“L’ingrata” di Dina Nayeri non è una semplice autobiografia che vuole riportare a galla i ricordi di un passato da profuga, ma è un percorso esplorativo su cosa significhi adattarsi a un luogo sconosciuto con la paura di non essere mai abbastanza riconoscenti, mai sufficientemente rispettosi del sogno occidentale a cui tutti i profughi, anche inconsapevolmente, sono chiamati a uniformarsi – L’approfondimento

“Ogni paese appartiene a chi ci è nato. Gli altri possono entrare, ma a una condizione: restare al proprio posto e rinunciare a se stessi”.

Dina Nayeri all’età di 8 anni ha scoperto di non essere speciale. Si è sorpresa con questo pensiero in una giornata di calura a Dubai mentre, da profuga iraniana, faceva i conti con un mondo più vasto e complicato del previsto, soprattutto per gli occhi di una bambina. La sua vita a Esfahan era semplice, l’unico conflitto era quello con la compagna di classe per arrivare prima nella classifica dei voti appesa sul muro della scuola. Quel gesto di guardare ora non è più teso a sbirciare i voti più alti, ma è sperduto su un mondo e un cammino ancora poco leggibile e senza una meta precisa.

L'ingrata Dina Nayeri

Sono gli anni ‘80 quando la madre di Dina, minacciata di morte dalla polizia morale iraniana per il suo cristianesimo, prende lei e il fratellino per portarli lontano dall’Iran dell’Ayatollah Khomeini. Da qui inizia una storia che la nostra cronaca conosce bene, quella di una famiglia in fuga alla ricerca di un luogo dove trovare pace.

La sua destinazione finale è l’Oklahoma, dove Nayeri è determinata non solo a trasformarsi in un’americana a tutti gli effetti, nella mente e nel corpo, ma di tornare a essere speciale per sé e per chi le sta attorno decidendo di entrare ad Harvard.

L’ingrata (Feltrinelli, traduzione di Flavio Santi) non è una semplice autobiografia che vuole riportare a galla i ricordi di un passato da profuga, ma è un percorso esplorativo su cosa significhi adattarsi a un luogo sconosciuto con la paura di non essere mai abbastanza riconoscenti, mai sufficientemente rispettosi del sogno occidentale a cui tutti i profughi, anche inconsapevolmente, sono chiamati a uniformarsi.

Ed è proprio questo che Dina riscontra a ogni età della sua vita: il dovere morale di essere grata. La maestra da piccola le ricorda che deve sentirsi fortunata a vivere in America, così come l’amico la prende a modello di straniera che ce l’ha fatta a diventare qualcuno e a integrarsi. La sua vita prima di arrivare in America non è mai oggetto della minima curiosità, nessuno le chiede di suo nonno che si toglieva i denti finti per raccontare ai bambini storie di fantasmi, o del papà con le amarene sempre fresche nella tasca dei pantaloni o dell’albero bellissimo nel giardino della sua casa a Esfahan. Tanti piccoli dettagli di gioia che sfuggono allo sguardo di chi si sente benefattore.

La sua storia non è solo sua, ma con sfumature diverse, appartiene a tutti quei profughi che bussano alle nostre porte, per questo Nayeri inframezza il libro di altre vite, quelle dei rifugiati che da adulta incontra nei campi profughi in Grecia e nei Paesi Bassi, raccontandole con dolcezza e mostrando la difficoltà di queste persone ad adattarsi. Come Dario, un iraniano perseguitato per il suo coinvolgimento con la donna sbagliata, o le storie incrociate di Kaweh e Kambiz, che sono fuggiti dall’Iran a causa della loro affiliazione con KDPI, un gruppo ribelle democratico curdo. Anche se la fuga in questi casi è l’unica alternativa alla rovina, con essa arriva anche un lunghissimo e spesso insopportabile periodo di attesa, che trasforma la vita in un limbo oscuro che a volte si allontana di molto dalla narrazione del profugo modello; come succede per Kambiz che, nel centro di Piazza Dam ad Amsterdam, dopo una lunga attesa di richiesta asilo, si è dato fuoco.

Può interessarti anche

Anche Nayeri passa gli anni della sua formazione a confrontarsi con l’attesa, quella dei campi profughi e della richiesta di asilo, prima a Dubai poi all’Hotel Barba a Roma, posti dove da piccola ha sperimentato per prima quella strana sensazione di aspettare di vivere la propria vita, lasciandosi scorrere addosso il tempo, e dove ogni volto di rifugiato che aspetta non ha un passato o una sua identità, se non in funzione di quella attesa.

“Come la maggior parte dei profughi dopo una fuga in cui si rischia la vita, io e la mia famiglia eravamo docili, estasiati, pieni di gratitudine. Ma avevamo corso i nostri pericoli. Se la mente razionale assomiglia a una strada liscia, la nostra è piena di buche, resa impervia dalla paura e dalla paranoia”.

Tre decenni dopo, Nayeri si trova divorziata, vive a Londra con un nuovo compagno e la loro figlia. Ma anche qui, fa fatica a dare un senso ai luoghi in cui vive, e di cui si sente, malgrado tutto, ancora ospite, ancora intrusa. Così cucina piatti persiani alla ricerca della sua identità iraniana nella disperata speranza di riuscire a trovare un equilibrio tra il proprio animo e i luoghi che lo hanno attraversato.

L’esigenza di questo libro nasce per l’autrice durante l’insediamento del presidente Trump e della sua messa al bando dei rifugiati negli Stati Uniti. Atto che sancisce quel pungente sentimento di supremazia dell’americano medio e il cui l’inevitabile risultato è l’esclusione di tutto ciò che è altro.

Ed è al di là di sinistra o destra, democratici o repubblicani, che ne L’ingrata emerge un’unica grande narrazione che racconta di chi, straniero, varca i confini di un luogo che non potrà mai sentire suo a patto di un’assimilazione culturale di successo, al di là del dolore, del ricordo e della propria essenza più sincera e profonda. L’unico mezzo per medicare queste ferite è la responsabilità e l’umanità di chi accoglie, come Nayeri dichiara in un articolo per il Guardian: “È obbligo di ogni persona nata in una stanza più sicura aprire la porta quando qualcuno in pericolo bussa. È tuo dovere risponderci, anche se non ti forniamo storie di successo zuccherate. Anche se rimaniamo un gruppo di iraniani ordinari, a volte amari o confusi”.

Abbiamo parlato di...