La calligrafia è un’arte che, in un tempo in cui tutto è veloce e immediato, ci impone di scegliere di rallentare, e di osservare. “La bellezza del segno. Elogio della scrittura a mano” è un saggio in cui viene esaltata una pratica che ci permette di evadere dalla quotidianità e di entrare in contatto con le nostre emozioni… – Su ilLibraio.it il capitolo “Il tempo della scrittura è il tempo del pensiero”

“La nostra scrittura dice molto di noi. Come il nostro volto e la nostra voce, è unica e ci ‘assomiglia’: ci rappresenta e ci identifica, diversa dalla scrittura degli altri, è riconoscibile tra altre da noi”. Nel libro La bellezza del segno. Elogio della scrittura a mano (Laterza), Francesca Biasetton, presidente dell’Associazione Calligrafica Italiana, parla dei molti sensi e significati della scrittura e della calligrafia.

la bellezza del segno

Scrivere a mano rappresenta una forma di autoeducazione del pensiero, lascia spazio al tempo dell’immaginazione, dell’apprendimento, della progettazione. La calligrafia è un’arte che, in un periodo in cui tutto è veloce e immediato, ci impone di scegliere di rallentare, e di osservare.

“Quando si scrive il tempo rallenta, diventa nostro, ci distacca dall’assillante urgenza quotidiana, ci consente di stare con noi stessi; e tanto più questo è vero se si scrive a mano”.

Scrivere è un gesto che permette a chi lo compie di evadere da una quotidianità fatta di touch screen e tastiere, per recuperare il contatto con la materia, i tipi di carta, di inchiostri e non solo. È un modo per mettersi in contatto diretto con le proprie emozioni e la propria natura, lasciandole diffondere liberamente sul foglio di carta.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, un capitolo:

“Il tempo della scrittura è il tempo del pensiero”

Abbiamo erroneamente creduto di poter rinunciare alla scrittura a mano. Ci stiamo accorgendo che questa rinuncia significa rinunciare a una parte della nostra umanità.

«Io scrivo a mano da tempo immemorabile, continuo e continuerò a farlo finché mi sarà dato di continuare a farlo. E penso, più in generale, che chiunque non lo faccia rinuncia a una parte essenziale della sua capacità di esprimersi e dunque di esserci. Il salto, dunque, non è soltanto dalla scrittura a mano al computer: è, ed è sempre stato, dalla scrittura a mano alla macchina, a qualsiasi tipo di macchina. Come mai? È semplice. Nella calligrafia si specchia il mio pensiero. Anzi: la calligrafia è il mio pensiero. È sempre stato così e sempre lo sarà. Quando vedo sotto i miei occhi, nell’istante stesso in cui li concepisco, disporsi sulla paginetta bianca, anch’essa sempre uguale da decenni, i caratteri, ossia, sillabe, parole, righe di parole (più o meno, a seconda dei casi, compatte o diradate, incerte o sicure), segmenti di frasi, periodi, e persino cancellature, ripensamenti, rinvii, e difficoltà di comprensione da parte mia alla rilettura (che però servono anch’esse a pensare più a lungo, cioè meglio), riconosco in quella trama mobile ed estremamente creativa l’orma intellettuale ma anche animale del mio cervello, e da quei riflessi lascio che il mio cervello sia a sua volta influenzato. E i tempi, dove li mettiamo i tempi? I tempi della scrittura a mano sono, naturalmente, quelli del pensiero. Ora, i tempi del pensiero sono lenti, anzi più sono lenti meglio è. La scrittura a mano li rispetta, anzi ne costituisce, ne rappresenta il prodotto. La scrittura informatica, anche quando non lo si voglia, li forza oltre misura, anticipa in un certo senso quel che si pensa e, anticipandolo, lo determina».

