorno. Mi ha insegnato che l’obiettivo non è recitare perfettamente, ma esplorare il personaggio, sperimentare”.

In seguito ha interpretato diversi film tratti da romanzi di riferimento, su tutti una pellicola cult come Fight Club (1999) al fianco di Brad Pitt. Che ricordi ha della prima lettura del copione?
“Quando David Fincher ci ha proposto di recitare nel suo film non ci ha inviato il copione, ma ha preferito mandarci direttamente il romanzo di Chuck Palahniuk. L’ho apprezzato molto, era cupo e divertente, ma avevo molta difficoltà a immaginarmi in un ruolo così diverso da me. Quando ho capito che il film era un’esperienza emotiva fortissima, ho cominciato ad apprezzare il lavoro. Ho lavorato a lungo con David allo script. In principio era quasi una rappresentazione shakespeariana, mi ci è voluto un po’ di tempo per convincermi che potevo superare i miei limiti. Alla fine sono stato soddisfatto del risultato e ho imparato che quando ho la sensazione di non essere adatto a un ruolo, che è troppo per me, devo comunque tentare perché il risultato può essere interessante”.

Poi ha incontrato un altro suo mito, Spike Lee. Come è stata la preparazione alla 25a Ora tratta dall’omonimo libro di David Benioff?
“David Benioff ha scritto anche soggetto e sceneggiatura. Il suo era un romanzo d’esordio e l’ho subito adorato. Solo un anno dopo la pubblicazione, nel 2002, stava già diventando un film nelle mani di Spike Lee. Da ragazzo ero un fan di Spike e già allora usavo la scrittura per avvicinarmi al cinema: gli scrivevo infatti molte lettere e quando ho lavorato con lui per La 25a ora conoscevo a fondo la sua filmografia. Fu la lavorazione più breve della mia carriera, appena 28 giorni, e non ci saremmo mai riusciti se io e gli altri attori, tra cui Philip Seymour Hoffman e Rosario Dawson, non avessimo già conosciuto il cinema di Lee. Conoscere linguaggio, tono e stile di un regista è importante per calibrare la propria recitazione”.

Come con Wes Anderson?
“Già. Prima di girare, Wes crea delle sequenze animate che riproducono le scene che ha in mente in cui doppia tutti i personaggi. Per noi attori è facilissimo. Basta ripetere quello che ha fatto lui, è come essere marionette nelle sue mani. Se guardi con attenzione i suoi film, capisci che, sotto la superficie e lo humor slapstick, Wes è un maestro delle emozioni”.

A proposito di emozioni, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore è il testo di Raymond Carver attorno a cui ruota Birdman, premiato agli Oscar come Miglior Film, in cui lei interpreta l’attore istrionico ma alquanto volubile Mike Shiner.
“Adoro Carver e il suo modo di costruire i personaggi. E sono grato ad Alejandro Iñárritu, per essere riuscito con Birdman a girare un film completamente diverso dai precedenti a livello emotivo e a livello tecnico. In tutti i personaggi del film c’è un po’ di lui. Birdman è una seduta di autoanalisi. La verità è che Alejandro ha un temperamento latino, è molto teatrale, ha una fortissima personalità. Nei suoi film c’è anche molta influenza letteraria, di Borges in particolare e dei suoi Labirinti”.

In una scena di Birdman, il protagonista, Riggan Thomson, interpretato da Michael Keaton, allunga al suo personaggio un tovagliolo di carta piuttosto datato, che porta la dedica autografa di Raymond Carver e dice: «Era a una recita scolastica. È stato grazie a lui che ho deciso di fare l’attore». Nel suo caso c’è uno scrittore che l’ha influenzata a tal punto?
“Ricordo quella scena del film. Shiner, il mio personaggio, posa lo sguardo sul tovagliolo per un attimo e stronca Riggan: «È il tovagliolo di un bar, Carver era ubriaco fradicio». Cinismo di Shiner a parte, a me personalmente Carver ha dato molto. Birdman si apre con la citazione di una sua poesia scritta in punto di morte: «E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto? Sì. E cos’è che volevi? Poter dire a me stesso di essere amato, sentirmi amato sulla Terra». Una bella aspirazione. Tra gli altri scrittori che prediligo ci sono Gabriel Garcia Marquez, Ernest Hemingway, Joseph Conrad, J.D. Salinger, Tom Wolfe. Apprezzavo anche Il Velo Dipinto di William Somerset Maugham (interpretato nel 2006 con Naomi Watts, ndr) da prima di portarlo sullo schermo”.

Alcuni suoi colleghi hanno recentemente esordito nella narrativa: Tom Hanks, James Franco, Steve Martin. Viggo Mortesen è persino diventato editore (a questo argomento ilLibraio.it ha dedicato un approfondimento). Vista la sua consuetudine con la scrittura, ha mai pensato di pubblicare un romanzo?
“Mi ci sono voluti anni e anni per portare i personaggi e le storie dei romanzi altrui sullo schermo. Se dovessi scrivere io stesso un romanzo, penso che parlerei continuamente del fatto che è incompiuto. No, meglio di no. Probabilmente tutti hanno un loro romanzo nel cassetto, ma non credo sia il mio dono”.

E invece qualche nuovo progetto per il cinema, magari come regista dopo l’esordio del 2000 con Tentazioni d’amore?
“Sì, sto dirigendo il mio secondo film tratto dal romanzo di Jonathan Lethem, Motherless Brooklyn. Il racconto è un veicolo per esplorare un periodo della storia di New York che mi interessava e con dei personaggi davvero affascinanti. Il protagonista è un detective affetto da sindrome di Tourette nella Brooklyn degli anni ‘50. Amo dirigere solo quando ho una storia che sento vicina. Fare l’attore è una bella vita e non mi va di farla saltare per ragioni superficiali”.

Cosa ne pensa delle serie televisive?
“Non ho alcun pregiudizio riguardo al lavorare in tv, mi interessa il contenuto, non la forma. Erano anni che desideravo produrre e scrivere Lewis e Clarke, una incredibile tappa della storia americana: la prima spedizione statunitense a raggiungere la Costa Pacifica via terra all’inizio dell’Ottocento. Immaginavo fossero dei personaggi-chiave da raccontare. Ho guardato alla tv, alla HBO, perché era una vicenda troppo vasta per essere contenuta in un film e ne sono scaturiti sei episodi di cui ho curato la sceneggiatura. Cary Fukunaga, il regista di True Detective che ha fatto un lavoro incredibile, mi ha poi proposto un progetto che crediamo sia perfetto per la struttura a episodi. Ci stiamo lavorando”.

Quale altro personaggio della narrativa contemporanea le piacerebbe interpretare?
“Ne ho interpretati parecchi. Non so se al momento c’è una figura in particolare. Forse ora non c’è, ma se gliene viene in mente una che può essere stimolante, mi contatti”.

Non mancherò.

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