Con una trama fatalmente sospesa fra menzogna e rivelazione, l’ultimo Woody Allen conferma che è New York, con la sua intrinseca forza mitopoietica rigenerante, la vera per-versione del regista – La recensione

“It always rains on the unloved” recita una didascalia toccante e definitiva di Charles Schultz, che accompagna la vignetta di un Charlie Brown solo e sconsolato sotto la pioggia battente. È un po’ l’equivalente poetico della proverbiale e grottesca nuvoletta fantozziana, che pedina l’impiegato frustrato e scontento che lavora in ciascuno di noi. Del resto, simile alla Tempesta shakespeariana foriera di naufragio e come le lacrime nella pioggia finali di Blade Runner, la temperie attuale appare inclemente in un’America alla deriva, anche se, perfino in un clima apocalittico, Il corvo auspicava che non potesse piovere per sempre.

Così l’ultimo Woody Allen, mai stato profeta in patria, e per di più in questo caso ostracizzato dai circuiti distributivi Usa e disconosciuto dai suoi stessi attori nella buriana mediatica più che legale del #metoo, appare significativo che scelga proprio una giornata uggiosa newyorkese per il suo nuovo film, sedotto e abbandonato da Amazon. Come se fosse preparato ad affrontare le burrascose sorti del frangente socio-politico e le sferzate del brutto tempo e della cattiva stampa, oltre alle abituali variabili della vita sentimentale, provando ancora una volta, e nonostante i fulmini all’orizzonte, a singing in the rain.

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In una trama dunque fatalmente sospesa fra menzogna e rivelazione, illusione e disincanto (momenti chiave dei due mestieri più vecchi del mondo: il secondo dei quali, ci dice Woody levandosi un sassolino, è il giornalismo), con una mossa alchemica degna di Zelig, Woody trasforma i lamenti e i sospiri in allegri raggiri, come direbbe Shakespeare, consapevole che “when you’re smiling the world will smile with you“, anche se non tutti dicono I love you.

La dichiarazione d’intenti è chiara, affidata al personaggio di una Selena Gomez sexy e volitiva, dalle labbra umide e carnose: “La vita reale è per chi non sa fare di meglio”. Ecco che Gatsby Welles, sintesi di grandeur, tic e vizi alleniani in corpo di Thimothée Chalamet (genio del poker, lettore onnivoro e amante del jazz, newyorkese nel midollo, nostalgico della Manhattan in bianco e nero, con vocazioni, letteraria e cinematografica, inscritte nel nome), si ritrova come un giovane Holden cresciutello in un weekend newyorkese di divagazione e disillusione, messe in scena e messe a fuoco, in una città che può essere ancora avventura e mito, memoria cinematografica e spazio privilegiato della sospensione d’incredulità.

Sotto le giravolte sentimentali, mosse fra le lusinghe eteree dell’immaginazione (di un’età dell’oro che è sempre altrove o confinata all’istante) e degli istinti e re-pulsioni del corpo (che parla, comicamente ma puntualmente, col riflesso inconsulto della risata e del singhiozzo, ma rimane pur sempre un passo indietro, sovrastato dalla parola), il vero amore duraturo che si consuma è quello per Manhattan.

“Adorava quella città…”: tutti ricordano l’incipit gershwiniano dell’innamorato. E forse è qualcosa più di un motto di spirito la battuta di Crimini e misfatti: “L’ultima donna in cui sono entrato è la Statua della Libertà”.

Ecco che la pioggia, tramutata in baluardo di romanticismo e autenticità, in un mondo opportunista e manipolatore (quantomeno facilmente manipolabile, come la Elle Fanning smorfiettosissima che recita la fidanzatina dal deserto dell’Arizona nella metropoli tentatitrice), bagna di una patina avvolgente e luccicante il corpo urbano, fatto di zone erogene inattese, agente moltiplicatore di storie e di destini, luogo fiabesco dove il tempo si sospende (l’appuntamento sotto l’orologio memore di Vincent Minnelli), spazio della rivelazione.

Allen sembra sapere bene che il tempo è un’invenzione degli uomini che non sanno amare, e la sua vera, innocente e incestuosa passione è in fondo riservata per la sua New York. Quando Gatsby scende dalla carrozza che solca, come un cliché di romanticismo, Central Park, eco di quella stessa sulla quale Isaac Davis di Manhattan mostrava Tracy come la risposta di Dio a Giobbe (“faccio tante cose orribili però…”), ecco l’illuminazione alleniana, l’ec(città)zione che conferma la regola e rispedisce al mittente ogni maldicenza: è la città, la sua intrinseca forza mitopoietica rigenerante, la vera per-versione di Woody.

L’AUTORE: alla pagina dell’autore tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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