Guardiamo più da vicino la natura dei documenti cartacei. Essi sono portatori del peso della loro materialità. Occupano spazio e richiedono tempo. I documenti in formato elettronico sono sicuramente più pratici, possono essere “spostati” velocemente, possono essere organizzati secondo diversi parametri che ne facilitano l’archiviazione, la ricerca e la consultazione, ma la loro immaterialità li rende vulnerabili. Un danno al supporto, un aggiornamento dei programmi o nuovi hardware li rendono inaccessibili. Vero è che abbiamo a disposizione la nuvola, ancora più immateriale – dov’è, di chi è il cloud che custodisce così tante cose che ci riguardano?

Anche i documenti cartacei, si dirà, sono vulnerabili al passaggio del tempo e ai suoi imprevisti: alluvioni, terremoti, umidità etc. Ma nella loro fisicità risiedono i dati “altri”, le tracce di chi li ha creati, consultati e maneggiati nel corso degli anni. In tutto il mondo si trovano biblioteche e archivi che custodiscono veri tesori, testimonianze del passato che ancora possiamo consultare: e possiamo toccarli, sentirne l’odore, vedere i segni del tempo e osservare i cambiamenti nei materiali, nella scrittura e nei caratteri, nell’organizzazione della pagina. Quale il fascino dei manoscritti che ci si presentano con la loro storia e la loro tangibilità! Non è solo il loro contenuto che ci parla, ma anche la loro forma: dell’oggetto, della scrittura, la materialità del supporto. Riempiono interi archivi del racconto visibile – e tangibile – del nostro passato. Documenti che risalgono a centinaia e centinaia di anni fa (mentre capita di non avere accesso a nostri file/documenti archiviati su supporti digitali ormai “superati”). Oltre al fascino dell’antico, essi contengono dati che aiutano a raccogliere informazioni e ricostruire storie: registri contabili, atti di proprietà, lettere, diari, manoscritti di romanzi e poesie, di trattati scientifici e filosofici, spartiti, quaderni di appunti. Sono documenti che raccontano anche il percorso dei pensieri di chi li ha scritti: le prime stesure, le lettere (sia la corrispondenza privata che quella formale), le annotazioni, i ripensamenti, gli errori, i disegni preparatori per quadri e affreschi.

Leggere, curiosare tra queste carte ci dà la sensazione – che risponde al vero – di accedere a qualcosa di speciale, di avvicinarci all’autore, di scoprire qualcosa di lui che il testo stampato non può dirci. Significa un accesso privilegiato al momento della creazione, dove correzioni, cancellature, note a margine e altri segni raccontano il testo “in divenire”. Un esempio su tutti: i numerosi scritti e codici di Leonardo da Vinci, un’infinita fonte di informazioni sullo sviluppo delle sue idee e intuizioni. Sono numerosi i disegni, tutti corredati da note compilate con la sua particolare scrittura speculare. Anatomia, meccanica, idraulica, aeronautica, matematica, progetti per fortificazioni, armi da guerra…

Pensare con la matita e attraverso di essa lasciare la traccia visibile dei propri pensieri: per diverse generazioni il percorso progettuale si svolgeva “con la matita in mano”. Enzo Mari ha disegnato – e scritto, a mano in corsivo – dieci lezioni di disegno, in cui spiega la procedura progettuale come da lui intesa, procedendo “per frammenti”, in relazione con il reale, pensando con la matita in mano: «La scelta di utilizzare la scrittura a mano, oltre che dall’esigenza di non far manipolare in alcun modo da altri il rapporto tra testi e immagini, nasce dal tentativo di costringere le persone a leggere, se non altro perché le pagine sono diverse da quelle stampate a cui sono abituate. […] Il disegno corsivo è necessario per trascrivere rapidamente il flusso inarrestabile del pensiero…».

Se osserviamo gli schizzi, che sono le prime idee che la mente trasmette e la mano trascrive, possiamo riconoscere lo sviluppo dei pensieri sulla carta: che sia la tovaglietta del bar (ah, al bar ti è venuto in mente!), un tovagliolo di carta, un bloc notes o un foglio da disegno. E quali strumenti le hanno trascritte: matite colorate e non, biro, pennarelli… Tanti gli elementi, alcuni apparentemente marginali, che nutrono il processo creativo. Perché farli andare perduti come materiali superati, irrilevanti rispetto al risultato finale? Prendiamo il caso della letteratura: «Più un’opera letteraria diventa classica ed entra nel canone, più tendiamo a dimenticarci che fu il frutto di un lavoro di progettazione, costruzione, scrittura, correzione e selezione. Scrivere direttamente al computer, facendo sparire ciò che abbiamo deciso di eliminare senza lasciare alcuna traccia di ciò che aggiungiamo dopo la prima stesura, ci fa essere meno sensibili al lato artigianale della composizione letteraria. Per fortuna, però, non è sempre stato così. Finché si è scritto con la penna, le tracce di ciò che passava nella mente di uno scrittore e da quella mente sulla carta (o sulla pergamena) si sono potute depositare […] I manoscritti svelano molto dell’epoca e del modo di lavorare degli autori».

Recentemente la stampa quotidiana ha dato spazio ad articoli che mostrano quale ricchezza di informazioni è contenuta nelle numerose annotazioni di Conrad ai suoi stessi testi; o nella prima e unica copia della rivista scritta a mano da Lewis Carroll diciassettenne; o nelle “schede” con gli appunti, i disegni e le lettere di Roland Barthes; o nelle infinite correzioni di Baudelaire ai suoi testi; o nei manoscritti di Dostoevskij, pieni di disegni ed esercizi calligrafici; ma anche nella lettera di Raffaello al papa per salvare i tesori di Roma; nella corrispondenza di Eleonora Duse; nel diario di Cavour e altri memorabilia; per non dire dell’archivio della Biennale che custodisce l’infinita corrispondenza intercorsa tra curatori, artisti e collezionisti… Le correzioni sulle bozze, le lettere, le note, le carte private che testimoniano e raccontano i ripensamenti sui testi, la corrispondenza con amici e colleghi, lo scambio di idee, i modi in cui si è lavorato, i tic. Quale bellezza!

«Ernst non buttava via niente: vecchi biglietti di corride, documenti d’identità scaduti, moduli del telegrafo. Era un accumulatore seriale. Come se quelle cose fossero pezzi sempre validi della sua esistenza. E soprattutto scriveva ovunque, su ogni foglio che gli capitava, della Croce Rossa, di un albergo, di una nave. Spesso a matita».

L’Harry Ramson Center di Austin, in Texas, custodisce i manoscritti, oltre che di scrittori del passato, anche di scrittori contemporanei come Don DeLillo, Norman Mailer, Julian Barnes, J.M. Coetzee, Doris Lessing, Tom Stoppard, David Foster Wallace e ha recentemente acquistato l’archivio di Ian McEwan.

«McEwan ha scritto i suoi racconti un po’ a mano, solitamente su blocchi verde uniforme con rilegatura a spirale, e un po’ con il computer. Dopo una prima stesura, trasferiva l’intero testo al computer, stampandone numerose bozze, per poi fare una revisione a mano. Il suo racconto Amsterdam, vincitore di un Booker Prize, è presente nell’archivio nelle sue prime stesure, in forma di

taccuino scritto a mano, seguito da due ulteriori bozze revisionate. Spesso, in queste bozze, McEwan annota dettagli sulla composizione, incluse le date di completamento e di revisione».

Lo scrittore austriaco Peter Handke tiene da sempre diari che chiama “Journal”. Lì annota i propri pensieri e abbozza disegni: «Quella matita, infaticabile, non smette un attimo di lasciare le sue tracce sul campo. E dalla sua punta, insieme alle parole che danno forma ai pensieri, insieme al groviglio della scrittura che dà il ritmo alla giornata e alla vita, intrecciate a parole e scrittura, inseparabili da esse, sorgono figure, immagini, “disegni”».

Viene da pensare che «un tempo si scriveva ciò che si pensava, oggi si pensa ciò che si scrive, un’inversione logica che impoverisce tanto la scrittura quanto il pensiero».

 

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